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CRISI IN COREA: LA PARTITA IN GIOCO

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Lo “stato di guerra” e lo sviluppo dell’armamento nucleare (definito da Kim Jong Un l’unico “deterrente” contro la guerra e pilastro su cui costruire “pace e prosperità”, quindi non un atto aggressivo, ma difensivo) dichiarato dal nord; l’intensificazione delle manovre militari congiunte sudcoreane-statunitensi. Queste sono in estrema sintesi le sporadiche notizie giunte ai media occidentali.

Ma la posta in gioco della nuova “guerra fredda” intercoreana sembra decisamente più corposa. Innanzitutto va sottolineato che anche gli analisti occidentali non registrano sostanziali movimenti di truppe del nord, tanto da far sembrare poco plausibile un’aggressione nordcoreana al sud e sembra che ci sia stata assicurazione in tal senso da alti esponenti dell’esercito a controparti cinesi. Quindi cosa si nasconde dietro alle dichiarazioni energiche del giovane leader Kim Jong Un? Principalmente una reazione alle manovre congiunte Seul-Washington Key Resolve e Foul Eagle, che prefigurano senza dubbio un atto di guerra (con tanto di proteste delle associazioni pacifiste e per l’Unificazione della penisola), visto che prevedono la mobilitazione di forze militari non indifferenti (oltre 45.000 soldati) a cui va aggiunto l’invio dei bombardieri F-22 Raptor nella penisola, e allo stesso tempo un segnale nei confronti di Cina e Russia, che in sede ONU avevano approvato le nuove sanzioni contro la RPDC, in seguito al lancio del missile balistico intercontinentale di inizio marzo. Un messaggio al mondo, sia agli alleati sia ai nemici, di un presidente giovane ma sicuramente non sprovveduto, come viene dipinto da Occidente, che in poco più di un anno ha saputo mantenere inalterato il complicato sistema di potere a Pyongyang, ottenendo la fiducia dei due grandi pilastri su cui si reggono il governo e la dottrina Songun: cioè Partito ed Esercito. Inoltre è il primo presidente nordcoreano che ha la prospettiva di muoversi in uno schema mondiale veramente multipolare: ciò a differenza del nonno, Kim Il Sung, che ha retto il paese durante la guerra fredda (è morto nel 1994) e del padre, Kim Jong Il, che è stato Presidente nell’epoca dell’unipolarismo e della “fine della storia”, dovendo subire anche la dura prova dell’“Ardua marcia”, cioè del periodo di crisi intensa dovuta alla caduta del socialismo reale e a catastrofi naturale (1994-2011). Il giovane Kim può contare su alleanze forti (considerando che Russia e Cina partecipano anche al BRICS e allo OCS) che si possono porre su un piano di parità con la potenza statunitense, già ammonita in merito a soluzioni unilaterali, oltre che su una serie di interlocutori in potente crescita economica e geostrategica, come Thailandia, Mongolia e Iran, che potrebbero fungere da forze di intermediazione nella disputa, e su una serie di “simpatizzanti antimperialisti” come Venezuela, Cuba e Siria che potrebbero movimentare non indifferenti “masse critiche” contro un’aggressione nei confronti dello stato socialista, principalmente nelle popolazioni latinoamericane e nel mondo arabo. A ciò va aggiunto un esercito (Chosŏn inmin’gun, l’Armata Popolare Coreana) che, nonostante debba pagare il fio nei confronti della controparte sudcoreana negli aspetti prettamente tecnologici, può contare su un’unità di intenti, su un numero di soldati che ne fa il quarto esercito al mondo (1 milione e 200 mila unità, con una riserva che si aggira attorno ai 4 milioni e mezzo di uomini), e su una conoscenza dell’ostico territorio della penisola e dei siti strategici su cui i servizi americani e sudcoreani sono in notevole difficoltà. C’è inoltre la consapevolezza di aver superato il periodo più duro e di ristrettezza economica e il paese è in progressivo sviluppo economico, verso una vera prosperità, magari guardando anche alle politiche di sviluppo portate avanti dalla Cina.

Nella prospettiva del potere nordcoreano quindi non manca la fiducia nella risoluzione positiva dell’annosa divisione forzata e antistorica della penisola coreana.

Va ricordato, in sede storici, che nella conferenza di Jalta la suddivisione del mondo voluta da USA e URSS non prevedeva la divisione della penisola coreana, che fu definita Stato “neutrale”. Solamente un colpo di mano statunitense contro le armate di Kim Il Sung, liberatore della Patria, privò il popolo coreano dell’effettiva unificazione, ponendo il confine al 38° parallelo per una semplice questione strategica.

Nella partita entrano di diritto i due alleati, nonché paesi confinanti, di Pyongyang: Cina e Russia. La Cina, in caso di conflitto, difficilmente potrebbe esimersi dall’intervento a favore del Nord. Ragioni storiche, culturali, ideologiche e geopolitiche sono tutte dalla parte di un’alleanza tra Pechino e Pyongyang. Tanto più che la Cina deve farsi “perdonare” almeno due scelte politiche che sono state vissute come una sorta di tradimento dal Partito del Lavoro di Corea: il riconoscimento di Seul e le recenti sanzioni in sede ONU (anche se è evidente che la scelta di Pechino era del tutto naturale nel momento in cui gli accordi a 6 erano stati violati). Ma la solidarietà con i “fratelli d’armi” nordcoreani non è mai venuta meno, e Pyongyang lo sa (non a caso il “viaggio di investitura” di Kim Jong Un è avvenuto in Cina). A sostegno di questa tesi è stato recentemente rimosso il vicedirettore del quotidiano della Scuola Centrale del Partito Comunista Cinese, Deng Yuwen, fortemente critico verso Pyongyang.

Anche la Russia, pur non intervenendo direttamente nella disputa, avrebbe grosse problematiche a lasciare strada libera agli Stati Uniti nell’invasione del Nord, soprattutto considerando che con una presa di Pyongyang, le forze militari di Washington si troverebbero ad un tiro di schioppo da Vladivostok, completando di fatto quell’accerchiamento ad oriente che ha le sue roccaforti nell’Alaska, in Guam, nelle Hawaii, nel Giappone e a Seul e che ora trova un contenimento solo dalla presenza della RPDC e dalla fermezza cinese su Tibet e Xinjiang.

Ma in definitiva l’unico vero interlocutore che può sbloccare lo stallo sembra essere la Corea del Sud. È nota la posizione di Pyongyang, già proposta negli anni ’60 a Seul, con una straordinaria lungimiranza, da parte di Kim Il Sung: confederazione coreana dei due stati, con due sistemi distinti, ma pienamente democratici e soprattutto liberi da qualsivoglia presenza militare straniera e quindi sovrani. Se al nord la presenza straniera è ormai un lontano ricordo, al sud è ancora invadente la presenza americana (oltre 60.000 soldati e 19 installazioni militari). E a Seul sembra non ci sia la volontà di ottenere una vera sovranità. L’accordo fu anche posto sul tavolo delle trattative a fine degli anni ’90 e nei primi anni 2000, con la riduzione della presenza statunitense ad una sorta di “Guantanamo coreana”, cioè in una base extraterritoriale nel sud della penisola. Ma vuoi l’effimera crescita economica sudcoreana (effimera perché pompata a dismisura da investimenti speculativi statunitensi e spinta da un turbocapitalismo completamente estraneo alla storia coreana, tant’è che è sempre presente una forte critica sindacale e socialista a queste misure) e la presa di posizione di George Bush contro Pyongyang (inserita nell’Asse del male), pose fine al dialogo e all’apertura. Ma la partita sul tavolo è ancora attuale: avrà la Corea del Sud il coraggio di accettare l’unica strada percorribile per la riunificazione, abbandonando l’alleato (o per meglio dire, il sovrano) statunitense e incamminandosi nel percorso di sviluppo asiatico dettato dalla Repubblica Popolare Cinese?

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COME USCIRE DALLA CRISI COREANA. INTERVISTA AD ALDO COLLEONI

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Intervista a cura di Marco Bagozzi
 
Aldo Colleoni, già Docente di Geopolitica ed autore di 120 pubblicazioni, è indubbiamente l’italiano che da più tempo e in modo più approfondito conosce la Repubblica Democratica Popolare di Corea: i suoi rapporti coi dirigenti coreani risalgono agli anni ’70. Ha ricoperto il ruolo di Presidente dell’Ufficio di Corrispondenza Commerciale con l’Italia per oltre dieci anni prima della apertura delle relazioni diplomatiche tra i due Stati, alle quali ha contribuito in modo determinante. Colleoni ha aperto a Pyongyang nel 1980 il primo ufficio europeo, ricevendo attestazioni di solidarietà dallo stesso Presidente Kim il Sung e da suo figlio Kim Jong Il, allora dirigente del Partito, dal quale è stato decorato con l’onorificenza di Stato, l’Ordine della Fratellanza. Ha tenuto corsi sulla economia occidentale a Pyongyang e ha visitato il Paese, le fabbriche, il 38° parallelo e le difese militari; ha gestito nel Mediterraneo la flotta mercantile della RPDC aprendo un ufficio a Trieste con personale coreano; ha guidato e organizzato la visita in Corea delle prime delegazioni ufficiali italiane prima della apertura delle relazioni diplomatiche. Colleoni è ancor oggi in contatto permanente con esponenti delle strutture di Partito e di Governo della RPDC.

 

 

D. Perchè si è creata questa situazione di tensione nell’area?

R.  Durante la visita del Presidente Obama ad Israele, dopo la sconfitta militare e politica degli USA in Iraq e Afganistan, dalle sue dichiarazioni è emersa la chiara volontà dei gruppi di potere dell’industria di armamenti USA di aprire  nuovi fronti di guerra: il primo contro l’Iran a sostegno di Israele ma in realtà mirante alle grandi riserve petrolifere iraniane e il secondo quale monito al continuo rafforzamento della Repubblica Popolare di Cina, che ha sostituito la presenza dell’URSS nell’America centrale e meridionale, in Africa e in Asia.

 

D. Qual è il ruolo della RPDC in questo contesto?

R, – Nella Corea del Sud è presente una delle più grandi basi USA con armamento atomico per il controllo della Cina, della Russia siberiana e della RPDC. Da questa base è partita la provocazione – ormai ricorrente ogni anno – contro la RPDC, denominata manovra congiunta con la Sud Corea. Ma ad aggravare questa volta la situazione è stato l’arrivo di nuovi bombardieri e aerei spia invisibili per monitorare il territorio nordcoreano, che ha provocato una giusta, decisa e coraggiosa reazione da parte della RPDC e del suo giovane dirigente. Lo scopo come sempre è il tentativo degli USA di far insorgere la popolazione del Nord contro il Partito e il Governo, per insediare un regime filoamericano come al sud ai confini della Repubblica Popolare Cinese, la vera grande potenza mondiale del XXI secolo. Il tentativo anche questa volta è fallito, perché popolo, esercito, partito si sono stretti attorno al loro Presidente. E’ un chiaro messaggio, rivolto  agli USA, di rifiuto delle ingerenze straniere nel processo pacifico di riunificazione della penisola coreana, processo che avanzava decisamente nel reciproco interesse. Ciò ha scatenato la provocazione USA, tesa a bloccarlo per evitare la riunificazione e  la conseguente formazione di uno Stato confederale di 60 milioni di abitanti, che certamente non avrebbe più gradito la presenza della grande base militare americana.

 

D. Quali possibili passi per uscire dalla crisi e rilanciare il processo di pacifica riunificazione?

R. – La soluzione è semplice: ripristinare la situazione geopolitica dei primi mesi di questo anno. In concreto, ciò significa: sospendere immediatamente le manovre congiunte con il sud contro la RPDC, ripristinare gli accordi di Ginevra voluti dalla amministrazione Clinton, organizzare un incontro immediato a Ginevra dei tre Ambasciatori di USA, RPDK, Sud Corea, per confermare i due punti precedenti e fissare la data per la firma del trattato di Pace che metta fine all’armistizio del 1953.

 

D. Professore, ritiene che questi tre punti possano risolvere lo stato di tensione attuale?

R. – Certamente rappresentano i punti essenziali per ripristinare i contenuti degli accordi di Ginevra voluti da Clinton, per poi procedere celermente sulla strada della riunificazione pacifica senza ingerenze straniere, già concordata e in fase di positiva attuazione tra le due Coree.

 

 

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UN “OMBRELLO” DA RIFIUTARE NELL’INTERESSE EUROPEO

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Il caso del MUOS di Niscemi risolleva la questione delle basi statunitensi disseminate per l’Italia, l’Europa e il pianeta. Chi critica la decisione di fermare la costruzione della base in Sicilia argomenta tirando in ballo la logica del “non nel mio cortile”; cioè: vogliamo sì le comodità e le sicurezze della modernità, senza però volerne pagare il prezzo. Il punto è, tuttavia, proprio questo: abbiamo ancora bisogno dell’ombrello nordamericano? La Guerra Fredda è finita da un pezzo, non viviamo più in un mondo bipolare, spaccato tra il blocco statunitense e quello sovietico. Ora la situazione è più frammentata, e l’Europa potrebbe essere più forte e rivendicare strategie geopolitiche indipendenti dalla politica estera degli USA.

Per prima cosa, l’Europa dovrebbe cercare di appianare i suoi dissidi e le sue rivalità intestine, e cercare di stabilizzare e rendere più equa la situazione economica al suo interno. Le enormi sperequazioni tra i vari Stati membri ci offrono un’Europa a velocità diverse, ma con la stessa moneta, per cui c’è già chi parla di creare un euro forte e uno debole. Ovviamente un tale sistema non può reggere per molto tempo e in tutto il Continente proliferano i gruppi politici che invocano l’uscita dalla moneta unica. Guardare per prima cosa al proprio interno, dunque, e per seconda cosa consolidare o creare i rapporti con i cosiddetti Paesi emergenti, cercare di spingere la ricerca verso fonti energetiche alternative, e nei limiti del possibile pulite, visto che l’Europa non ne dispone molte.

Contemporaneamente, l’Europa dovrebbe munirsi di un esercito unitario e, a quel punto, che senso avrebbe per le forze statunitensi rimanere? Le ragioni di tale permanenza le ha fornite chiaramente Mark P. Hertling, Comandante delle Forze Statunitensi in Europa: “L’Europa è un’area strategica da cui possiamo supportare operazioni che si svolgono in questo emisfero, mentre lavoriamo con i nostri alleati e partner e in questo modo il nostro obiettivo è quello di rispondere a tutte quelle sfide che stanno emergendo nel XXI secolo”.

Solo in Italia i militari statunitensi sono 2.600, in tutta Europa 40.000 (dati del 2012). Obama ha sì detto che intende ridurre il numero dei militari in Europa, di circa 10.000 unità, ma le spese in campo bellico rimangono ancora una priorità per gli Stati Uniti. La Cina ha superato gli Stati Uniti come volume d’affari, ma dal punto di vista militare è ben lungi dal raggiungerli; se la Cina ne ha spesi poco più di 100, questi ultimi hanno, infatti, raggiunto quasi i 700 miliardi di dollari nel 2012, cui si aggiungono gli sforzi dei suoi alleati al di là dell’Atlantico, e tutto questo materiale dovrà, prima o poi, essere usato.

Il caso del MUOS, poi, coinvolge anche la questione dei droni e, con essi, la forma di guerra più vigliacca mai condotta nella storia. Il Presidente degli Stati Uniti, Premio Nobel per la Pace e Comandante in Capo del più potente esercito del mondo, ha dichiarato che, se potesse, manderebbe in Afghanistan solo automi, per non sacrificare la vita dei militari suoi connazionali; difatti, ha intensificato l’uso dei droni, dispiegandone molti di più di quanto non fece l’amministrazione Bush Jr.

All’interno di questo quadro, è interessante osservare il caso del Kosovo. Un fazzoletto di terra dentro la Serbia, a maggioranza albanese, si dichiara indipendente; gli Stati Uniti appoggiano la richiesta e, nonostante il Consiglio di Sicurezza Onu non appoggi l’intervento, intervengono militarmente adducendo come motivo una pulizia etnica effettuata da Milosevic. Il Kosovo ottiene così l’indipendenza e la più grande base statunitense di tutta Europa. La posizione strategica e geopolitica è importantissima: in funzione antirussa e per il controllo dei flussi di petrolio che coinvolgono l’area del Mar Caspio, il Vicino Oriente, l’Europa orientale e parte di quella mediterranea. A questa base (Bondsteel) sono da affiancare quelle situate in Romania, Bulgaria, Croazia e Montenegro.

Non deve, quindi, stupire quanto detto dall’ex-segretario di stato Hillary Clinton nell’aprile del 2012 e cioè che gli USA si impegneranno affinché il Kosovo entri non solo nella NATO, ma anche nella UE.

C’è però la questione Regno Unito, che in virtù della “speciale amicizia” che lo lega agli USA, e delle relazioni tra la borsa di Londra e quella di New York, sembra tenere molto di più all’alleato oltreoceano che all’Europa. Del resto recentemente David Cameron ha annunciato che la permanenza nella UE è in discussione. Dovrebbe quindi decidere cosa volere fare da grande, continuare a seguire gli USA nelle loro politiche economiche ed estere, o cercare, assieme a tutto il resto dell’Europa, una via alternativa?

Similmente la Francia dovrebbe lasciarsi alle spalle la sua storia coloniale, e non intromettersi più nelle questioni interne a quelle che considera ancora le proprie colonie.

L’Europa, infine, non dovrebbe persistere nella scelta di assecondare gli USA nella loro politica nel mondo arabo e musulmano, ma dovrebbe trovare rapporti diversi; in tale compito dovrebbe impegnarsi in particolare l’Italia, che per posizione geografica e relazioni storiche ha sempre avuto rapporti privilegiati con alcuni Paesi arabi. Questa inversione di rotta produrrebbe, oltre tutto, il non trascurabile risultato di sfoltire le schiere dell’estremismo settario, contribuendo alla pacificazione dell’area.

 

 

* Francesco Viaro è laureato in Lingue e Letterature straniere presso l’Università degli Studi di Padova.
 

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IL RITORNO DEI MARO’

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La contesa tra i governi dell’Italia e dell’India va avanti da Febbraio (dell’anno scorso, ndt), quando due marò italiani furono catturati e arrestati dalle autorità indiane nella regione del Kerala. I due militari erano in servizio per conto della Marina come contractor a bordo della petroliera privata italiana Enrica Lexie. Il 22 febbraio sono stati coinvolti in un caso di omicidio. Due pescatori indiani sono stati uccisi nello stesso spazio marittimo. Qualche ora dopo, la Guardia Costiera Indiana bloccò la nave e ordinò all’equipaggio di attraccare al porto di Kochi.

Da allora, l’India ha sempre considerato la questione sotto la sua giurisdizione e l’Alta Corte del Kerala continua a rivendicare il pieno diritto a condurre le indagini e a stabilire la competenza processuale. Tuttavia il governo italiano reclama una propria competenza specifica, in base all’ipotesi che il duplice omicidio sia avvenuto in acque internazionali.

L’ultimo braccio di ferro è cominciato quando il ministro degli Esteri italiano Giulio Terzi ha deciso di non rispettare l’accordo con il primo ministro indiano Manmohan Singh, trattenendo i marò in Italia e bloccando il loro ritorno in India dopo un permesso per fare temporaneamente ritorno in Italia in occasione delle elezioni politiche. Il governo indiano ovviamente ha condannato questa decisione e Singh l’ha reputata inaccettabile, minacciando ripercussioni nei rapporti bilaterali tra i due Paesi durante un discorso ufficiale al Parlamento.

L’opinione pubblica indiana si è immediatamente concentrata su questa disputa. La memoria dell’era imperiale è ancora forte in India, dove il nazionalismo indù si oppone tanto all’eredità dell’Impero Britannico quanto a quella degli “invasori” del Mughal islamico, che governarono l’India nel passato. Il colonialismo resta una delle tracce più negative sull’eredità storica occidentale e le piaghe lasciate in Asia e in Africa sono ancora profonde.

Oggi l’India è una delle più considerevoli potenze mondiali, forte di un’economia crescente e dotata di significative capacità militari. Diverse contraddizioni ovviamente rimangono: l’inquinamento, una rilevante fascia di popolazione sotto la soglia di povertà, la discriminazione sociale e la divisione tra le varie caste, il terrorismo e il crimine. Tuttavia, la posizione del mercato indiano all’interno dell’Organizzazione Mondiale per il Commercio è notevole e il ruolo giocato da questo Paese nel quadro di importanti vertici internazionali come il BRICS o l’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai fa dell’India un attore geopolitico profondamente influente.

Terzi si è subito reso conto di aver commesso un grave errore diplomatico e ha così abbandonato la sua decisione iniziale, anzi accettando le richieste dell’India, ma i partiti e i movimenti di destra italiani hanno ingenerato una imponente opera di propaganda contro questa “umiliazione nazionale”, rivendicando un atteggiamento “forte” da parte dell’Italia e nei casi più eclatanti addirittura un’azione di guerra contro l’India.

In Italia, un caso di duplice omicidio è dunque diventato un pretesto per istigare allo sciovinismo e all’imperialismo in un Paese sotto il tallone della crisi economica, creando così un pericolosissimo clima sociale. Alcuni giorni fa, Terzi è stato costretto a dimettersi dal suo incarico, mentre il primo ministro Mario Monti ha affermato che durante il recente vertice BRICS a Durban sono stati inviate preoccupanti minacce politiche contro l’Italia. Ovviamente tutto ciò è completamente falso e nessun capo politico dei Paesi del gruppo dei BRICS ha minacciato l’Italia.

Ad ogni modo, questa incomprensione potrebbe generare tra la popolazione italiana un clima d’odio xenofobo nei confronti dei Paesi non-occidentali e soprattutto nei confronti dell’India. Questa propaganda nazionalista evita di menzionare il fatto che i due marò italiani stavano lavorando come contractor su una petroliera privata, così come dimentica numerosi altri casi di incidenti militari o di tipo “blue-on-blue” (quando uno o più soldati sono vittime del proprio stesso esercito o alleato, ndt).

Questo rozzo nazionalismo, simile più alla legge della giungla che ad un vero e proprio orgoglio patriottico, crea tuttora seri ostacoli sul cammino della pace, della stabilità e della mutua cooperazione. L’Italia e gli altri Paesi dell’Europa sembrano essere incapaci di cancellare le fallaci idee di “occidentalizzazione” e “superiorità occidentale” dalla loro agenda politica internazionale, che resta completamente vincolata alla dottrina degli Stati Uniti anche a 22 anni di distanza dalla fine della Guerra Fredda.

 

 

L’articolo è stato originariamente pubblicato in lingua inglese, con il titolo Return of marines shakes up nervous and fraught Italian politics, a pag. 13 dell’edizione del 2/04/2013 del “Global Times”, quotidiano internazionale del Partito Comunista Cinese.

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IL QATAR SBARCA IN EUROPA

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Gl’investimenti del Qatar in Italia

Nel novembre 2012 nasce a Doha una particolare società che può essere definita un’opportunità per l’Italia o il lento, ma strategico, avanzamento della ricchezza araba in Europa. Stiamo parlando della IQ Made in Italy Venture, una società che ha visto la luce in virtù di un accordo firmato dal Fondo Strategico Italiano Spa, FSI, la holding nata nel maggio 2011 e controllata dalla italiana Cassa Depositi e Prestiti, e la Qatar Holding LLC, QH (1).

Con un capitale complessivo di 2 miliardi di euro, che verranno versati pariteticamente da FSI e QH nel corso dei primi 4 anni, IQ Made in Italy Venture investirà nelle società italiane che operano in settori “strategici” per lo Stivale. La neonata società si concentrerà sulla produzione e distribuzione dei prodotti alimentari, sulla moda e i beni di lusso, sull’arredamento e il design, così come sul turismo e il tempo libero.

Il nome scelto per la società è indicativo dell’obiettivo a lungo termine dell’Emiro del Qatar, Hamad bin Khalifa Al Thani: entrare nel Made in Italy, nell’ambito di quella particolare politica estera qatariota portata avanti anche attraverso ingenti investimenti in Europa. Uno sguardo ad Est, uno ad Ovest, oltre l’Oceano Atlantico, e occhi puntati sulla crisi che investe ormai da alcuni anni gli Stati europei, questi ultimi sempre alla ricerca di potenti finanziatori.

La Qatar Holding nasce nel 2006 e ha come obiettivo quello di ottenere regolari profitti di lungo termine investendo a livello internazionale e locale, a vantaggio del paese e per diversificarne l’economia (2).

L’incontro con il Fondo Strategico italiano ha permesso all’Emirato di entrare dalla “porta di ingresso” dell’economia italiana. I settori in cui la IQ Made in Italy Venture investirà rappresentano quella che può essere definita l’eccellenza dell’Italia: le aziende che contribuiscono in misura determinante alle esportazioni italiane.

Si tratta, infatti, di settori che rappresentano nel mondo la “qualità” dell’Italia, con un significativo potenziale di crescita e di espansione internazionale.

Obiettivo dell’Italia e del Qatar è quello di investire in aziende d’avanguardia, consolidarne le strutture e garantirne la crescita, anche a livello internazionale. Tutto ciò dovrebbe avvenire mediante la combinazione della conoscenza locale di FSI e della portata globale e conoscenza del settore di QH, per fornire alle aziende un insieme unico di competenze, potenziandone i processi di crescita.

IQ Made in Italy Venture sarà gestita da FSI e QH in maniera paritetica. L’accordo è stato raggiunto in occasione della visita del Primo ministro uscente Mario Monti in Qatar e rappresenta  una delle iniziative che appartengono ad un quadro di cooperazione tra il paese arabo e la Repubblica italiana.

Tra le aziende che sembrano suscitare l’interesse del Qatar emergono la casa di moda della famiglia Versace, dopo l’acquisizione della maison Valentino, Snam, Eni ed Enel, così come il Milan (3).

Una delle regioni che più ha colpito la famiglia reale Al Thani è la Sardegna.

Il Presidente Cappellacci ha preso parte all’incontro di novembre a Doha e nel corso del colloquio è emersa la volontà dell’Emirato di investire nell’isola italiana un miliardo di euro nel settore turistico. Gli investimenti dovrebbero riguardare il rilancio della Costa Smeralda, i trasporti dell’isola e l’allevamento di cavalli purosangue arabi nel sud della Sardegna (4).

 

 

La politica estera di Doha

Quanto riportato finora, ci racconta della nascita di una società mista nata dalla collaborazione di un’Italia in crisi e di un Qatar in espansione. La rilevanza strategica di uno Stato a livello internazionale si misura anche dalla forza di attrazione che questo genera negli investitori mondiali e l’arrivo di nuovi capitali in Italia può avere senza alcun dubbio degli effetti positivi.

Nell’era dello Spread che sale e che scende e dei declassamenti ad opera di ibride agenzie di rating, “investimento” diventa la parola d’ordine per eccellenza.

La IQ Made in Italy Venture investirà in settori dell’eccellenza italiana, in aziende di elevata qualità che rappresentano una quota consistente delle esportazioni dell’Italia. Il denaro qatariota rappresenterà per questi settori una boccata di aria pura, nel breve periodo, ma a lungo termine l’intervento dell’Emirato può voler dire avere diritto a metà di quella che è l’immagine dell’Italia nel mondo.

L’Italia della moda, del cibo, del lusso e del turismo sarà finanziata da un paese che negli anni sta conducendo una politica estera sui generis.

 

 

L’Emirato in Europa 

Gli investimenti di Doha hanno oltrepassato le Alpi. Dopo un anno di dubbi, nell’ottobre 2012 anche Parigi ha accettato la creazione di un fondo gestito dal Qatar per aiutare le aree povere francesi, rurali ed urbane (5).

Il Ministro per il risanamento economico, Arnaud Montebourg, pur accettando un tale accordo, ha deciso di modificare la natura del fondo di capitali di Doha mediante la previsione della partecipazione della Francia, con l’obiettivo di mettere a tacere chi criticava la “svendita” delle periferie e delle zone rurali francesi ad un paese straniero. L’intervento del Qatar in territorio francese nasce dalla richiesta di un piccolo gruppo di eletti nelle assemblee locali, riuniti nell’Associazione nazionale dei rappresentanti locali per la diversità, Aneld. Questa associazione ha bussato alle porte dell’Emiro chiedendo di investire lì dove Parigi rimane immobile, in quei quartieri, abitati da un gran numero di musulmani, in cui il tasso di disoccupazione giovanile raggiunge il 40 %.

L’interesse del Qatar per la Francia si è inoltre manifestato nell’acquisto del palazzo del quotidiano Le Figaro e della squadra di calcio del Paris Saint Germain e in investimenti nella compagnia petrolifera Total (6).

L’Emirato, dunque, è divenuto negli ultimi anni uno degli investitori più attivi nell’Europa della crisi finanziaria. Nel 2011 il fondo sovrano del Qatar, Qatar Investment Authority, ha finanziato la fusione di Eurobank e Alpha Bank, due delle maggiori banche della Grecia e ha poi acquisito quote nelle multinazionali petrolifere portoghesi Energias de Portugal e Iberdrola (7).

Il Qatar ha inoltre investito nel settore automobilistico e bancario e si è spinto anche in Gran Bretagna con l’acquisto del Villaggio Olimpico di Londra e dei grandi magazzini Harrod’s.

 

 

 

* Marzia Nobile, Laurea Magistrale in “Relazioni internazionali” presso l’Università “La Sapienza” di Roma

 

(1)   Joint venture FSI e Qatar Holding da € 2 mld per il “Made in Italy”,  19 novembre 2012, www.governo.it.

(2)  About QH, www.qatarholding.qa.

(3) Cenci F., I soldi del Qatar, 2012, www.ilfarosulmondo.it.

(4) Il Qatar investe sull’Italia. Anche senza garanzie sul dopo Monti, 2012, www.ilfattoquotidiano.it.

(5)  Le Devin W., Perfusion qatarie pur les quartiers, 2012, www.liberation.fr.

(6) Billi D., Monti svendita: il Qatar sta già prendendo tutto, con obiettivo Snam?, 2012, www.petrolio.blogosfere.it.

(7) Il Qatar investe in Europa, 2012, www.ilpost.it.

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I GIOCHI NUCLEARI DELLA COREA DEL NORD METTONO IN PERICOLO LA CINA

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La costante retorica bellica nordcoreana seguita alle sanzioni stabilite in sede ONU, potrebbe apparire ridicola alla maggior parte delle persone. In realtà ha una sua logica e non si tratta di una logica folle. Infatti, la terza prova nucleare, il lancio satellitare dello scorso dicembre e il recente picco di tensione raggiunto in occasione delle esercitazioni congiunte tra Stati Uniti e Corea del Sud, riflettono tutti le speranze del presidente Kim Jong-Un di prendere due piccioni con una fava.

Sul piano internazionale, la Corea del Nord vuole riportare gli Stati Uniti al tavolo delle trattative e ottenere maggior sostegno giocando la carta nucleare. Nonostante i test e gli avvertimenti della Corea del Nord, Kim ha espresso la sua impazienza di ricevere una telefonata dal presidente degli Stati Uniti Barack Obama durante la visita del famoso cestista dell’NBA Dennis Rodman in Crea del Nord lo scorso febbraio.

Sul piano interno, Kim può consolidare il suo ruolo-guida attraverso una serie di azioni robuste nei confronti degli Stati Uniti e della Corea del Sud. Il cambio al vertice delle Forze Armate dello scorso luglio, quando l’alto Comandante Ri Yong-Ho fu sollevato da tutti i suoi incarichi, ha messo in evidenza l’intensa lotta in seno alla dirigenza politica dopo l’ascesa di Kim alla guida del Partito e dello Stato. La linea politica dell’“esercito innanzitutto” (Songun, ndt) ha già fatto dei militari il gruppo di interesse più potente del Paese, ed una fazione del cui supporto Kim ha disperatamente bisogno.

Kim sa anche che la Corea del Nord molto difficilmente seguirà il destino politico dell’Iraq o della Libia, grazie al sostegno della Cina. Il Trattato di Mutua Assistenza e Amichevole Cooperazione Sino-NordCoreano siglato nel 1961 stabilisce che i due Paesi debbano “garantire l’adozione immediata di tutte le misure necessarie ad opporsi a qualsiasi Stato o coalizione di Stati che possa aggredire l’una o l’altra nazione”. Quindi la Cina farà tutto il possibile per fermare qualunque attacco contro la Corea del Nord, per evitare di essere coinvolta in un confronto militare non-necessario con suoi interlocutori commerciali come gli Stati Uniti e la Corea del Sud, e per impedire enormi perdite umane ed economiche come già avvenuto durante la Guerra di Corea (1950-53).

La Corea del Nord riveste ancora un’importanza strategica per la Cina. E questo viene spesso sottovalutato da quegli analisti cinesi che suggeriscono di abbandonare la Corea del Nord. Essa agisce ancora come un cuscinetto. Se la Corea del Nord dovesse cadere e Kim dovesse essere detronizzato in favore di un nuovo regime politico di orientamento atlantista, si spianerebbe la strada agli Stati Uniti per ridisporre le loro forze stanziate in Corea del Sud lungo il confine nordorientale della Cina, generando un grande pericolo in termini di sicurezza nel momento in cui la reciproca fiducia militare tra Stati Uniti e Cina venisse completamente meno.

La Cina deve inoltre mantenere la stabilità della sua regione nordorientale. Una massa di rifugiati nordcoreani getterebbe l’intera area nel caos e distruggerebbe un’economia che aspira a riguadagnare il suo vecchio ruolo di cuore industriale del Paese. Dunque una priorità strategica per la Cina è quella di assicurare la conservazione del regime di Kim e di impedire il collasso della Corea del Nord. Ma la Cina dovrebbe continuare ad essere un alleato della Corea del Nord, indipendentemente da ciò che questa compie?

Sebbene lo sviluppo nucleare della Corea del Nord sia osteggiato soltanto dagli Stati Uniti, il suo programma atomico porterà seri rischi alla Cina più che agli Stati Uniti. La terza prova nucleare di febbraio è stata condotta a poco più di 100 chilometri dal confine nordorientale cinese. Malgrado le autorità abbiano tranquillizzato la popolazione assicurando che le montagne lungo il confine erano e sono in grado di impedire che le radiazioni arrivino anche in Cina, la possibilità che le scorie nucleari inquinino le falde acquifere non può essere totalmente esclusa. La sicurezza dell’acqua sotterranea non solo è strettamente connessa alla rete idrica potabile della Cina nordorientale, ma rappresenta anche un pericolo nascosto per la sicurezza e la salvaguardia alimentare del Paese.

Già nel 2010, il governo centrale cinese pubblicò un documento ufficiale stabilendo che il Nord-Est dovrebbe essere strutturato come un pilastro della sicurezza alimentare nazionale. Nel 2011, il raccolto di grano in questa regione è arrivato a 108 milioni di tonnellate, pari a un quinto del totale nazionale. L’incidente nucleare di Fukushima in Giappone è la più recente lezione. La Prefettura di Fukushima, dove l’agricoltura costituiva un pilastro industriale, è stata altamente contaminata. La produzione alimentare è stata seriamente danneggiata.

La Cina non può permettersi il rischio di un nuovo disastro analogo nel Nord-Est. Quello che la Cina dovrebbe fare è ora proteggere la Corea del Nord offrendo un ombrello nucleare così come gli Stati Uniti fanno con il Giappone e la Corea del Sud, ma anche convincerla ad ascoltare i consigli cinesi affinché abbandoni i programmi nucleari. Se un quarto test nucleare fosse condotto, la Cina correrebbe rischi maggiori di quelli corsi da qualsiasi altra nazione.

 

*L’autore è un osservatore indipendente di affari internazionali

 

FONTE: Global Times

 

 

(Traduzione di Andrea Fais)

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IL PROCESSO DI PACE IN COLOMBIA

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Il conflitto armato colombiano è uno dei più longevi del mondo; esso infatti insanguina e destabilizza il Paese sudamericano da mezzo secolo. Le forze in campo sono essenzialmente due: da un lato lo Stato colombiano, dall’altro la guerriglia, identificata principalmente con le Farc (Fuerzas Armadas Revolucionarias de Colombia). Entrambi i fronti si sono macchiati di gravi crimini, passando da sequestri, sfruttamento del narcotraffico, giustizia sommaria e operazioni paramilitari sostenute da corposi finanziamenti statunitensi.

Dal 1964, anno di nascita delle Farc, il gruppo di guerriglia maggiore per numero, attività e notorietà, il tema della soluzione di tale conflitto ha assunto progressivamente maggiore rilevanza, arrivando a divenire necessariamente il centro della politica interna della Colombia.

Le strategie proposte sono state svariate; alcuni Presidenti hanno sostenuto il dovere dello Stato di sconfiggere sul campo la guerriglia, stimolando però una spirale di violenza sempre maggiore e senza riuscire a sradicarla. Altre Presidenze hanno invece intrapreso la via del negoziato, che però ha sempre portato a un nulla di fatto, almeno fino ad oggi.

Un tentativo di negoziato terminato nel sangue è stato quello promosso dal Presidente Betancurt, durante la sua Presidenza dal 1982 al 1986, tramite gli Accordi della Uribe con le Farc (28 marzo 1984) e l’accordo di Corinto con il movimento M-19 (24 agosto 1984).

Inizialmente Betancurt era così riuscito ad accordare un cessate il fuoco tra il Governo e i vari movimenti di guerriglia, ma la sua decisione di trovare una soluzione politica al conflitto armato colombiano risultò immediatamente controversa all’interno del Paese.

La tensione aumentava velocemente, mentre le condizioni di vita peggioravano, tanto che il movimento di guerriglia M-19 decise di rompere la tregua, arrivando il 6 novembre 1985 ad assaltare il Palazzo di Giustizia a Bogotà.

L’esercito reagì immediatamente, segnando il definitivo fallimento del tentativo di Betancurt. A pagarne il prezzo più alto fu certamente il movimento M-19, che contò il numero maggiore di caduti nei mesi che seguirono la presa del Palazzo di Giustizia. Le gravi perdite inflissero un colpo fatale al movimento che si sgretolò progressivamente, arrancando per tutti gli anni ’80 fino alla dissoluzione del movimento all’inizio degli anni ’90, in seguito alla quale alcuni dei suoi componenti confluirono negli altri movimenti di guerriglia.

Tale tentativo di soluzione pacifica  non sortì dunque gli effetti auspicati e lasciò spazio alla via militarista, che risulta infatti alternarsi alla soluzione concordata.

Una sintesi di tali metodi emerge anche nell’ultimo decennio, in particolare nelle figure di Álvaro Uribe Vélez e di Juan Manuel Santos Calderón.

 

 

Álvaro Uribe Vélez (2002-2010) 

Uribe è stato Presidente della Colombia dal 2002 al 2010, essendo stato rieletto per un secondo mandato nel 2006. Durante questi otto anni l’ex Presidente si è fatto promotore della cosiddetta politica della “sicurezza democratica”, la quale ha alimentato la violenza nel Paese e l’incertezza dei suoi cittadini, in particolare nelle aree periferiche e di frontiera. Sono state incentivate le azioni paramilitari e proposte ricompense agli informatori, fino alla promessa di ricompense per l’uccisione di componenti delle Farc.

Durante la presidenza di Uribe è certamente diminuito il numero dei guerriglieri, passati dalle 24000 unità alle 8000 (1). Un tale approccio, puramente militare, ha contribuito ad acuire la violenza nel Paese, spesso a scapito della popolazione civile.

Uno degli episodi più scandalosi è quello dei falsos positivos, verificatosi in diverse località del Paese dopo l’applicazione della Direttiva numero 29, nel novembre 2005. Tale direttiva ha introdotto ricompense specifiche per l’uccisione di guerriglieri, da un minimo di 1900 dollari a un massimo di due milioni e cinquecentomila dollari, a seconda del grado della persona uccisa (2).

Tale provvedimento ha avuto conseguenze anche peggiori di quelle che si sarebbero avute nella corretta applicazione della norma; il fenomeno, infatti, è degenerato nella messa in scena di falsos positivos. Centinaia di ragazzi sono stati prelevati dalle proprie case, travestiti da guerriglieri e poi uccisi, in modo da ottenere le ricompense promesse dalla Direttiva 29 (3).

La conferma di tali atrocità e la condanna internazionali non si sono fatte attendere; Philip Alston, Relatore Speciale delle Nazioni Unite per le esecuzioni arbitrarie, ha affermato : “[…] membri delle forze di sicurezza della Colombia hanno perpetrato un numero significativo di esecuzioni extragiudiziali, seguendo un modello comune all’interno del Paese. Anche se questi omicidi non furono commessi come parte di una politica ufficiale, ho trovato molte unità militari coinvolte nei cosiddetti “falsi positivi”, in cui le vittime erano assassinate da militari, spesso per ottenere un beneficio o un vantaggio personale” (4).

Un altro grave episodio causato dall’approccio militarista di Uribe si è verificato nel 2009, quando le Forze Armate colombiane non hanno esitato a bombardare un territorio ecuadoriano, pur di colpire un accampamento delle Farc ivi situato. L’episodio ha causato inevitabilmente un raffreddamento dei rapporti tra i due Paesi; inoltre il Venezuela ha dimostrato di appoggiare l’Ecuador e ha duramente criticato una simile politica estera della Colombia. Essa infatti, negli anni di Uribe, ha scelto di avvicinarsi agli Usa, i quali hanno contribuito in maniera decisiva alla politica della sicurezza democratica, sostenendola con ingenti finanziamenti (5).

 

 

Juan Manuel Santos Calderón e l’attuale processo di pace

La linea dura di Uribe è riuscita ad assottigliare le fila della guerriglia, ma non a sconfiggerla. Otto anni di lotta violenta e continua non hanno saputo scrivere la parola fine. Nel 2010 le Farc ci sono ancora, sono forti e sono attive.

Al termine del doppio mandato di Uribe è ormai chiaro che nessuna delle due forze sconfiggerà mai l’altra sul campo in maniera definitiva (6).

Il Presidente Santos, eletto nel 2010 come successore di Uribe, ha infatti scelto di percorrere una via opposta a quella del suo predecessore: il negoziato. Santos si pone in rottura non solo col passato del Paese, ma anche con le sue personali scelte anteriori. Egli è stato Ministro della Difesa durante la Presidenza di Uribe, dunque complice e fautore consapevole delle deplorevoli politiche aggressive perpetrare.

Alla luce di quanto affermato, la scelta di Santos può essere letta in maniera più compiuta come una decisione marcatamente politica, non certamente ideologica. Forse proprio in ciò sta la sua forza e il suo auspicabile successo.

Dopo decenni di guerra civile, l’uso della forza non ha sortito gli effetti sperati, non resta che affacciarsi con fiducia a una soluzione conciliata del conflitto.

In questa prospettiva si è espressa in un’intervista del 2008 anche Ingrid Betancourt, sequestrata per oltre sei anni dalle Farc, affermando che ”è importante esercitare una pressione dal punto di vista militare, ma in questo modo non si riusciranno a sconfiggere veramente (le Farc)”; la Betancourt ha sostenuto infatti che un’alternativa efficace è l’attuazione di azioni di politica sociale per offrire alternative all’arruolamento nelle Farc, venendo incontro alle istanze sociali finora inascoltate, che ingrossano le fila della guerriglia (7).

Sembra arrivato il momento del dialogo, il momento di trattare, negoziare per giungere a una soluzione condivisa e proprio per questo sostenibile nel tempo. Il 26 agosto a Cuba è stato adottato l’Accordo quadro per porre fine al conflitto armato. Al tavolo delle trattative i delegati del Governo della Repubblica della Colombia e i delegati delle FARC ed EP. In occasione di tali negoziati è emerso che la scelta di intavolare negoziati e di arrivare finalmente alla pace è sostenuta anche a livello internazionale. Cuba e Norvegia si sono infatti impegnate come garanti, mentre il Venezuela ha assunto il ruolo di mediatore (8). Anche in questo senso sembra che il governo colombiano voglia dare un segnale di rottura col passato, rappresentato da Uribe. Se quest’ultimo si era appoggiato agli Stati Uniti per finanziare la sua politica della sicurezza democratica, Santos decide di cambiare tattica. Si affida al negoziato e lo fa col sostegno di Cuba, Norvegia e Venezuela, estromettendo finalmente gli Usa dalle dinamiche delle sua politica interna.

Tale Accordo preliminare prevede un’agenda, che stabilisce le priorità e le finalità comuni. Innanzitutto la questione della riforma agraria viene posta come base da cui partire per raggiungere lo sviluppo sociale ed economico del Paese, necessario a porre fine al conflitto; la rilevanza è provata dal fatto che questo tema sia posto come primo punto programmatico dell’agenda.

In seguito viene riconosciuta la necessità di assicurare un’effettiva partecipazione politica (punto secondo), che comprenda l’accesso ai mezzi di comunicazione, la garanzia del diritto di opposizione politica, ma anche di partecipazione diretta alla vita politica. Naturalmente tali diritti politici non possono essere assicurati, senza aver posto termine in maniera definitiva al conflitto armato (punto terzo). Il cessate il fuoco e la pace devono inoltre essere accompagnati da un grande impegno nella lotta al narcotraffico (punto 4), in modo da poter garantire alla popolazione un ambiente sicuro in cui vivere e lavorare per lo sviluppo del Paese, nel segno della legalità. Tale accordo non intende però ignorare il passato e le parti contraenti si impegnano a risarcire le vittime del conflitto, assicurando il rispetto dei diritti umani (punto 5).

Attualmente sono in corso le contrattazioni relative al primo punto, la questione agraria, considerata la chiave per porre fine alle disuguaglianze del Paese, che ne alimentano il conflitto. Il documento parla infatti di “sviluppo agrario integrale”, necessario a uno sviluppo sociale che comprenda innumerevoli dimensioni: la salute, l’educazione, l’abitazione, lo sradicamento della povertà e il raggiungimento della sicurezza alimentare (9).

Dopo quasi mezzo secolo di quella che difficilmente può non essere definita una vera e propria guerra civile, sembra ci sia una chiara volontà politica di porvi fine in maniera pacifica e sostenibile nel tempo. Il conflitto non ha fatto altro che produrre instabilità e insicurezza all’interno del Paese, di cui gli unici beneficiari sembrano essere i maggiori narcotrafficanti colombiani. Essi infatti hanno potuto approfittare dell’anarchia regnante nelle zone periferiche e di frontiera del Paese, creando così una sorta di zona franca tra Colombia, Venezuela ed Ecuador in cui gestire i propri traffici illeciti, arricchendosi a scapito delle miserevoli condizioni di vita delle popolazioni di quelle aree, lasciate in balia delle violenze dai propri governi.

L’Accordo quadro dà un segnale positivo e, rinnegando la via militarista già perdente in passato, inizia quello che potrebbe essere il definitivo processo di pacificazione.

 

 

*Rachele Pagani, laureanda in Diritti dell’uomo ed etica della cooperazione internazionale presso l’Università di Bergamo

 

 

 

(1)Pace in Colombia, le Farc e Santos ci provano, Maurizio Stefanini http://temi.repubblica.it/limes/pace-in-colombia-le-farc-e-santos-ci-provano/37900

(2)Los falsos positivos, Samuel Barinas http://www.aporrea.org/internacionales/a99939.html

(3)il successore di Uribe e le Farc, Antonio Moscato http://ilmegafonoquotidiano.it/news/il-successore-di-uribe-e-le-farc  (4)http://www.un.org/spanish/Depts/dpi/boletin/dynpages/a_21403_dtls.html

(5)Colombia: il conflitto armato, http://www.treccani.it/enciclopedia/colombia-il-conflitto-armato_(Atlante_Geopolitico)/

(6)La pace in Colombia per chiudere il Novecento, Francesca D’Ulisse, http://www.treccani.it/magazine/piazza_enciclopedia_magazine/geopolitica/La_pace_in_Colombia_per_chiudere_il_Novecento.html

(7)http://www.youtube.com/watch?v=C86cYqUdHP4

(8) e (9) Revelan texto del acuerdo firmado por Gobierno y Farc para iniciar diálogos de paz, http://www.canalrcnmsn.com/noticias/gobierno_y_farc_firmaron_un_documento_de_seis_puntos_para_iniciar_di%C3%A1logos_de_paz

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INTERVISTA A STEFANO VAJ SUL CASO DEI MARÒ

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Intervista a cura di Filippo Pederzini.

Stefano Vaj, noto professionista milanese e docente all’Università di Padova, si occupa di metapolitica, visione del mondo e attualità scientifica e culturale dalla fine degli anni settanta.

 

 

1) La vicenda che vede coinvolti i due marò italiani in India, può in
 un qualche modo avere ripercussioni negative anche da un punto di
vista economico, dati i non pochi rapporti intessuti tra realtà 
imprenditoriali italiane di rilievo e lo Stato indiano?

Da qualsiasi punto di vista la si prenda, è difficile contestare che il modo in cui tutta la vicenda è stata affrontata è stato il peggiore possibile ai fini dei rapporti bilaterali. A cominciare dall’increscioso incidente stesso, per continuare con la strumentalizzazione dell’arresto in India dei due sospettati da parte dei media e della politica italiana al fine di suscitare quel tipo di “tifo” sciovinista che evidentemente si contava potesse, oltre che distrarre in generale da altri problemi, accrescere il consenso o i lettori di chi fosse pronto a spararle più grosse.

Naturalmente, l’aspetto più grottesco è stato l’atto finale del (tentativo di) rifiuto da parte del governo italiano di onorare la parola data all’atto della richiesta del permesso elettorale per i due imputati, salvo fare marcia indietro quando l’India ha alzato la voce.

Ora, tutto questo poco edificante teatrino ha certo finito per suscitare un livello di irritazione le cui conseguenze vanno al di là delle possibili distinzioni tra i soggetti economici attivi nella penisola e il governo che gli stessi volenti o nolenti si ritrovano.

 

 

2) Indipendentemente da come evolverà l’intera questione come ne potrà 
uscire l’immagine dell’Italia da un lato e quella dell’India
 dall’altro? E in che modo evolveranno i rapporti tra i due Paesi?

La situazione da un punto di vista legale è abbastanza chiara.

Due persone sono state arrestate con l’accusa di aver ucciso dei cittadini indiani, e portate avanti al giudice di quel paese. Il giudice stesso – come farebbe il giudice svizzero o quello peruviano, del resto – non può far altro che sottoporle a un processo, solo al termine del quale, ed a mente delle prove offerte dall’accusa e dalla difesa, lo stesso potrà decidere sulla base della sua legge se ha giurisdizione oppure no (ad esempio perché il fatto è avvenuto fuori dalle acque territoriali).

La giurisdizione infatti è *una* delle tante questioni che il processo serve a decidere, esattamente come quella se il fatto sussiste, se è l’imputato che l’ha compiuto, se esistevano esimenti come l’errore scusabile o la legittima difesa, eccetera.

Questioni tra l’altro legate tra loro, perché pare incoerente sostenere che il fatto sia avvenuto al di fuori del territorio indiano (così che sarebbe competente il giudice dello stato la cui bandiera è battuta dalla imbarcazione ove si è verificato) e contemporaneamente… che non è mai avvenuto affatto! Caso in cui il giudice indiano non avrebbe affatto da spogliarsi del caso a favore delle corti italiane, non più di quanto dovrebbe farlo a favore di quelle della Mongolia o della Liberia – dato che evidentemente una cosa mai successa non è successa in nessun luogo che permetta di stabilire una giurisdizione diversa da quella adita-, ma semmai dovrebbe assolvere.

Pretendere che i due imputati andassero liberati senza processo (e in particolare per atto governativo, ed in violazione dell’autonomia della corte investita del procedimento) naturalmente è una richiesta che può essere basato unicamente su argomenti come l’invio delle cannoniere. O sul tipo di potere colonialista che ha consentito agli USA di ottenere il recente noto provvedimento di “grazia” dal presidente della repubblica italiana utile a tirare almeno in parte un tratto di penna su reati di sequestro ed espatrio clandestino a fini di tortura e carcerazione illegale, che a quanto accertato commessi in Italia da funzionari del relativo paese.

Ora, il tentativo di ottenere qualcosa del genere da parte di chi non ha né la forza né il potere contrattuale per imporla è indubbiamente un atto ostile ed irrispettoso nei confronti del paese che si sarebbe voluto sottoporre a pressioni, magari invocando solidarietà da parte di “alleati”, o secondo altri padroni, che si sono invece prevedibilmente distinti per la loro totale indifferenza.

La cosa è naturalmente aggravata dal fatto che in Italia sia stato generato internamente un movimento d’opinione, o meglio una campagna mediatica, totalmente prevenuti, ed incline ad attribuire un carattere odioso, se non illegittimo, al modo in cui sono stati trattati gli imputati – che sinora sono stati soggetti ad una detenzione assolutamente speciale per un periodo ridicolmente breve rispetto agli anni e anni di custodia cautelare consentiti dalla procedura penale italiana, e successivamente hanno continuato a vivere indisturbati in India in un albergo di lusso subendo come unica misura di sicurezza il ritiro del passaporto.

Se tutto questo tipo di gestione della crisi può aver eventualmente giovato a qualcuno, è molto dubbio che abbia avvantaggiato la stessa difesa dei due “imputati-martiri”, e certamente ha creato un’ovvia reazione uguale e contraria nell’opinione pubblica indiana, di cui il relativo governo, che probabilmente da parte sua non avrebbe visto l’ora di liberarsi politicamente della relativa piccola grana, non potrà fare a meno di tener conto.

 

 

3) E’ giustificabile nell’intera vicenda l’assenza – o se si è 
mostrato lo ha fatto in maniera molto defilata – del Ministro degli
 Esteri Italiano Terzi di Sant’Agata (solamente De Mistura è comparso a
 più riprese) come quella dello stesso Capo del Governo Italiano Mario
 Monti? Le dimissioni non sono state un atto dovuto?

Le scelte degli interessati sono state probabilmente giustificate da preoccupazioni di politica interna italiana, ma si sono rilevate piuttosto maldestre e schizofreniche anche sotto tale profilo. L’ossessione di dimostrare e strombazzare la pretesa autorevolezza internazionale del “governo dei tecnici” si è in particolare mal combinata con una più tradizionale inclinazione della repubblica italiana a raggiungere un qualche tipo di soluzione sottobanco. Così come si sono mal combinate la consapevolezza della sostanziale impotenza del nostro governo, a cominciare dal profilo militare, e il desiderio di salvare le apparenze facendo la faccia truce, ma non tanto da vedere la propria faccia personalmente identificata con il fallimento che il relativo “ruggito del topo” non ha mancato di sortire.

Il machiavellismo da portineria del “permesso elettorale” e il tentativo di fregare l’India non riconsegnando gli imputati, salvo fare precipitosamente marcia indietro quando ci si è resi conto (ad urne ormai utilmente chiuse…) della china pericolosa e impraticabile su cui ci si era posti, naturalmente ha dato il tocco di ridicolo finale ad una situazione già compromessa.

In questo scenario, le dimissioni del ministro Terzi, certo complice dell’accaduto ma probabilmente preso in giro a sua volta, sono alquanto comprensibili. Come è anche comprensibile che il correlato scandalo istituzionale non abbia trovato di meglio, nella più pura tradizione del basso impero, che farne una questione di “etichetta”. Si sa, nessun monarca e primo ministro è più geloso delle proprie prerogative formali di quelli che amministrano per conto terzi, e sono ridotti a fiduciari o fantocci di altri poteri.

 

 

4) Soltanto per fare una congettura, in che maniera si sarebbe comportato, in una situazione analoga, il governo di un altro Paese?

Il governo di un paese che è in grado di ignorare i giudici e le leggi di un certo territorio, quando ritiene che per certe categorie di atti o persone abbia interesse a farlo, semplicemente lo fa. Non è detto che lo faccia sempre (Amanda Knox è stata pacificamente processata senza che a qualcuno venisse in mente di mandare i marines ad “estrarla” dal territorio italiano), ma tipicamente estende questo trattamento ai suoi diretti agenti, in modo che gli stessi possano agire senza troppe preoccupazioni. Se persino i loro dirigenti e comandanti ritengono che qualche panno sporco vi sia, lo stesso sarà invariabilmente lavato in famiglia.

Al massimo, se proprio il paese in questione si preoccupa di consentire ai governi locali di salvare la faccia farà in modo di far approvare da questi ultimi in via generale qualche regime di extra-territorialità legale, come nei casi della funivia del Cermis, o degli stupri di Okinawa, o di Abu Graib; ma nella maggiorparte dei casi si limiterà a riportare a casa manu militari i possibili responsabili, come per nel caso del rapimento di Abu Omar, ed a rifiutarne ovviamente l’estradizione, salvo magari ottenere tramite i propri fiduciari, ascari e reggicoda locali… la grazia “sovrana“ del paese da cui gli stessi sono evasi.

Al di fuori di questi scenari, noleggiare i propri militari ad armatori privati per compiti di polizia da svolgere fuori dai confini nazionali e da contingenti di qualche entità li espone evidentemente alla cattura.

Se si tratta poi di una cattura da parte di governi riconosciuti dall’Italia, e su cui è impensabile che le forze armate italiane possano far valere il “diritto del più forte”, mi sarebbe parso al tempo stesso più dignitoso e realistico dare la precedenza alla loro difesa processuale, senza sfidare velleitariamente il potere della corte di decidere, come fanno tutte le corti del mondo, sulla propria giurisdizione.

 

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GIRI DI VALZER. LA POLITICA ESTERA DELL’ITALIA NELL’ERA DELLA GLOBALIZZAZIONE SELVAGGIA

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Autore: Fabrizio Di Ernesto
 
La linea politica e quella finanziaria oggi sono legati a doppio filo a quell’Unione europea che tramite l’Euro il Mes, il Fiscal compact ha sostanzialmente svuotato il nostro Parlamento di ogni sovranità politica e monetaria rendendoci succubi delle decisioni prese a Bruxelles da un ristretto gruppo di tecnici che operano in rappresentanza di determinate lobby.La politica militare invece è totalmente dipendente a quella imposta dagli Usa tramite la Nato e l’Onu, senza considerare poi l’Eurogendfor, la nuova polizia sovranazionale creata da alcuni Stati europei con poteri e competenze pressoché illimitate. L’unico campo dove la nostra politica può ancora dirsi libera è quello economico, ed infatti l’Italia continua a stingere accordi commerciali anche con quei Paesi come l’Iran o la Siria messi alla gogna da tutta la comunità internazionale, accordi però che vanno quasi sempre a vantaggio dei grandi gruppi industriali.Il bilancio appare però quanto mai negativo, con il nostro che oggi, come non mai in passato, appare un Paese in via di sottosviluppo.

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IDEOLOGIA DI STATO E POLITICA GIOVANILE DELLA REPUBBLICA DI BIELORUSSIA. PRIORITÀ E VALORI STRATEGICI

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Autore: Jadviga S. Jaskević
 
Dopo il 1991, il continente ex-sovietico si è velocemente trasformato in un vastissimo territorio contraddistinto da crisi economica, terrorismo ed instabilità. Soltanto pochissimi Paesi possono vantarsi di aver saputo nuotare controcorrente e, fra questi, la Bielorussia del Presidente Lukashenko, rappresenta un lodevole esempio, dimostrando come sia possibile conservare le conquiste del passato e valorizzare il significato scientifico-politico per affrontare le sfide del futuro. Il testo della prof.ssa Jadviga S. Jaskević, pubblicato in versione aggiornata nel 2005, costituisce un’analisi di grande spessore teoretico, sociologico e strategico, capace di delineare, le principali direttrici politiche dell’ideologia di Stato della Repubblica di Bielorussia. Prefazione di Andrea Fais.

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I PAESI ASIATICI POSSONO UNIRSI CONTRO IL PROTEZIONISMO ATTRAVERSO IL FORUM DI BOAO

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La conferenza annuale per l’anno 2013 del Forum di Boao per l’Asia (BFA) si è chiusa lunedì. Il tema di questa edizioni era “L’Asia alla ricerca dello Sviluppo Complessivo: Ristrutturazione, Responsabilità e Cooperazione”. Dal momento che la ripresa economica non è stata affatto costante nel 2012 e che le previsioni nel 2013 non sono ancora ottimistiche, tutti i Paesi asiatici devono individuare interessi comuni, ridimensionare le distanze e ricercare uno sviluppo condiviso.

Ci sono già diverse organizzazioni economiche trans-regionali in Asia che possono costruire piattaforme per quei Paesi che cercano la cooperazione, fra cui la Cooperazione Economica Asia-Pacifico (APEC) e l’Intesa per il Dialogo Trans-Pacifico (TPP). Gli Stati Uniti si inseriscono negli affari regionali dell’Asia e indeboliscono la tendenza del regionalismo asiatico a mettere da parte Washington attraverso l’APEC. Per quanto concerne il TPP, oltre alla condivisione dell’indotto emerso dal rapido sviluppo economico dell’Asia, l’intento più importante per gli Stati Uniti da promuovere è che il TPP li aiuti a prendere in mano l’iniziativa nel processo integrativo della regione Asia-Pacifico.

Per lungo tempo, la regione asiatica è rimasta priva di un vertice o di un’organizzazione che fosse seriamente guidata dall’Asia e che sintetizzasse gli interessi degli asiatici, fino a quando il Forum di Boao per l’Asia non ha colmato questa lacuna. L’Asia sta evidenziando un’opportunità storica. La pace e lo sviluppo sono ancora i temi dei nostri giorni. La ricerca della pace, della stabilità, dello sviluppo e della cooperazione  è l’obiettivo comune dei popoli asiatici di ogni Paese.

La globalizzazione economica si sta sviluppando sempre più dinamicamente e la ristrutturazione economica ha raggiunto un primo successo in molte nazioni del nostro continente. Grazie al ritmo sostenuto dell’ottimizzazione industriale e dell’avanzamento tecnologico, i Paesi asiatici hanno raggiunto un potente livello. Nel processo di integrazione regionale, le nostre nazioni sono sempre più interdipendenti. Il dialogo e il coordinamento tra gli Stati asiatici sono aumentati e la loro capacità di scongiurare i rischi è migliorata.

Tutti questi fattori hanno gettato le più solide fondamenta e creato le migliori condizioni per la pace, la stabilità, lo sviluppo e la cooperazione in Asia. In ogni caso, dobbiamo anche notare che ci sono ancora molti problemi e complicazioni sulla via della cooperazione regionale. Le contese storiche e le contraddizioni pratiche mettono in pericolo la fiducia reciproca tra i Paesi asiatici.

Considerando il perno statunitense sull’Asia, il crescendo di tensione nelle dispute territoriali all’interno della regione e l’emersione di un protezionismo commerciale globale, i nostri popoli si trovano davanti ad un compito molto oneroso nel mantenimento della pace e della stabilità regionale e nella ricerca della prosperità condivisa. Il commercio complessivo dell’Asia è pari ad un terzo del totale mondiale. L’interdipendenza tra i nostri mercati è molto forte. Inoltre, i Paesi asiatici mantengono interessi comuni nella resistenza al protezionismo commerciale e nella persuasione al libero corso del mercato globale.

Dopo la crisi finanziaria internazionale nel 2008, molte economie, come quella statunitense o quella dell’Unione Europea, hanno provato a proteggere le loro imprese nazionali, a ridurre la pressione e ad aumentare le opportunità occupazionali attraverso metodi quali i dazi anticoncorrenziali (antidumping, ndt) e i dazi compensativi (countervailing, ndt).

Le maggiori economie asiatiche, come il Giappone, la Corea del Sud e la Cina, hanno tutte un modello economico pensato per l’esportazione. La dipendenza dei Paesi asiatici dai mercati degli Stati Uniti e dell’Unione Europea è un punto debole del loro sviluppo economico. Dunque, i Paesi asiatici dovrebbero unirsi per resistere alla creazione di quelle barriere commerciali imposte da Washington e da Bruxelles e cercare un percorso comune di individuazione di metodi giudiziari internazionali per evitare che il protezionismo possa svilupparsi ancora. Dovremmo ridurre la dipendenza dei mercati asiatici dai mercati occidentali incrementando gli scambi economici e commerciali intraregionali. Il protezionismo euro-americano sta producendo un effetto estremamente negativo sulla ripresa economica in Asia. In questo caso, la liquidità del mercato è importantissima all’interno della regione. Dovremmo promuovere un commercio intraregionale per sostituirlo al commercio interregionale e mantenere il rapido sviluppo dell’economia globale.

In effetti, esistono dispute territoriali tra alcuni Stati asiatici. Ma allo stesso tempo, ci attendono sfide condivise. Per mettere da parte i rancori e raggiungere uno sviluppo comune, ogni Paese asiatico dovrebbe mostrare rispetto per i diritti sovrani di ognuno degli altri e fermare il protezionismo commerciale mosso dai sentimenti nazionalisti. Ognuno di noi ha la responsabilità di mantenere la pace regionale e la stabilità e di stemperare le tensioni regionali indotte dalle solite minacce per la sicurezza, al fine di creare un favorevole ambiente per il libero commercio tra i Paesi asiatici. È anche questo il significato spirituale del Forum di Boao.

 

 

FONTE: Global Times (8/4/2013, pag. 14)

 

L’articolo è stato compilato dalla redattrice del “Global Times” Shu Meng sulla base di un’intervista al Professor Wu Shicun, presidente dell’Istituto Nazionale per lo Studio del Mar Cinese Meridionale.

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DOSSIER KOSOVO – INTERVISTA AL PROF. LUCIANO BOZZO

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A cura di Andrea Turi

 
Partiamo dagli recenti sviluppi che sono quelli di ieri (2 aprile 2013): l’ottava sessione del dialogo tra Serbia e Kosovo tenutosi a Bruxelles con la mediazione dell’UE doveva essere quello risolutivo. Si è concluso, invece, con un niente di fatto. Le chiedo: secondo Lei, un accordo è possibile? 

In effetti un accordo è difficile e credo che richiederà tempi lunghi e condizioni giuste. Voglio dire, in fin dei conti la guerra del 1999 è terminata da meno di quindici anni che sono tanti ma, poi, non così tanti in una prospettiva storica, i risentimenti sono fortissimi e soprattutto sono ancora aperte le questioni “calde” che sono, per esempio, quelle delle minoranze serbe presenti in Kosovo e soprattutto nel Nord del Kosovo, la questione della sovranità del Kosovo che continua a non essere riconosciuto dalla Serbia come Paese sovrano così come da altri Stati europei, primo fra tutti la Spagna e per evidenti motivi, il fatto che permangano, comunque, delle minoranze albanesi nei territori del Sud della Serbia, il fatto anche molto doloroso sotto alcuni aspetti che in Kosovo siano locati alcuni dei luoghi cari alla memoria religiosa e storica serba perché bisogna ricordare che il Kosovo bene o male sia, il termine è stato utilizzato molto in passato in maniera retorica ma fotografa molto bene la realtà, la “culla” della civiltà serba e quindi dobbiamo pensare ai grandi monasteri ortodossi come quello di Pec che rimangono punti di riferimento ideali della cultura della Serbia. Questi, secondo me, sono gli elementi che ostacolano in modo evidente il processo di “normalizzazione” e lo ostacoleranno ancora nei prossimi anni assieme agli elementi psicologici e al risentimento per quello che è successo durante la guerra, durante e dopo, e che ovviamente da parte serba non può non essere forte. Comprendo le ragioni albanesi, non posso ignorare le ragioni di Belgrado che ha naturalmente perduto una guerra in cui si è vista sottrarre una parte di territorio che considerava nella sua prospettiva a buona ragione nazionale e che in quel territorio vede le proprie radici storiche.

Quindi, in sostanza, la mia non è una prospettiva ottimistica nel breve e medio periodo.

 

 

Secondo lei esiste un compromesso che possa essere accettato da entrambe le parti?

Se la volontà vera che sottostà al dialogo è quella di raggiungere un accordo, penso che un compromesso debba essere trovato perché altrimenti non vedo come se ne possa uscire. Per esempio, un compromesso potrebbe essere accettabile nei termini di una forte autonomia per non dire una vera e propria indipendenza delle province situate a Nord del Kosovo e quindi di garanzie forti nei confronti delle minoranze serbe e per i monasteri ortodossi sparsi nella regione che hanno una valenza storica e culturale rilevante. Più difficile è vedere cosa la Serbia possa e voglia poter dare in cambio al governo kosovaro albanese per ottenere vantaggi di questo tipo. Qui credo che il terreno si faccia molto scivoloso.

 

 

Torniamo al 1999. Quando scoppiò la guerra quali erano gli interessi nella regione? Perché era importante avere il controllo della regione?

I motivi reali della guerra si capiscono subito se si prende in mano una cartina geografica: il Kosovo è una regione situata proprio nel cuore della regione balcanica. Dal Kosovo, infatti, è possibile raggiungere un novero di Paesi che sono collocati intorno alla regione in questione; il Kosovo, inoltre, ha una notevole e fortissima valenza culturale e storica per l’Albania e gli albanesi. Quindi, il controllo del Kosovo consentiva, ed ha consentito, per esempio agli Stati Uniti tanto per non fare nomi, di situare lì una importante base militare, la più grande ed importante base militare statunitense all’estero. Ha consentito agli Stati Uniti di sviluppare un rapporto assolutamente privilegiato con l’Albania e con il popolo albanese sia dentro che fuori i confini dell’Albania. Consente agli Stati Uniti di esercitare un controllo e all’occorrenza anche una pressione sui vicini del Kosovo. Non credo, però, che la guerra per il Kosovo fosse dettata e sia stata il risultato di un calcolo, diciamo, strategico à la Risiko per impadronirsi di un territorio centrale ecc. Credo, piuttosto, che a quella guerra si sia arrivati perché, alla fine dei conti, ad un certo punto era la prospettiva considerata inevitabile da tutte le parti in causa: la Serbia pensava probabilmente che con il confronto delle forze di riuscire a raggiungere i suoi obiettivi di politica estera ma soprattutto di politica interna e penso a Milosevic; gli Albanesi pensavano di riuscire a raggiungere l’indipendenza; gli Americani pensavano di eliminare Milosevic per poter realizzare quell’ennesimo regime-change funzionale ad un intero progetto di politica estera statunitense; gli europei pensavano come al solito cose molto diverse e non essendo coesi sulla linea da seguire si sono allineati alla visione degli Stati Uniti. Tutto ciò è sfociato inevitabilmente nella guerra e nel risultato della divisione di Serbia e Kosovo, evento che da un certo punto di vista era scontato anche se non così scontato visto che se non ricordo male dall’aprile siamo arrivati sino alla fine di giugno (se non addirittura da marzo) e alla fine i Serbi hanno mollato anche per la forte pressione diplomatica esercitata dalla Federazione Russa. Quindi la situazione venutasi a creare non è stato soltanto il frutto di un’azione militare, intendo quella fondata sull’impiego del potere aereo, che ad un certo punto sembrava non riuscire a rivelarsi risolutiva tant’è che si era in procinto di effettuare un intervento per vie di terra che sarebbe stato problematico e costoso in termini umani.

 

 

In caso ancora l’avesse, qual è l’importanza oggi del Kosovo sullo scenario internazionale?

Ha un’importanza per gli attori direttamente coinvolti quindi per l’Albania ed evidentemente per la Serbia. Le recenti elezioni in Serbia e le prossime elezioni politiche che si terranno in estate in Albania bene o male hanno visto e vedranno una posizione centrale della questione del Kosovo che rappresenta per questi due Paesi una questione di un certo, per non dire molto, rilievo.

Interessante è quello che sta succedendo in Albania: il ritorno, cosa peraltro scontata per certi versi, dei progetti di Grande Albania, i riferimenti ormai espliciti in tanti pronunciamenti pubblici dei leader albanesi più importanti proprio alla prospettiva di una progressiva integrazione delle regioni del Kosovo nello Stato albanese che, naturalmente, se questo avverrà, potrebbe mettere in moto, come è già avvenuto, dei processi di risveglio albanese in tutti quei Paesi vicini in cui rilevante è la componente albanese, penso alla Macedonia, alla stessa Grecia della zona dell’Epiro, penso alla zona del Montenegro. Per la Serbia è una questione particolarmente delicata, una questione che ha a che fare con la sovranità nazionale, la Serbia ha patito quella che considera una umiliazione ed una ingiustizia ed è evidente che questa cosa più o meno sotto traccia a prescindere, insomma, dall’enfasi che ad essa danno i diversi leader ed esponenti politici serbi pesa e continuerà a pesare.

 

 

Dacic ha dichiarato a metà marzo che Pristina non è ancora pronta ad un accordo perché ha le spalle coperte dal potere statunitense. Lei poc’anzi ha già espresso la centralità della regione per Washington. Dato per certo il ruolo degli Stati Uniti in Kosovo, Le chiedo se, oggi, la Federazione Russa può avere un ruolo da protagonista in Kosovo e, più in generale, nella regione balcanica.

La Federazione Russa un ruolo da protagonista sul palcoscenico balcanico lo ha avuto e credo che continuerà ad averlo. D’altra parte la Federazione Russa fa parte dei famosi BRICS, è un Paese in espansione economica, che gode grazie alle risorse naturali di possibilità economiche, che significano anche possibilità di pressione politica, rilevanti. Però, che questo, nel breve e medio periodo consenta, come dire, di bilanciare la situazione mettendo la Serbia, dal punto di vista negoziale e diplomatico, sullo stesso piano del Kosovo mi sembra improbabile. Anche perché non credo che la Federazione Russa si voglia spendere più di tanto per una causa che, temo, sia perduta. La Serbia in questo momento è in una posizione di grande debolezza: è rimasta isolata dopo la guerra, lo è per certi versi tutt’ora. È chiaro che l’Albania è in una posizione tutta diversa. È vero quanto da lei riportato che l’Albania e in particolare intendo il Kosovo albanese e il suo governo si trovi in una posizione di forza perché evidentemente alle loro spalle ci sono gli Stati Uniti.

Non altrettanto chiaramente dietro il Governo di Belgrado e le sue richieste vedo la Federazione Russa perché appunto rimanendo verissima la solidarietà che i russi hanno sempre dimostrato in questi ultimi anni nei confronti della Serbia e anche durante il conflitto,  o subito dopo, non so quanto vogliano e si possano spendere per la causa serba e non so se questo è nell’interesse prioritario della Federazione Russa.

 

 

E l’Unione Europea che interesse ha nella regione in generale ed in Kosovo in particolare?

L’Unione Europea nella regione balcanica ha sempre avuto…anzi, meglio, l’Unione Europea nella regione balcanica avrebbe sempre dovuto avere un interesse che era quello di evitare la destabilizzazione dell’area, di evitare l’aumento della conflittualità e che, soprattutto, la conflittualità scattasse a livello violento. Purtroppo, a partire dagli anni ottanta e i primissimi anni novanta l’Europa si è presentata spesso, quasi sempre, divisa e poco efficace da un punto di vista diplomatico su quello scenario. Le conseguenze le conosciamo: in fin dei conti, anche il fatto che la crisi scoppiata nell’ex Jugoslavia nel momento in cui la Federazione si trovò coinvolta in quel cataclisma geopolitico che era stato la fine della guerra fredda e il crollo del Muro con quel che ne è conseguito, andare fuori controllo di quella situazione fu dovuta anche a certe iniziative, più o meno affrettata, di rilevanti attori dello scenario politico europeo a cominciare probabilmente dalla stessa Germania: i riconoscimenti affrettati, non concordati con i partner e così via.

Non mi sembra, ad essere onesto, che le cose da allora siano cambiate molto a prescindere dal fatto che ci sia adesso Lady Ashton e una presunta politica estera condivisa. L’Europa politica vive un momento di grande crisi, inutile nascondercelo, e che quindi riesca, possa e voglia nel futuro immediato, in particolare qualora si verificassero nuove crisi locali, e spero che questo non avvenga, giocare un ruolo maggiormente significativo del ruolo giocato in passato mi sembra improbabile, non vedo gli elementi che potrebbero giustificare un’asserzione, un’affermazione di questo tipo.

 

 

Lo intravede un futuro europeo di Serbia e Kosovo? Crede che l’opzione europea sia quella cui ambiscono i due Governi oppure ci sono altre opzioni?

Mah, fino a pochi anni fa avrei detto che l’opzione europea fosse un’opzione pressoché obbligata. Sia per ragioni, se vogliamo, ideali, storiche e culturali perché evidentemente stiamo parlando di territori che sono a buon diritto e a buona ragione europei, che sono nel cuore dell’Europa, che sono strettamente legati alla storia dell’Europa, anche se per secoli sono stati territori di confine e territori che sono stati sotto il controllo di una potenza, l’Impero Ottomano, che non era potenza europea. Indubbiamente, nei primi anni novanta, il riferimento di tutta quell’area geopolitica dei Paesi balcanici che uscivano da decenni di regimi comunisti era ed è stata l’Europa. Indubbiamente c’è stata un’ondata di entusiasmo che ha preceduto, accompagnato e seguito l’ingresso in Europa di Paesi di quell’area come la Romania o più a Nord la Polonia.

Nel frattempo, però, sono cambiate tante cose. Sono cambiate tante cose perché il progetto europeo di integrazione è in crisi, molti Stati europei, in particolare quelli che sono più vicini per vari aspetti di natura geografica e culturale agli Stati balcanici, sono quelli che in questo momento si trovano in grave crisi economica e finanziaria all’interno dell’Unione. Al tempo stesso c’è stato, a partire dall’anno 2000, un evidente risveglio e il manifestarsi di una politica estera e di difesa molto muscolare da parte della Federazione Russa che è chiaro è legata a quei popoli, in particolare al popolo serbo da vincoli storici e culturali di antica data, mentre a Sud c’è un risveglio di tipo neo-ottomano: la Turchia è un Paese che sta bruciando le tappe sulla via dello sviluppo, è un Paese in enorme crescita, che ha sfiorato il 6% di incremento annuo del PIL dal 2007 ad oggi, cioè, negli anni di peggior crisi per l’eurozona. L’Euro è una moneta, in questo momento, forte ma l’area economica cui essa fa riferimento non è altrettanto forte in tutte le sue componenti. Cresce l’euroscetticismo, sia all’interno di Eurolandia che, ovviamente, fuori dai confini di Eurolandia. Gli stessi turchi, per esempio, che fino a qualche anno fa erano particolarmente ansiosi ed esercitavano forti pressioni per entrare in quella che poi è diventata l’Unione Europea oggi mi paiono molto più prudenti e scettici e, alla fine, abbastanza disponibili anche a rimanerne fuori visto che sono stati tenuti alla porta a lungo e oggi vedono venir meno di, non dico tutte, alcune condizioni che li avrebbero resi entusiasti partecipi del processo di costruzione europea.

Quindi, se mettiamo assieme tutte queste cose, oltre alle crisi locali come ad esempio i risentimenti serbi nei confronti dell’Europa specie nei confronti di alcuni Stati dell’Europa e che, penso alla Spagna, ci siano risentimenti di alcuni stati europei su come è stato risolto il conflitto serbo – albanese sul Kosovo, tutto questo, dicevamo, delinea un quadro che mi fa dire che quella europea sia l’unica opzione anche se, personalmente, potrei anche auspicare un ulteriore allargamento dell’Unione europea in quell’area eccetera. Però, realisticamente, ci sono tutte queste condizioni nuove che lo rendono molto più difficile.

 

 

Chiudo con questa domanda: possibile un nuovo atto di forza per risolvere la questione?

Un atto di forza potrebbe essere pericoloso e controproducente. Non credo che la Serbia, poi, si trovi in condizioni economico-politiche tali da permetterle nuove avventure. Tutto questo mi lascerebbe propendere per affermare che tutto è possibile in politica ma che ci sono cose molto poco probabili.

 

 Firenze, 3 aprile 2013.

 

 

*Luciano Bozzo, Professore associato, insegna Relazioni Internazionali e Studi Strategici nel Corso di laurea triennale in “Studi internazionali” dell’Università di Firenze. Insegna inoltre nei Corsi di laurea specialistica in “Relazioni internazionali” e in “Scienze aeronautiche”, al Master in “Comunicazione e Media” dell’Università di Firenze e al Master in “Human Rights and Conflict Management” della Scuola Sant’Anna di Studi Universitari e Perfezionamento di Pisa. È Direttore del Centro universitario di Studi Strategici ed Internazionali (CSSI), costituito presso il Dipartimento di Scienza della Politica e Sociologia. Insegna dall’a.a. 1990-1991 Strategia Globale al Corso superiore della Scuola di Guerra Aerea di Firenze. E’ membro dell’International Institute for Strategic Studies di Londra. Ha partecipato come caposquadra alla missione di monitoraggio delle elezioni amministrative in Albania nel 1996. Nel periodo 1998-2001 è stato a più riprese impegnato in Bosnia, nel quadro delle attività per l’applicazione degli accordi di Dayton.

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INTERVISTA A GERARD GALLUCCI

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A cura di Andrea Turi

 

Per prima cosa la ringrazio della sua disponibilità a rispondere alle mie domande. Vorrei cominciare dalle ultime notizie riguardanti le relazioni tra Serbia e Kosovo. In base alla sua esperienza, dopo il fallimento del dialogo a Bruxelles, è ancora possibile che le due parti trovino un accordo nel breve e medio periodo? Se no, perché?

Certamente è sempre possibile raggiungere un accordo tra le parti contendenti ma entrambe devono essere pronte al compromesso e, se c’è un mediatore, il mediatore deve essere neutrale. Il problema fino ad oggi per quanto riguarda il raggiungimento di una soluzione pacifica sul Kosovo è stato che i “mediatori” – Unione Europea e Stati Uniti – non sono stati neutrali e hanno permesso a Pristina di dettare le proprie condizioni.

A partire dal 2008, hanno messo da parte un’agenzia veramente neutrale – le Nazioni Unite (Unmik) – e hanno cercato di imporre una soluzione unilaterale favorevole a Pristina. In passato, l’Unione Europea e gli Stati Uniti hanno cercato utilizzando le forze armate – KFOR e EULEX – per spingere i Serbi del Nord del Kosovo ad arrendersi a Pristina. Nelle recenti sessioni del dialogo, l’Unione Europea (seguendo la linea della Germania) e gli Stati Uniti hanno provato a forzare la Serbia ad accettare i termini proposti da Pristina per raggiungere la “sovranità” nel Nord, utilizzando la leva della data per i negoziati di adesione all’UE: questo è stato l’equivalente di un ricatto. E questo continua a non funzionare perché nessun Governo serbo potrà essere giudicato nell’atto di consegnare semplicemente i Serbi del Kosovo nelle mani di Pristina. Speriamo che questo possa dire ai paesi del Quintetto – Gran Bretagna, Stati Uniti, Germania, Francia e Italia – che non ci sarà nessuna soluzione pacifica per il Nord del Kosovo fino a che loro non accetteranno il fatto che si debba trovare un reale compromesso e spingere Pristina ad accettarlo.

 

 

Quindi la sua opinione sull’Unione Europea in qualità di mediatore non è buona.

A guarda dall’esterno – e a giudicare dalla mancanza di risultati – sembra che l’Unione Europa sia stata tutto meno che neutrale ed equilibrata. La sua ultima proposta, a quanto pare, rappresentava un semplice “prendere o lasciare” in cui si chiedeva di accettare il controllo di Pristina sul Nord della regione. Ad essere onesti, può essere stato che Ashton avesse dei limiti posti su di lei dal forte sostegno statunitense per Pristina e, in qualsiasi circostanza, dall’apparente mancanza di entusiasmo di Berlino per l’adesione serba all’Unione.

 

 

Serbia e Europa, quindi. La data di inizio delle negoziazioni è completamente arbitraria e la Serbia, comunque, non avrebbe garanzie che sarà invitata ad unirsi all’Unione Europea in futuro. La “data” rappresenta un puro e semplice mezzo di ricatto per convincere Belgrado ad arrendersi sul Kosovo e niente più?

Questo è ovvio da tutto quello che i leader politici europei e tedeschi hanno detto. È chiaro che il fallimento nel raggiungere un accordo nell’ultimo round dei dialoghi con Pristina significa che la Serbia non ha ottenuto questa data. Fino ad ora, sembra che l’UE si accontenti di mantenere la partecipazione della Serbia in disparte per tutto il tempo che ci vuole affinché la Serbia si arrenda al Kosovo. Un approccio alternativo potrebbe essere quello di consentire alla Serbia di avviare i negoziati per l’adesione con l’aspettativa che nel corso dei prossimi anni, i problemi pratici possano essere risolti e le grandi questioni politiche tra la Serbia e il Kosovo maturare fino al punto di arrivare ad una soluzione.

 

 

Qual è quindi il futuro dei due Paesi? È il cammino europeo, l’opzione europea, la migliore soluzione per entrambi? O, forse, ci sono altre alternative più praticabili, soprattutto per la Serbia?

Sia la Serbia che il Kosovo sono parti dell’Europa. Così come lo sono Macedonia, Montenegro e Bosnia-Erzegovina. Nella misura in cui la stessa Unione europea sopravviverà e prospererà,   appartengono tutti ai suoi confini.

 

 

Torniamo al fallimento del dialogo. Parlava di compromesso. È possibile raggiungere un equilibrio tra le due parti? Ritiene che il piano Ahtisaari sia ancora un soluzione valida e praticabile? 

Il piano Ahtisaari è stato ben progettato per la situazione del Kosovo: forniva un quadro di riferimento per un reale decentramento del Governo locale e collegamenti continui con la Serbia. Ci sono però due problemi: non è stato pienamente realizzato a sud dell’Ibar e avrebbe bisogno di dettagli importanti per essere applicato a Nord dell’Ibar. Questi dettagli ancora da definire fanno perno sul ruolo esatto di Pristina nelle decisioni dei Governi locali nelle municipalità a maggioranza serba, specialmente nei settori di polizia, tribunali e finanziamenti. Ma queste sono questioni pratiche e presumibilmente potrebbero essere risolte attraverso soluzioni pratiche.

 

 

Ritiene ancora che il problema dei “poteri esecutivi” da attribuire all’associazione delle municipalità serbe del Nord del Kosovo sia non un problema ma un “falso problema”? Se è così, quale è il problema vero?

Pristina e i suoi alleati internazionali possono aver sollevato la questione delle autorità “esecutive” come un modo per evitare un reale compromesso. Il piano Ahtisaari è chiaro (allegato 3) quando specifica che le associazioni municipali (nel documento vengono chiamate partnership) possono avere organi decisionali composti da rappresentanti dei Comuni. Le associazioni potranno adottare tutte le azioni necessarie all’implemento ed esercitare la loro collaborazione funzionale attraverso, tra le altre cose, l’istituzione di un organo decisionale composto da rappresentanti nominati dalle assemblee dei comuni partecipanti, l’assunzione e il licenziamento del personale amministrativo e di consulenza, e le decisioni relative al finanziamento e altre esigenze operative del partenariato. Si possono chiamare questi organismi esecutivi o meno, ma ci sono già nel Piano Ahtisaari.

Il vero problema potrebbe essere determinato dalla paura che le associazioni comunali possano diventare una sorta di Kosovo Republika Srpska. Ma fino a quando queste non avranno un ruolo nel governo centrale, né in materia di polizia e di tribunali – il Piano Ahtisaari dà il ruolo di protagonista al livello locale del governo municipale – il confronto con la Bosnia sarà discutibile.

 

 

Lei ha affermato (Kosovo – Pristina doesn’t really want negotiations on the Nroth, May 22nd, 2012) che Pristina non vuole negoziazioni sul Nord, vuole il Nord. Pensa che ci potrebbero essere atti di forza per ottenere questa parte del Paese? 

Pristina ha già tentato di introdurre la sua polizia e i suoi agenti doganali nel Nord usando la protezione della KFOR e dell’EULEX. È la polizia speciale (ROSU) che periodicamente molesta i Serbi kosovari che vivono sulla sponda Nord del fiume Ibar. A quanto pare, gli ufficiali di Pristina sono ancora trasportati al confine settentrionale su elicotteri dell’EULEX.  Il Primo Ministro del Kosovo ha già messo in guardia in passato che Pristina avrebbe cercato di imporre la propria autorità nel nord con il sostegno internazionale.

Ma il vero pericolo non è se il Kosovo lancerà il suo esercito o la polizia in qualche massiccio sforzo per la conquista del Nord ma piuttosto il fatto che resta la possibilità per Pristina di intraprendere azioni provocatorie – iniettare le forze di polizia speciali ulteriormente verso nord, più frequenti “ritorni” unilaterali allo scopo di prendere terra – al fine di creare una crisi che “richieda” un intervento da parte della NATO. Speriamo che il Quintetto sia sensibile a questa possibilità e prevenga tali azioni.

 

 

La Serbia è sola e sembra non avere molte altre alternative all’ultimatum proposto da Bruxelles, specialmente se Washington sembra risoluta nell’attuare quello che ha già deciso per il futuro del Kosovo. Secondo lei, la Serbia dovrebbe “accettare” l’ultimatum e continuare il dialogo per evitare di trovarsi davanti ad un fait accompli con la conseguente perdita di tutto il suo potere negoziale?

Non sono io quello che deve dire alla Serbia cosa dovrebbe fare. Ma è chiaro che lo sforzo da parte dell’UE e degli Stati Uniti per mantenere la partecipazione della Serbia all’UE in ostaggio dei disegni sul Nord di Pristina non ha funzionato. Per quanto riguarda la stessa Unione europea, dovrebbe vedere le sue buone ragioni nel portare la Serbia nell’Unione. L’Europa non può essere completa fino a che non include i Balcani. É comprensibile che l’UE non voglia portare al suo interno un’altra divisione che ricorda quella di Cipro. Kosovo e Serbia dovranno, alla fine, riconciliarsi l’un con l’altra. Ma piuttosto che cercare di spingere la Serbia in una situazione in cui ha tutto da perdere, Bruxelles dovrebbe assumere un ruolo guida nella ricerca di un compromesso reale. Lady Ashton finora non si è mossa in questa direzione.

 

 

L’Ambasciatore della Federazione Russa a Belgrado, Aleksandar Cepurin, ha recentemente dichiarato che la Risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite 1244 è un documento ancora valido ed in essere. Concorda con il fatto che il luogo giusto per risolvere la questione possano essere le Nazioni Unite?

È certamente vero che la UNSCR 1244 è ancora applicabile in quanto non è mai stata né modificata né ritirata dal Consiglio di Sicurezza. L’ONU è ancora in campo in Kosovo con responsabilità di peacekeeping. L’ONU è un organismo neutrale e anche Pristina dovrebbe essere saggia da permetterne il ruolo se veramente aspira, un giorno, a diventarne membro. Per unirsi all’ONU sembrerebbe indispensabile rispettare l’ONU.

Il problema è la realtà di come funziona l’ONU: lavora nell’ambito del suo mandato ma anche nell’ambito della politica in seno al Consiglio di Sicurezza. Fin d’ora, il Quintetto sembra voglia tenere l’ONU fuori dalla questione in quanto non è in grado di controllare un possibile ruolo neutrale delle Nazioni Unite con la stessa facilità con cui può controllare un coinvolgimento dell’UE. Ma ad essere onesti, la Russia stessa non ha insistito nel riportare la questione al Consiglio di Sicurezza né si è offerta di inviare di nuovo i suoi propri peacekeepers in Kosovo. (Le forze russe hanno partecipato alla KFOR in passato).

 

 

Come reputa il lavoro dell’amministrazione internazionale in Kosovo dal 1999 e l’applicazione del diritto e della legge nel Paese?

UNMIK è stata una missione ampia con molte responsabilità, non tutte compatibili e non tutte con il pieno supporto di tutti i membri del Consiglio di Sicurezza. Inoltre, cadde sotto l’influenza della maggioranza della popolazione che la circondava. Detto questo, credo che la missione abbia fatto il meglio che ha potuto in quelle circostanze. EULEX (e ICO) sono questioni diverse: avevano piena autorità concessa dallo stesso governo del Kosovo. Ma sono caduti preda – con meno scusanti – degli stessi problemi che gravavano sull’UNMIK.

 

 

Un’ultima domanda: quali sono i Paesi che hanno ancora interessi in Kosovo e quali sono questi interessi?

Domanda complessa per una risposta breve. Ma può essere che nessun Paese abbia veri vitali interessi lì. La Germania preferisce un Kosovo “indipendente” così da rinviare lì i migranti. Gli Stati Uniti vogliono qualunque cosa gli albanesi del Kosovo vogliono e si accontentano di lasciare i problemi all’UE. L’UE vuole che gli venga riconosciuta con successo la gestione di un importante sforzo nella costruzione di una Nazione. Nessuno di questi interessi, però, stanno apparentemente premendo al punto di determinare politiche efficaci che si occupino delle questioni interne del Kosovo – come la corruzione e la criminalità – o producendo un vero sforzo per risolvere il problema del Nord.

 

 

* Gerard Gallucci, ex inviato delle Nazioni Unite in Kosovo (2008).

 

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LA POLITICA DEL RISCHIO CALCOLATO NORDCOREANA ED IL RUOLO DELLA CINA

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Il nuovo presidente cinese Xi Jinping, a poco più di un mese dalla formalizzazione del mandato, si trova a dover affrontare delle sfide problematiche e, in particolare, a dover mediare la delicata crisi coreana.

Il capo di Stato della Repubblica Popolare Cinese ha rinnovato l’invito alla calma, più volte avanzato nelle ultime settimane, nel discorso di apertura del 7 aprile del Forum Economico di Bohai, sull’isola di Hainan: «A nessuno dovrebbe essere permesso di portare il caos in una regione e nel mondo intero per fini personali»[1].

Xi Jinping ha ribadito che la Cina perseguirà il mantenimento di “buone relazioni” con i suoi vicini per la stabilità della regione; la linea ufficiale di Pechino rimane, dunque, quella del dialogo tra tutte le parti coinvolte.

L’alleanza della Cina con la Repubblica Democratica Popolare di Corea ha origini storiche, che risalgono alla Guerra di Corea (1950-1953), alla fase di reazione al contenimento statunitense, e alla stipula del Trattato di Mutua Assistenza e Amichevole Cooperazione siglato nel 1961 e valido fino al 2021.

L’alleanza è strategica e fondamentale per entrambi i Paesi.

Innanzitutto, la Corea Popolare, nel perseguimento delle riforme economiche sul modello cinese, necessita del sostegno economico e dell’acquisizione di conoscenze tecniche; nella prima metà del 2012, gli interscambi commerciali ammontavano a 3,14 miliardi di dollari.

La Cina, d’altro canto, ha ben presente l’importanza di Pyongyang dal punto di vista geopolitico, in quanto zona di cuscinetto tra il territorio cinese e le truppe statunitensi di stanza nel sud del trentottesimo parallelo.

Il governo di Pechino non può, dunque, abbandonare la Repubblica Democratica Popolare di Corea. Tuttavia è indubbio un sottile spostamento della politica estera cinese ed un progressivo allontanamento da Pyongyang; Pechino ha preso le distanze dal suo alleato in seguito al terzo test nucleare sotterraneo del 12 febbraio 2013[2], sostenendo, per la prima volta, il nuovo pacchetto di sanzioni ONU contro il Paese, presentato il 7 marzo scorso. La posizione della Cina si delinea piuttosto scomoda. La minaccia nordcoreana agli Stati Uniti è trascurabile, dal momento che l’esercito di Kim Jong-un non è fornito di missili a lunga gittata capaci di trasportare ordigni nucleari; piuttosto, è sentita maggiormente a Seul, Tokyo e Pechino; inoltre, Pyongyang non deve tralasciare il fatto che gli Stati Uniti controllano le sanzioni internazionali data la posizione dominante nel Consiglio di Sicurezza, e possiedono una concreta egemonia politica nel sistema internazionale. Forse Pechino in passato si è mostrata troppo accondiscendente con la Corea del Nord, comunque oggi, eliminare le strutture nucleari coercitivamente è impensabile e si tradurrebbe in una guerra globale. Il governo cinese dovrebbe, invece, indurre Pyongyang ad aderire al Trattato di Non-Proliferazione (TNP).

In questi giorni Pechino ha inviato delle truppe al confine con la Corea Popolare, non tanto a fini offensivi, ma per difendere il confine dall’eventuale ondata di rifugiati nell’eventualità di un crollo del regime (comunque improbabile, n.d.r.).

Anche il governo statunitense ha mostrato un allentamento della presa, sospendendo il test missilistico a lungo raggio che doveva tenersi questa settimana; Washington vuole evitare di provocare ulteriormente Kim Jong-un, ed eventualmente rispondere solo con atti di pari intensità.

Nel frattempo, Pyongyang invita i rappresentanti diplomatici presenti sul territorio a rimpatriare, e gli stranieri presenti nel Sud a lasciare il Paese; un tentativo di guerra psicologica a cui Seul rifiuta di abboccare. Il governo nordcoreano ha annunciato, inoltre, di avere completato i preparativi per il lancio di uno dei suoi missili a medio raggio, il Musudan, alcuni esemplari del quale sono posizionati lungo la costa orientale del Paese. I Musudan si pensa possano colpire un bersaglio distante anche 3/4.000 chilometri, mettendo a rischio strutture strategiche sud-coreane, giapponesi e l’avamposto militare statunitense di Guam, nel Pacifico.

Il polo industriale intercoreano di Kaesong rimane ancora bloccato, con conseguenti gravi perdite economiche per l’intera Penisola Coreana.

Il persistere di questa politica spregiudicata da parte della Corea del Nord, della cosiddetta brinkmanship[3], viene dall’Occidente considerato indicativo della grave difficoltà del Paese, che vive in condizioni economiche ancora non in linea con gli standard dei Paesi avanzati e della necessità da parte del nuovo capo di Stato di ottenere legittimità sia sul piano internazionale che su quello interno.

La strategia di Pyongyang deve essere superata attraverso una cooperazione e collaborazione internazionale, e la Cina, in primis, può sostenere e promuovere tale strategia diplomatica.

 

 

 

 

 

[1] Buzzetti E., Coree: test nucleare non imminente, Agichina24.

[2] L’ordigno nucleare del 12 febbraio è risultato di potenza doppia rispetto ai due precedenti esperimenti del 2006 e del 2009.

[3] Il termine brinkmanship, coniato dal Segretario di Stato John Foster Dulles nel corso della Guerra Fredda, indica la strategia del “rischio calcolato” o dell’ “orlo del burrone”, ovvero il ricatto nucleare al fine di ottenere uno specifico obiettivo.

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“EUROPA-CINA: SFIDA OD OPPORTUNITÀ?”. CONFERENZA ALL’UNIVERSITÀ DI MODENA IL 19 APRILE

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Venerdì 19 aprile 2013 ore 17.30,  presso l’Aula IV dell’Università degli Studi di Modena – (Via Università n.4, pianterreno).

Conferenza:  “Europa – Cina: sfida od opportunità?

 

Relatori:

 

● Elisa Baroncini (prof. Università di Bologna) : “La Cina nel sistema di risoluzione delle controversie dell’OMC”

● Stefano Vernole (redazione di “Eurasia” Rivista di sudi geopolitici): “Il ruolo geopolitico della Cina nel sistema multipolare”

● Han Qiang (Consigliere dell’Ambasciata della Repubblica Popolare Cinese in Italia): “L’interesse della Cina per l’Europa: storia, cultura e relazioni politiche – economiche”

Paolo Moscatti (Presidente di Tec Eurolab): “Le piccole e medie imprese in Cina: modalità di azione”

 

Patrocinio del Centro Studi “Eurasia-Mediterraneo” – Cesem 

 

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http://www.cese-m.eu/cesem/2013/04/europa-cina-sfida-od-opportunita-a-modena-il-19-aprile/

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LA VICENDA DEI MARO’. INTERVISTA A VINCENZO MUNGO

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A cura di Filippo Pederzini

 

1) La vicenda che vede coinvolti i due marò italiani in India può in un qualche modo avere ripercussioni negative anche da un punto di vista economico, dati gl’intensi rapporti che intercorrono tra realtà imprenditoriali italiane di rilievo e lo Stato indiano?

La vicenda avrà, con ogni probabilità ripercussioni negative nei rapporti tra Italia ed India anche dal punto di vista economico. L’India è diventata oggi una potenza di notevole peso nei rapporti internazionali, sia sul piano politico che su quello economico. Il ritorno del subcontinente ad una posizione di rilievo , dopo essere stato oggetto per secoli  di un processo di colonizzazione, ha portato la popolazione indiana a reagire in maniera forse eccessiva ad ogni azione, da parte di altri Paesi, che possa apparire ispirata da principi “ neocolonialistici”. Non è certamente questa la volontà italiana , né Roma avrebbe modo , pur volendolo, di agire in maniera imperialistica contro un Paese  dotato di 100-150 testate nucleari, di una potente aviazione, di una potente flotta e di un fortissimo esercito. Né l’Italia ha un potere economico finanziario tale da potere condizionare la politica indiana ed indurla a fare quello che vuole nella vicenda dei “ marò”. Tuttavia la suscettibilità esasperata di un popolo soggetto a lungo ad un regime coloniale ha fatto pensare che la richiesta del governo di Roma di processare i marò in Italia fosse un atto ispirato dalla  superbia  di un Paese che avrebbe ancora una cultura “eurocentrica” e non considerasse, quindi, il nuovo posto dell’India nella comunità internazionale.  Su questo sentimento si è inserita l’azione di forze che come i nazionalisti indù del BJP, il Bharatya Janata Party, (il secondo partito del Paese) hanno sempre criticato il partito del Congresso, al potere,  anche per il fatto di essere diretto dall’italiana Sonya Gandhi (che peraltro fa di tutto per fare dimenticare la su origine e che non è certo intervenuta a favore dell’Italia , anche in questa vicenda).  Gli errori ed il comportamento ondeggiante del governo di Roma hanno aggravato la situazione. Soprattutto il fatto di avere ventilato il mancato ritorno dei militari in India, in occasione della seconda “ licenza” concessa ai marò per tornare in Italia,  ha determinato una reazione molto negativa sia nell’opinione pubblica ,che nella classe politica e nella magistratura indiana. Questa vicenda, unita al recente scandalo che ha visto coinvolta la Finmeccanica  (a causa, c’è da sottolinearlo, della iniziativa sbagliata della magistratura italiana, che non ha tenuto presente che una certa dose di corruzione esiste in tutti i rapporti economici internazionali), non favorirà certamente l’attività delle nostre imprese nel subcontinente. Si consideri, inoltre, che gli altri Paesi, anche presunti alleati dell’Italia, come Stati Uniti, Gran Bretagna , Francia, Germania, non hanno fatto nulla per intervenire a favore dell’Italia ed anzi agiscono per toglierci quote di mercato in India. Si aggiunga, infine, l’atteggiamento pilatesco, tenuto dall’Unione europea e si avrà il quadro negativo della situazione. Questo quadro resterà, tuttavia, negativo solo nel breve periodo.  Il popolo italiano è, in fondo, ben visto da quello indiano, che ne apprezza il “modo di vivere”, determinato dal gusto in campo gastronomico, dall’abbigliamento relativamente elegante (a volte anche dei  turisti, ma spesso se si tratta di dirigenti aziendali o professionisti), contrapposto allo “stile” più sciatto degli altri popoli occidentali (e questo  fatto  è  importante per gli indiani).  Gli italiani stabiliscono poi facilmente legami di amicizia personale con gli indiani, anche perché si recano spesso nei “luoghi di incontro” (culturali o di divertimento) frequentati dagli indiani, cosa che raramente fanno i cittadini di altri Paesi occidentali. L’italiano, in conclusione, riesce facilmente a stabilire rapporti cordiali con gli indiani, ed è ammirato per il suo “stile” di vita. Anche le imprese italiane hanno “buona stampa” nel subcontinente , dove fino ad oggi peraltro la loro presenza è stata relativamente limitata (abbiamo effettuato investimenti molto maggiori in Cina o in Brasile).

 

2) Indipendentemente da come evolverà l’intera questione, come ne potrà uscire l’immagine dell’Italia da un lato e quella dell’India dall’altro? E in che modo evolveranno i rapporti tra i due Paesi?

L’immagine dell’Italia non uscirà molto danneggiata dalla vicenda dei marò, dati i rapporti di simpatia, cui facevo prima riferimento, che si sono stabiliti tra le due popolazioni. Certo non si potrà prescindere dall’operato del governo italiano , che dovrà agire con cautela  evitando di ripetere errori clamorosi. Roma dovrà agire soprattutto di concerto con gli altri Paesi occidentali  per fare pressioni su Nuova Delhi e convincerla ad accettare la giurisdizione di un tribunale internazionale che giudichi i marò. A tal fine il nostro governo dovrà “battere i pugni sul tavolo” con Paesi a noi formalmente alleati perché si ricordino dei loro doveri di solidarietà e non approfittino della situazione per sottrarci quote di mercato. E’ più importante questo tipo di intervento che cavillare su questioni di diritto internazionale, quali il fatto se la nave si trovasse o meno in acque internazionali al momento dell’uccisione dei pescatori. Ritengo comunque che nel medio periodo i rapporti tra Italia ed India torneranno a migliorare, sia per l’immagine positiva che ha il nostro Paese nel subcontinente, sia per il fatto che, al di là delle prime reazioni, dettate anche dall’emotività, la vicenda dei “marò” non ha una importanza tale da incrinare in maniera sostanziale i rapporti tra due Paesi. Questo ragionamento, lo ribadisco, è valido tuttavia in assenza di errori del governo di Roma che aggravino la situazione ed in assenza di manifestazioni di ostilità verso l’India da parte dell’opinione pubblica italiana (o di una sua parte rilevante) che potrebbero risvegliare i sentimenti nazionalistici nel subcontinente.

 

3) E’ giustificabile nell’intera vicenda l’assenza – o se si è mostrato lo ha fatto in maniera molto defilata – del ministro degli Esteri Italiano Terzi di Sant’Agata (solamente De Mistura è comparso a più riprese) come quella dello stesso capo del governo italiano Mario Monti? Le dimissioni non sono state un atto dovuto?

Il ministro degli esteri Terzi, ed in generale il personale direttivo della Farnesina, hanno sbagliato nel non dare subito le indicazioni giuste al comandante della nave dove si trovavano i marò, nel senso di avvertirli di non attraccare nel porto indiano. A questo proposito occorrerebbe rilevare se una indicazione in tal senso è stata tempestivamente fornita dalla nostra ambasciata di Nuova Delhi. Si tratta tuttavia di congetture e solo una seria indagine potrebbe stabilire eventuali responsabilità della Farnesina o della nostra diplomazia. Il ministro Terzi ha, invece, indubbiamente sbagliato quando ha avallato la truffaldina farsa del mancato ritorno dei nostri militari in India , dopo che erano state fornite precise garanzie alle autorità indiane sul fatto che il rientro in Italia dei marò era solo temporaneo. Per quel che riguarda un eventuale missione di Terzi nel subcontinente non credo che avrebbe mutato di molto la situazione in assenza di proposte e minacce  credibili , che come ho detto dovevano essere appoggiate dai nostri alleati, che potessero  fare cambiare  l’indirizzo del governo indiano. A tale proposito la responsabilità è stata probabilmente anche del Presidente del Consiglio, Monti, che sarebbe dovuto intervenire personalmente presso le altre capitali europee e Washington. Le dimissioni di Terzi mi sembra, comunque, che siano state un atto dovuto in relazione alla messinscena del mancato ritorno dei marò.

 

4) Soltanto per fare una congettura, in che maniera si sarebbe comportato, in una situazione analoga, il governo di un altro Paese? 

Occorre considerare, anzitutto, di quale Paese si tratta. Credo comunque che neanche nel caso in cui si fosse trattato di una potenza di un certo rilievo avrebbe ottenuto molto di piu’ di quanto ha ottenuto l’Italia. Il nazionalismo indiano avrebbe impedito al governo centrale  di fare concessioni eccessive anche ad un altro Paese. Né è seriamente pensabile, data la potenza militare dell’India cui ho prima accennato, un’azione militare per risolvere una crisi del genere. Neanche gli Stati Uniti avrebbero potuto pensare ad usare la forza in una situazione simile a quella determinatasi nel caso dei marò italiani (si ricordi, in proposito quello che accadde quando nel 1980, subito dopo la rivoluzione islamica in Iran, gruppi estremisti sequestrarono ostaggi americani nella loro ambasciata di Teheran: il tentativo degli americani di effettuare un blitz per liberarli fu facilmente sventato. E si consideri che l’India ha forze armate più tecnologicamente avanzate di quelle dell’Iran postrivoluzionario). Il governo di un’altra potenza di rilievo avrebbe, quindi, probabilmente agito sul piano dei rapporti internazionali, cercando di coinvolgere gli alleati per fare pressioni su Nuova Delhi. A tal fine la minaccia di contromisure di carattere politico (per quanto riguarda, ad esempio la richiesta dell’India di entrare a fare parte del Consiglio di sicurezza dell’ONU) o economiche avrebbe potuto ottenere risultati positivi, anche se, probabilmente, non nel breve periodo. La differenza fondamentale tra l’Italia e le altre potenze medio-grandi sta nel fatto che noi soffriamo ancora di un  certo “complesso di inferiorità” nei confronti soprattutto degli altri grandi Paesi occidentali, a causa anche della sconfitta nella seconda guerra mondiale. Questo discorso, che è evidenziato  anche dal comportamento sbagliato che i vari governi negli ultimi anni stanno tenendo verso gli altri Paesi nel fronteggiare la crisi economica, ci porterebbe tuttavia lontano. Si consideri, comunque, che il comportamento sbagliato  dei governi verso i nostri “alleati” è condiviso da quasi tutta la classe dirigente italiana (politica e non) e da gran parte dell’opinione pubblica. I massimi dirigenti dei Paesi nostri “alleati” sanno benissimo che Roma non andrebbe fino in fondo nel fare valere i suoi diritti, ventilando ad esempio chiusure di basi militari straniere nella penisola o la messa in discussione della nostra partecipazione a da determinati organismi internazionali (ad es. Unione Europea o Nato). Ed in questo sta la differenza di comportamento, che in una crisi del tipo di quella di cui stiamo parlando, avrebbe avuto il governo di un altro Paese “ importante”: avrebbe cioè preteso l’intervento su vari piani (politico economico ecc.) degli alleati nella crisi, chiedendo magari di investire con forza l’ONU della questione. Probabilmente, comunque, il governo di un’altra “potenza” di rilievo avrebbe potuto commettere un altro genere di errori, quale quello di pensare di risolvere la questione con la “forza”, cosa che, data la potenza economica, militare ecc. dell’India attuale, avrebbe portato ad una catastrofe.  Quest’ultima ipotesi tuttavia credo che oggi sarebbe stata adottata con difficoltà da chiunque (per questo motivo occorrerebbe valutare anche a quale altro “Paese” ci si riferisce). Quello che appare piu’ probabile è che un’altra “ potenza” muovendosi diversamente nello scacchiere internazionale, nel senso prima accennato, avrebbe aumentato la “pressione” su Nuova Delhi, inducendola, probabilmente, a fare maggiori concessioni.

 

* Vincenzo Mungo, della redazione Esteri di Raiuno, è autore del libro La sfida dell’India, Edizioni all’insegna del Veltro, parma 2010.

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IL PRESIDENTE CINESE XI: CINA E AFRICA CONDIVIDONO LO STESSO DESTINO

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Il presidente cinese Xi Jinping ha detto ai capi di Stato e di governo africani che Cina e Africa condividono lo stesso comune destino, e ha solennemente promesso di mantenere relazioni amichevoli con il continente, indipendentemente dai mutamenti degli eventi internazionali.

Xi ha fatto queste affermazioni durante una colazione di lavoro con un gruppo di leader africani che partecipavano al Forum del Dialogo tra i presidenti dei BRICS e dell’Africa a Burba, in Sud Africa, mercoledì [27 marzo].

Come riporta l’agenzia di stampa Xinhua, Xi ha detto che la Cina sarà sempre un amico affidabile e un autentico alleato dei Paesi africani, e che contribuirà ancora di più a promuovere pace e sviluppo nel continente.

Il presidente ha spiegatoche la Cina, tra le altre cose, parteciperà attivamente nella mediazione e risoluzione delle questioni più urgenti dell’Africa, e incoraggerà le imprese cinesi a espandere i loro investimenti in Africa.

I capi africani hanno detto che gli investimenti e gli aiuti della Cina hanno sostenuto lo sviluppo economico e sociale del continente. Hanno anche detto che i fatti hanno dimostrato che la Cina è un amico e un alleato affidabile per l’Africa, e che le accuse secondo cui la Cina starebbe perseguendo una politica di “neocolonialismo” nel continente sono prive di fondamento.

Xi ha poi visitato la Repubblica del Congo, ultima tappa del viaggio. È stata la prima volta che un presidente cinese ha visitato il Paese.

La Cina è il secondo interlocutore per volume d’affari dello Stato africano, da cui importa principalmente greggio e legname.

Xu Weizhong, ricercatore sull’Africa all’Istituto Cinese di Relazioni Internazionali Contemporanee, ha detto al Global Times che le tre tappe della visita del presidente in Africa (e cioè Tanzania, Sud Africa e Repubblica del Congo) riflettono una politica estera equilibrata, che attribuisce eguale importanza a Paesi tradizionalmente amici e a forze emergenti.

Il mercoledì i capi dei BRICS hanno riaffermato il loro sostegno per lo sviluppo di infrastrutture sostenibili in Africa. Xi ha detto che i Paesi emergenti dovrebbero partecipare congiuntamente alla costruzione di più ampi progetti multinazionali in Africa.

Stando a una dichiarazione rilasciata dopo il vertice dei BRICS, banche di import-export e banche per lo sviluppo di Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa avrebbero siglato un ”Accordo multilaterale su cofinanziamento di infrastrutture per l’Africa”.

Secondo Xu, ognuno dei cinque paesi è attivamente impegnato nell’edificazione di infrastrutture nel continente ma il nuovo accordo dovrebbe incidere le loro forze congiunte nello sviluppo.

Xu ha fatto osservare che le infrastrutture transnazionali e trans-regionali, necessarie ai Paesi africani nella promozione della connettività, costituiscono un’impresa troppo grande per essere sviluppata da un solo Paese, anche per la Cina.

Stando alle dichiarazioni, le cinque potenze emergenti hanno stabilito di istituire una banca per lo sviluppo, sostenendo che “il contributo iniziale alla banca dovrebbe essere sostanzioso e sufficiente per essere efficace nel finanziamento delle infrastrutture”. L’annuncio delude però le aspettative.

Li Xiangyang, direttore dell’Istituto degli Studi Asiatici – Pacifici dell’Accademia Cinese di Scienze Sociali, ha detto che i problemi riguardanti la struttura organizzativa della banca potrebbero ostacolare il progresso.

Oltre a un fondo di 100 miliardi di dollari creato dai BRICS, la banca potrebbe fornire prestiti ad altre economie emergenti e questo implicherebbe una struttura più rigida e complicata, afferma Li.

Fan Yongming, direttore del Centro Studi BRICS all’Univeristà di Fudan, ha invece dichiarato che, oltre a questi risultati tangibili, il vertice ha inoltre dimostrato l’influenza politica nel mondo di questi Paesi emergenti e ha rafforzato la fiducia del mondo nel gruppo, nonostante lo scetticismo dell’Occidente nei confronti del loro slancio degli ultimi anni.

Alcune voci hanno espresso pessimismo circa questa sinergia di forze, vista la diffidenza reciproca di alcuni membri del gruppo.

Secondo Fan, invece, le dispute tra di loro non ostacoleranno la cooperazione, perché tutti loro hanno bisogno di una piattaforma comune da cui partire per sostenere congiuntamente riforme all’ordine internazionale e che, nel processo, potrebbero venire a capo delle idiosincrasie.

“Prendete la Cina e l’India, ad esempio: durante la loro cooperazione entrambe saprebbero di lavorare assieme per raggiungere lo scopo di unire Paesi in via di sviluppo piuttosto che competere per la guida di questo sviluppo”, ha dichiarato Fan.

 

Autore: Yang Jingjie

 

Tratto da: http://www.globaltimes.cn/content/771567.shtml#.UWbUVXCJZgH

 

Traduzione di Francesco Viaro

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XI JINPING: “LAVORARE INSIEME VERSO UN FUTURO MIGLIORE PER L’ASIA E PER IL MONDO”

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Discorso d’apertura di Xi Jinping, Presidente della Repubblica Popolare di Cina,  alla conferenza annuale del Forum di Boao per l’Asia 2013 

Traduzione a cura dell’agenzia Xinhua

 

 

 

Boao, Hainan, 7 Aprile 2013

Vostre eccellenze capi di stato e governatori, Presidenti di parlamento, Capi di organizzazioni internazionali, Ministri, Membri della commissione della direzione del Forum di Boao per l’ Asia, illustri ospiti, Signore e Signori, Cari Amici, In questa mite stagione dal cielo limpido e dal clima temperato, dalla brezza profumata di cocco, sono molto felice di incontrare tutti quanti voi in occasione della conferenza annuale del Forum di Boao per l’ Asia 2013, in questa pittoresca isola abbracciata dal mare che e’ Hainan.

Lasciatemi iniziare porgendo, per conto del governo cinese e del popolo nonché in mio stesso nome, un sincero benvenuto a tutti voi e vive congratulazioni per l’apertura della conferenza annuale del Forum di Boao.
Nei passati dodici anni sin dalla sua nascita, il Forum di Boao per l’Asia e’ divenuto un importante forum con una crescente influenza globale. Nella cultura cinese, dodici anni formano un ciclo zodiacale. In questo senso, il Boao Forum ha raggiunto un nuovo punto di partenza ed io spero che possa raggiungere altezze ancor più elevate.

Il tema della attuale conferenza annuale, chiamata “Asia Seeking Development for All: Restructuring, Responsibility and Cooperation”, e’ di forte rilevanza. Spero vi possa coinvolgere in una discussione approfondita sul sostegno dello sviluppo asiatico e che possiate perciò contribuire attraverso il vostro impegno e la vostra visione, alla pace, alla stabilita’ e alla prosperità in Asia ed in tutto il mondo.

Il mondo sta oggi attraversando profondi e complessi cambiamenti. Le nazione stanno divenendo sempre più interconnesse e interdipendenti. Diversi miliardi di persone, in un gran numero di nazioni in via di sviluppo, stanno accogliendo la modernizzazione. I bisogni del momento, ossia pace, sviluppo, cooperazione e vantaggio reciproco, stanno prendendo slancio.

D’altra parte pero’, il nostro mondo e’ lontano dalla pace.

Lo sviluppo rimane la battaglia più grande; l’economia globale e’ entrata in un periodo di profondo riadattamento e la sua ripresa rimane per ora ancora lontana. Il settore finanziario internazionale deve fronteggiare molti rischi, si stanno sviluppando varie forme di protezionismo, le nazioni stanno ancora affrontando molte difficoltà per stabilizzare la struttura economica, e l’amministrazione globale e’ chiamata a migliorare la stessa. Raggiungere uno sviluppo comune per tutte le nazioni e’ tutt’ora una faticosa battaglia.

L’Asia e’ una delle zone più dinamiche e promettenti del mondo e il suo sviluppo e’ fortemente connesso allo sviluppo degli altri continenti. Le nazioni asiatiche hanno fortemente considerato sentieri di sviluppo adatti alle loro condizioni nazionali e supportato in maniera significativa lo sviluppo globale attraverso il loro proprio sviluppo. Lavorando spalla a spalla con il resto del mondo in tempi di difficoltà per contrastare la crisi finanziaria internazionale, l’Asia e’ apparsa come un’importante locomotiva in grado di guidare la ripresa e la crescita economica mondiale. Negli ultimi anni, l’Asia ha contribuito a più del 50 % della crescita mondiale, infondendo, in tutto il mondo, una necessaria sicurezza.

Inoltre, la collaborazione asiatica con le altre zone del mondo, a livello regionale e sotto regionale possiede grande vitalità e promette grandi prospettive.

Ma quello di cui dovremmo essere accuratamente consapevoli e’ il fatto che l’Asia stia ancora affrontando molte difficoltà e sfide nel supportare il suo personale sviluppo e nel partecipare allo sviluppo di altri paesi.

L’Asia ha bisogno di trasformare e aggiornare il suo modello di sviluppo confrontandosi con i tempi. Sostenere lo sviluppo e’ ancora di fondamentale importanza per l’Asia, perché solo questo e’ la chiave per risolvere le maggiori difficoltà che essa e’ costretta ad affrontare. Dovremmo necessariamente modificare il modello di crescita, adattare la struttura economica, rendere lo sviluppo piu’ efficace economicamente e rendere migliore la vita della nostra gente.

Abbiamo bisogno di operare degli sforzi combinati per risolvere le difficoltà più grandi che impediscono di raggiungere una stabilita’ asiatica. La stabilita’ in Asia sta ora affrontando nuove sfide, come i problemi riguardanti le zone calde che continuano ad emergere, e l’esistenza di consuete e non , minacce per la sicurezza.

Dobbiamo costruire sui successi passati e creare un nuovo progresso, promuovendo la cooperazione in Asia. Esistono diverse iniziative e vari meccanismi per migliorare la cooperazione asiatica e molte idee per supportare questa collaborazione sono state esplorate da diverse parti. Quello che dobbiamo fare e’ aumentare la comprensione reciproca, costruire consenso e arricchire una piu’ profonda collaborazione cosi’ da raggiungere un equilibrio tra gli interessi delle varie parti in questione e la costruzione di un meccanismo che porti benefici a tutti.

Signore e Signori, Cari amici, Il genere umano possiede un’unica terra, che e’ la casa di tutte le nazioni. Lo sviluppo comune, che e’ il fondamento di uno sviluppo sostenibile, e’ a servizio di tutti gli interessi principali e a lungo termine dell’intera popolazione mondiale.

Come membri di uno stesso villaggio globale, dovremmo promuovere un senso di comunità riguardo a un destino condiviso, seguendo i bisogni del momento, mantenendoci sulla giusta direzione, rimanendo insieme nei momenti di difficoltà e promuovendo lo sviluppo asiatico e del resto del mondo fino a raggiungere nuove vette.

Prima di tutto, dovremmo, con coraggio, aprire nuove strade cosi’ da creare un’inesauribile risorsa di potere per il sostegno di uno sviluppo comune. Negli anni, molti paesi e regioni hanno sviluppato una serie di buone abitudini per mantenere la stabilita’ e promuovere la crescita. Dovremmo portare avanti queste abitudini. Ad ogni modo, niente nel mondo rimane costante, e come dicono i cinesi, un uomo saggio cambia col cambiare dei tempi e degli eventi. Dovremmo abbandonare la mentalità ormai superata, rompere con i vecchi limiti che immobilizzano lo sviluppo e liberare tutti i potenziali che lo favoriscano. Dovremmo raddoppiare gli sforzi mirati a modificare il modello di crescita e a stabilizzare la struttura economica, innalzare la qualità dello sviluppo e rendere migliore la vita per le persone. Dovremmo spingere costantemente la riforma del sistema internazionale economico e finanziario, migliorare i meccanismi governativi globali e fornire supporto ad una solida e stabile crescita economica mondiale. L’Asia, con la sua ormai antica capacita’ di adattarsi ai cambiamenti, dovrebbe cavalcare l’onda di questi tempi e produrre cambiamenti in Asia operando un rafforzamento dello sviluppo globale e un beneficio reciproco.

In secondo luogo, dovremmo poi lavorare insieme per sostenere la pace cosi’ come per garantire una sicura salvaguardia che sostenga lo sviluppo comune. La pace e’ l’eterno desiderio della nostra gente. La pace viene notata difficilmente dalle persone, quando ne sono beneficiate, proprio cosi’ come avviene con aria e sole; ma nessuno di noi può vivere senza essa. Senza pace, lo sviluppo e’ fuori questione. Le nazioni, che siano piccole o grandi, forti o deboli, ricche o povere, dovrebbero tutte contribuire con il loro apporto per mantenere e accrescere la pace. Piuttosto che minare l’un l’altra i propri sforzi, le nazioni dovrebbero completarsi reciprocamente e lavorare insieme per il progresso.

La comunità internazionale, dovrebbe sostenere la visione di una sicurezza onnicomprensiva, una sicurezza comune e cooperativa cosi’ da trasformare il nostro villaggio globale in un grande palcoscenico per lo sviluppo comune, piuttosto che in un’arena dove i gladiatori si combattono reciprocamente. Ed a nessuno dovrebbe essere concesso di gettare un paese o persino l’intero mondo nel caos per guadagni individuali. Con la crescente interazione tra le nazioni, e’ inevitabile che si incontrino attriti qui e la. Quello che e’ importante e’ che si risolvano le differenze attraverso il dialogo, la consultazione e attraverso negoziazioni pacifiche nel più vasto interesse di un terreno saldo per le relazioni comuni.

In terzo luogo, dovremmo incoraggiare la cooperazione come un efficace veicolo per accrescere lo sviluppo comune. Come spesso diciamo in Cina, un solo fiore non fa primavera, mentre cento fiori in piena fioritura portano la primavera nel giardino. Tutti gli stati del mondo sono strettamente connessi e condividono interessi convergenti, perciò dovrebbero condividere la loro forze. Mentre persegue i suoi interessi, una nazione dovrebbe promuovere lo sviluppo collettivo di tutti e espandere gli interessi comuni insieme ai propri. Dovremmo promuovere una cooperazione Sud-Sud e un dialogo Nord-Sud, portare avanti un’espansione bilanciata dello sviluppo e delle nazioni sviluppate e consolidare la base per uno stabile e sostenibile terreno per l’economia globale. Dobbiamo lavorare sodo per creare più opportunità di collaborazione, incrementare la cooperazione, e far nascere più dividendi di sviluppo per i nostri popoli e contribuire ancora di piu’ alla crescita mondiale Come quarto punto dovremmo rimanere aperti e comprensivi cosi’ da creare un ampio spazio per uno sviluppo condiviso. L’oceano e’ vasto perché vi sfociano centinaia di fiumi. Dovremmo rispettare i diritti all’indipendenza di una nazione scegliendo il suo sistema sociale e il suo percorso di sviluppo, eliminando sfiducia e dubbi e trasformando le diversità del nostro mondo e le differenze tra le nazioni in una forza dinamica e trainante per lo sviluppo. Dovremmo tenere aperta la mente, attingere dai metodi di sviluppo degli altri continenti, condividere le risorse di miglioramento e promuovere la collaborazione. Durante il primo decennio ed oltre, del nuovo secolo, il commercio all’interno dell’Asia e’ cresciuto da 800 miliardi di dollari americani a 3 trilioni degli stessi, e il commercio asiatico con le altre nazioni e’ cresciuto da 1.5 trilioni di dollari americani a 4.8 trilioni. Questo mostra che la collaborazione in Asia e’ aperta e va di pari passo con la collaborazione asiatica con le altre nazioni, e tutti hanno beneficiato da questa cooperazione. L’Asia dovrebbe accogliere ed incoraggiare i paesi non asiatici a giocare un ruolo costruttivo nell’assicurare stabilita’ e sviluppo del paese. Le nazioni non asiatiche, dal canto loro, dovrebbero rispettare la diversità di questo continente e la sua antica tradizione di cooperazione. Questo farà si che si crei un ambiente dinamico in cui l’Asia e gli altri paesi partecipino ad un processo di rafforzamento reciproco.

Signore e Signori, Cari amici, La Cina e’ un membro importante della famiglia asiatica e della famiglia globale. Lo sviluppo della Cina non può prescindere dal resto dell’Asia e del mondo, e l’Asia e il mondo non possono godere di stabilita’ e prosperità senza la Cina. Lo scorso novembre, durante il Diciottesimo Congresso del Partito Comunista Cinese, e’ stato esposto il progetto di sviluppo del paese per i prossimi anni. I principali obiettivi che abbiamo stabilito sono i seguenti: entro il 2020, il PIL e le entrate pro capite dei residenti in campagna e città dovrà raddoppiare rispetto al 2010, e dovrà essere completato il processo di costruzione di una società del relativo benessere. Entro la meta’ del ventunesimo secolo, la Cina diventerà un paese socialista moderno prospero, forte, democratico, armonioso e avanzato a livello culturale, e verrà realizzato il sogno cinese di grande rinnovamento della nazione. Siamo molto fiduciosi del futuro della nazione. Siamo tuttavia anche consapevoli che la Cina rimane il più grande paese in via di sviluppo al mondo, e che, sulla sua strada verso il progresso, si trova a fronteggiare molte difficoltà e sfide. Dobbiamo impegnarci con abnegazione nei prossimi anni per garantire una vita migliore al nostro popolo. Siamo impegnati in maniera risoluta alla riforma e alla apertura, e ci concentreremo sul cambiamento del modello di crescita, focalizzandoci su una buona gestione dei nostri affari e continuando a promuovere una modernizzazione socialista. Come dice un proverbio cinese, i vicini si augurano il meglio, proprio come fanno gli innamorati l’un l’altro. La Cina continuerà a promuovere l’amicizia e il partenariato, continuerà a consolidare i legami amichevoli e ad approfondire una cooperazione di mutuo vantaggio con gli Stati vicini e continuerà ad assicurare che il proprio sviluppo apporti loro grandi benefici. La Cina promuoverà fortemente lo sviluppo e la prosperità sia in Asia che nel mondo. Sin dall’inizio di questo secolo, il valore complessivo dell’interscambio commerciale fra la Cina e gli Stati vicini e’ passato dai 100 miliardi di dollari a più di 1,3 trilioni di dollari, la Cina e’ diventata il maggiore partner commerciale, il maggiore paese esportatore e una delle maggiori risorse di investimento per gli altri paesi. Gli interessi della Cina non sono mai stati cosi’ strettamente connessi a quelli del resto dell’Asia e del mondo.

In futuro la China manterrà uno slancio alla crescita vigorosa. La propria domanda interna, in particolar modo la domanda legata ai consumi, continuerà a crescere, e gli investimenti outbound cresceranno considerevolmente.

Nei prossimi 5 anni, ci si aspetta che il valore complessivo delle importazioni cinesi raggiunga i 10 trilioni di dollari, che gli investimenti outbound raggiungano i 500 miliardi di dollari, e che il numero dei turisti in uscita superi i 400 milioni. Più la Cina cresce, più si creano opportunità di sviluppo per il resto dell’Asia e del mondo. Siamo convinti nel mantenimento della pace e della stabilita’ in Asia e nel mondo. Il popolo cinese invoca fortemente la pace, ben consapevole delle atroci sofferenze che guerra e turbolenze possono comportare. La Cina continuerà a portare avanti il proprio sviluppo assicurando la pace internazionale e, al tempo stesso, promuovendo la pace attraverso il proprio sviluppo. La Cina continuerà a affrontare in maniera adeguata le differenze e gli attriti con i paesi interessati. Ribadendo fermamente la propria sovranità, sicurezza e integrità territoriale, la Cina continuerà a mantenere la pace, la stabilita’ e un buon rapporto con gli Stati vicini, continuando a giocare un ruolo costruttivo nel risolvere problemi cruciali a livello regionale e globale, esortando al dialogo e lavorando infaticabilmente per risolvere adeguatamente le questioni importanti attraverso il dialogo e la negoziazione. Promuoveremo fortemente la cooperazione regionale in Asia e nel mondo. La Cina aumenterà l’interconnessione con gli Stati vicini, valutando la creazione di una piattaforma finanziaria regionale, portando avanti l’integrazione economica e aumentando la competitività. La Cina continuerà a sostenere e a promuovere la liberalizzazione commerciale e le agevolazioni sugli investimenti, incrementando gli investimenti bilaterali con gli altri Stati e incoraggiando la cooperazione in nuove aree prioritarie. La Cina sostiene fermamente l’apertura dell’Asia e la cooperazione con altre regioni per la promozione del loro sviluppo comune. La Cina e’ impegnata nel restringere il divario Nord-Sud e sostiene gli altri paesi in via di sviluppo nel loro percorso di sviluppo autonomo. Signore e Signori, Cari amici, Promuovere i buoni rapporti con i vicini e’ vecchia tradizione cinese. Migliorare uno sviluppo pacifico e una cooperazione di mutuo vantaggio in Asia e nel mondo e’ come una gara che ha continui punti di partenza e non conosce punti di arrivo. Noi in Cina siamo pronti a stringere la mano agli amici di tutto il mondo, impegnandoci congiuntamente per creare un brillante futuro e per apportare benefici all’Asia e al mondo intero.

Infine, auguro il successo dei lavori del Conferenza Annuale del Boao Forum 2013

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LA CORSA AL QUIRINALE: SCENARI E PROSPETTIVE

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È cominciata ufficialmente la competizione per l’elezione del nuovo Capo dello Stato. Stante la natura parlamentare del nostro sistema di rappresentanza, il presidente della Repubblica è eletto direttamente dai membri delle due Camere del Parlamento riuniti in seduta comune, ai quali si aggiungeranno per l’occasione tre delegati per ogni regione appositamente scelti dal rispettivo Consiglio Regionale, ad eccezione della Valle d’Aosta che ha diritto di inviarne uno solo. Malgrado l’Italia resti una repubblica parlamentare e sia stata strutturata sulla base di una rete di “pesi e contrappesi” costituzionali che distribuissero i poteri dello Stato verso un numero di istituti maggiore rispetto a quanto avviene nei sistemi monarchici costituzionali (Gran Bretagna, Olanda o Spagna) e nei sistemi presidenziali o semipresidenziali (Stati Uniti, Francia o Federazione Russa), negli ultimi anni i poteri del Capo dello Stato hanno assunto una configurazione per certi aspetti inedita.

Ovviamente questi poteri non sono mai stati ufficialmente modificati da alcuna riforma costituzionale sul tema, tuttavia nel settennato di Giorgio Napolitano si è osservato come durante quei momenti critici di fronte ai quali il governo (che resta teoricamente la massima rappresentanza del potere esecutivo in Italia) si è trovato in serissima difficoltà o addirittura nell’impossibilità a procedere in accordo al suo mandato, il presidente della Repubblica ha de facto gestito la situazione, assumendo personalmente l’impegno di rassicurare gli interlocutori stranieri, le strutture internazionali (Fondo Monetario Internazionale, Banca Mondiale e Nazioni Unite) o sovranazionali (Unione Europea e NATO) nelle quali l’Italia è integrata e addirittura quei soggetti non-governativi divenuti giocoforza quasi-vincolanti nel quadro recente dei mercati internazionali (agenzie di rating). Del resto, l’articolo 87 della Costituzione stabilisce in modo evidente i notevoli margini di manovra di cui il presidente dispone, in quanto rappresentante dell’unità nazionale e prima carica dello Stato:

  • Invio di messaggi alle Camere
  • Indizione delle elezioni per la formazione delle nuove Camere
  • Autorizzazione della presentazione alle Camere dei disegni di legge di iniziativa governativa
  • Promulgazione delle leggi ed emanazione dei decreti aventi valore di legge e dei regolamenti
  • Indizione dei referendum popolari
  • Nomina dei funzionari dello Stato nei casi indicati dalla legge
  • Accreditamento e ricevimento dei rappresentanti diplomatici
  • Ratifica dei trattati internazionali previa, quando occorra (ma solo in quel caso, nda), l’autorizzazione delle Camere
  • Comando delle Forze Armate
  • Direzione del Consiglio Supremo di Difesa
  • Dichiarazione dello stato di guerra deliberato dalle Camere
  • Direzione del Consiglio Superiore della Magistratura
  • Concessione della grazia o commutazione delle pene
  • Conferimento delle onorificenze della Repubblica

Sulla carta, dunque, i poteri in materia di politica estera e difensiva non permettono di separare con nettezza e precisione tutti i limiti tra l’azione del governo e il ruolo del presidente. È altrettanto vero, però, che fin’ora nella storia repubblicana, stante l’adesione quasi immediata del nostro Paese alla NATO, l’attività estera aveva per lo più coinvolto i massimi rappresentanti del potere esecutivo, ovvero il Consiglio dei Ministri ed il suo presidente (che nella prassi giornalistica viene spesso indicato con la formula del cosiddetto “primo ministro”, una figura in realtà inesistente nel nostro Paese, dove il capo del governo è al contrario un primus inter pares con poteri più limitati rispetto al premier di tradizione anglosassone).

Negli ultimi due anni, invece, il Capo dello Stato ha esercitato un ruolo molto meno passivo in relazione ai temi dirimenti della politica internazionale e dell’economia mondiale. Durante l’esplosione della cosiddetta “primavera araba” e in particolare dopo l’avvio della guerra civile in Libia, il cosiddetto potere di esternazione del presidente ha costituito una fonte di valutazione dal fortissimo impatto, addirittura capace di sorpassare il parere del governo Berlusconi, rimasto in attesa di fronte al susseguirsi degli eventi per osservare con meno emotività l’evoluzione del quadro politico nel Paese maghrebino. Un crescendo di tensioni ed un consequenziale intervento militare esterno da parte della NATO avrebbero infatti compromesso il ruolo dell’Italia in Libia e vanificato il frutto di anni di elaborata diplomazia e di cooperazione economica tra le più importanti aziende strategiche semistatali del nostro Paese (ENI, ENEL e Finmeccanica) e la controparte libica. Tuttavia, Napolitano tuonò: “Non possiamo restare indifferenti alle repressioni”.

Purtroppo la sua intuizione, appoggiata da tutta la sinistra istituzionale (con il Partito Democratico, l’Italia dei Valori e SeL in prima linea), si rivelò fondamentalmente errata, dal momento che i fatti avrebbero poco più tardi evidenziato le pericolose connivenze tra i “ribelli” libici e la rete terroristica di al-Qaeda, costata la vita persino al diplomatico nordamericano Chris Stevens, analogamente a quanto sta avvenendo in Siria, dove i salafiti del fronte di al-Nusra hanno ormai egemonizzato il cosiddetto Esercito Libero Siriano. In quella fase concitata, durante un comizio del suo partito, Nichi Vendola ringraziò ufficialmente il presidente Giorgio Napolitano per “aver raccontato un’altra Italia, amica del popolo libico e nemica di Gheddafi”.

L’abbaglio ideologico della “primavera araba”, il coinvolgimento in un’aggressione militare non autorizzata (la risoluzione n. 1973 dell’ONU si era limitata semplicemente a stabilire una zona di non-sorvolo sulla Libia) e le gravi ripercussioni per l’economia italiana non hanno però messo in discussione la solida alleanza tra Washington e Roma, tanto che Napolitano ha per ben tre volte fatto visita negli Stati Uniti dal 2012 ad oggi. Nell’ultimo incontro avuto con Obama alla Casa Bianca il 15 febbraio scorso, il Capo dello Stato ha discusso delle imminenti elezioni politiche italiane, ha ricordato all’interlocutore statunitense i “meriti” del percorso di “risanamento finanziario” condotto dal governo tecnico guidato da Mario Monti, rispetto al quale il presidente statunitense si è augurato una continuità anche dopo il voto del 24-25 febbraio, nel segno di una più ampia integrazione del Continente Europeo all’interno di una prospettiva che preveda la definizione di un accordo di libero scambio con gli Stati Uniti. Napolitano ha concluso emblematicamente, affermando: «Ho avuto la prova che questo presidente non è affatto interessato solo all’area del Pacifico».

Insomma, Napolitano non soltanto è andato ben al di là del semplice protocollo formale imposto dalla diplomazia ma ha anche svolto un ruolo-chiave nella determinazione delle scelte più recenti del nostro Paese in campo internazionale. Già nel settembre 2008 aveva ricordato che dinnanzi allo scetticismo verso l’integrazione europea era necessario rispondere con un maggior attivismo in politica estera, lodando la comunione d’intenti espressa dal Consiglio Europeo in relazione alla crisi russo-georgiana dei mesi precedenti. Secondo alcuni osservatori, quella per la politica estera è una predilezione personale che l’ex migliorista coltiva sin dai tempi della militanza nel PCI. In passato Henry Kissinger definì Napolitano con l’esemplificativa formula del “mio comunista preferito”, in riferimento ai vari viaggi che dal 1978 in poi l’attuale Capo dello Stato effettuò negli Stati Uniti in qualità di “ambasciatore” del nuovo PCI post-togliattiano, allontanatosi da Mosca e riposizionato da Berlinguer lungo un percorso di adeguamento allo status quo e di sostanziale adesione al campo atlantico.

Insomma, la passione personale di Giorgio Napolitano per i temi internazionali è senz’altro un elemento che ha giocato un ruolo importante in questo settennato presidenziale. Eppure il presidente potrebbe aver aperto un nuovo corso non scritto della nostra politica nazionale che, nella consuetudine (altra modalità rigorosamente anglosassone), abitui i cittadini a percepire il Quirinale come un’istituzione legittimata a svolgere un ruolo sempre più attivo nella determinazione dell’indirizzo economico e geopolitico del Paese. Non sembra un caso che tra i principali nomi considerati potenzialmente in gara per l’elezione del nuovo presidente siano spuntati quelli di Massimo D’Alema, Emma Bonino, Giuliano Amato e Romano Prodi, quattro esponenti politici profondamente impegnati nel campo della politica internazionale.

Massimo D’Alema è stato a lungo deputato per il PCI, il PDS e i DS. Diventò presidente del Consiglio per poco tempo (fra l’ottobre del 1998 e il dicembre del 1999) ma fece in tempo ad autorizzare la partecipazione italiana alla disastrosa operazione Allied Forces condotta dalla NATO in Serbia nella primavera del 1999. Ha poi ottenuto la direzione del Ministero degli Esteri nel governo Prodi II (tra il maggio 2006 e il gennaio 2008). Fuori dagli incarichi di governo, ha ricoperto funzioni estremamente importanti tra le quali la presidenza, tutt’ora in carica, del COPASIR (Comitato Parlamentare di Controllo sui Servizi Segreti) e l’appartenenza alla Commissione per il Commercio Internazionale, alla Commissione per gli Affari Esteri, alla Sottocommissione per la Sicurezza e la Difesa, alla Delegazione Permanente per le Relazioni con il MERCOSUR (Mercato Comune del Sud America), alla Delegazione per le Relazioni con i Paesi del Maghreb e l’Unione del Maghreb Arabo.

Emma Bonino è la storica dirigente del Partito Radicale Italiano (poi Partito Radicale Transnazionale) e della Lista Bonino-Pannella, diventata (dagli anni Settanta ad oggi) deputata, senatrice ed europarlamentare. La più importante carica istituzionale che abbia mai ricoperto è stata senza dubbio la più recente, cioè la vicepresidenza del Senato al fianco del presidente Renato Schifani durante l’ultima legislatura (2008-2013). Tuttavia, in ambito governativo è stata ministro per il Commercio Internazionale e per le Politiche Europee fra il maggio 2006 e il maggio 2008. Impegnata a lungo negli anni Novanta presso l’Unione Europea, in qualità di Commissario Europeo per gli Aiuti Umanitari e per la Tutela dei Consumatori, e presso l’ONU, in qualità di Alto Commissario per i Rifugiati, Emma Bonino è una delle personalità più attive in politica estera, all’insegna di un convinto atlantismo del quale si è fatta promotrice sin dai tempi della Guerra Fredda attraverso mobilitazioni e campagne di sensibilizzazione in materia di diritti umani e autodeterminazione regionale interferendo negli affari interni della Russia e di altri Paesi asiatici, dove si batte per l’indipendenza della Cecenia, del Xizang (impropriamente chiamato “Tibet” nell’ambito della pubblica opinione), dello Xinjiang (che la Bonino e i suoi sodali ideologicamente definiscono col nome illegale ed improprio di “Uyghuristan” o “Turkestan Orientale”), del cosiddetto “Kurdistan” e numerosi altri contesti.

Giuliano Amato, ex socialista craxiano poi ulivista, è uno dei personaggi più navigati della politica nazionale: presidente del Consiglio per ben due volte (tra il giugno 1992 e l’aprile 1993 e tra l’aprile 2000 e il giugno 2001), ha guidato il Ministero del Tesoro tra il luglio 1987 e il luglio 1989 e tra il maggio 1999 e l’aprile 2000, nonché il Ministero dell’Interno tra il maggio 2006 e il maggio 2008. Ha ricoperto un incarico-lampo, durato appena cinque giorni, come ministro ad interim degli Esteri, allorquando fu chiamato nel giugno 2001 a sostituire Lamberto Dini (da poco nominato vicepresidente del Senato), che aveva guidato la Farnesina durante il mandato del centrosinistra, dal 1996 (insediamento del governo Prodi I) al 2001 (conclusione del governo Amato II). Pesa sul suo primo mandato (1992-1993), la delibera dell’accordo concluso tra il Commissario Europeo alla Concorrenza Karel Van Miert e il ministro degli Esteri Beniamino Andreatta: un accordo che sancì la completa distruzione della potente macchina economica statale dell’IRI (Istituto per la Ricostruzione Industriale), trasformandola in una società per azioni in pochi anni disossata dall’agguerrita concorrenza dei mercati occidentali.

Romano Prodi, ex democristiano, ha ricoperto numerosi ruoli nel campo della politica e dell’economia. È stato presidente del Consiglio per due volte: tra il maggio 1996 e l’ottobre 1998 e tra il maggio 2006 e il maggio 2008. Tuttavia, la sua carriera di alto profilo governativo era cominciata molto prima, ossia nel 1978 quando Giulio Andreotti lo nominò ministro dell’Industria e nel 1982 quando assunse la presidenza dell’IRI sino al 1989, avviando una prima fase di privatizzazione che coinvolse principalmente il gruppo SME, una dismissione alla quale lo stesso governo Craxi si era opposto accusando Prodi di aver proposto a Carlo De Benedetti un prezzo palesemente inferiore al valore reale dell’azienda. Chiamato a svolgere consulenze per la finanziaria statunitense Goldman-Sachs nel 1993, Prodi sembra oggi parzialmente pentito di aver contribuito alla realizzazione di quella che alcuni osservatori hanno definito la reaganomics italiana, tanto da sostenere recentemente che l’ex premier britannica Margaret Thatcher e l’ex presidente degli Stati Uniti Ronald Reagan sarebbero tra i principali responsabili storici della crisi economica mondiale degli ultimi anni. Attualmente è consulente dell’ONU per l’Africa, ruolo nel quale si è trovato spesso ad elogiare le politiche cinesi nel Continente Nero, affermando che nessuno in America e in Europa è legittimato a dare lezioni morali sulle presunte politiche di ingerenza di Pechino. Nel 2006 Vladimir Putin gli offrì la presidenza della società che avrebbe avuto in gestione il gasdotto euro-russo South Stream, rispetto al quale Prodi ha sempre affermato di aver contribuito per gli interessi dell’Italia, ma rifiutò per evitare le possibili accuse mediatiche di “conflitto d’interessi” e “intelligenza con lo straniero”, accuse dalle quali non è riuscito a sfuggire, invece, per quanto riguarda i suoi rapporti con la Cina, dove insegna presso la China Europe International Business School di Shanghai, e che il giornalista italiano Franco Bechis gli ha recentemente rivolto dalle colonne di “Libero”, innescando un’aspra polemica per ora conclusasi con una querela per diffamazione.

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UNO STATO FALLITO NEL CORTILE DI CASA: LA PARABOLA HAITIANA E IL DESTINO DI HISPANIOLA

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Storia di schiavitù e dipendenza

L’isola di Hispaniola è la più leggendaria delle isole caraibiche. Fu la prima sulla quale Cristoforo Colombo sbarcò con la Santa Maria e nel corso dell’epoca moderna  è stata lo snodo principale di tante storie che hanno visto l’arcipelago delle Antille protagonista: come ad esempio la parabola dei bucanieri che della Tortuga (isoletta a nord-ovest) avevano fatto nel XVII secolo la loro sede; o le prime rivolte degli schiavi neri deportati dall’Africa nel Nuovo Continente, che cavalcando l’onda del mito della Rivoluzione Francese si erano ribellati contro la madre patria per raggiungere l’indipendenza nel 1802 (la seconda del continente dopo quella statunitense).

La divisione statuale, come oggi la conosciamo, è avvenuta nel 1844 quando la Repubblica Dominicana si dichiarò indipendente da Haiti occupando  de facto la parte centrorientale dell’isola,  rivendicando tradizioni diverse da quelle dei vicini di lingua francese. L’occupazione spagnola dell’isola è precedente infatti a quella francese (il re di Francia ne reclamò sovranità parziale solo nel 1665) ma venne divisa per ragioni demografiche. Gli spagnoli nel XVII secolo si spostarono gradualmente a est spopolando l’estremo ovest infestato dai pirati e lasciando campo alla colonie francesi. Seppur divisi nella lingua, i due popoli sono certamente accumunati dalla totale influenza politica e militare che gli Usa iniziarono ad esercitare dal XX secolo con occupazioni dell’isola volte a pacificare sollevazioni di piazza violente e a garantire i commerci. L’imposizione di governatori amici e collaborativi da parte degli Usa diede nel corso dell’ultimo secolo, sia ad Haiti che alla Repubblica Dominicana, importanti dittatori. Ad Haiti Duvalier padre e figlio dominarono incessantemente dal 1957 al 1986. Nella Repubblica Dominicana il regime di Rafael Leónidas Trujillo durò dal 1930 al 1961. La transizione democratica ha condotto i due paesi però in direzioni differenti: la Repubblica Dominicana ha trovato una stabilità politica e quindi economica già da Joacquin Balaguer eletto nel 1966, mentre ad Haiti il processo democratico è incompiuto vista l’impossibilità di transizioni pacifiche al potere, tanto che Jean-Bertrand Aristide è stato deposto due volte con un colpo di stato tra il 1991 e il 2004. Proprio l’incertezza governativa haitiana connessa alla possibilità di destabilizzazione della regione ha portato gli Usa e l’Onu ad intervenire direttamente nel 2005. Il terribile terremoto del 2010 e l’epidemia di colera conseguente ha azzerato la pur precaria  sicurezza e stabilità che Haiti era riuscita a garantirsi con le successioni pacifiche alla guida del  governo di Renè Preval e attualmente di Michelle Martelly. Ad oggi il dramma continuo confermato dei senta tetto, degli ammalati, dagli affamati e dalla criminalità palesa l’impossibilità per il territorio haitiano di uscire dall’abbraccio di una economia – e quindi di uno stato sociale – retta da aiuti esterni che impediscono sviluppo e sostanziale indipendenza con possibili ricadute anche per il vicino dominicano.

 

 

Uno Stato fallito

Il Failed States Index (1) pone Haiti al 7° posto – subito dopo l’Afghanistan – nel novero degli stati più insicuri e instabili del globo preceduto solo da Somalia, Congo, Sudan, Sud Sudan, Ciad e Zimbabwe. Per i redattori dell’indice le problematiche destabilizzanti maggiori sono il massiccio intervento esterno (Onu e ong), la crescente pressione demografica, il deterioramento dei servizi pubblici e, infine, il declino economico unito ad una mancata legittimazione del potere sovrano. Requisiti che espongono la società ad una lunga fase di violenza acuta ormai consolidata tant’è che il Global Peace Index (2) assegna ad Haiti i punteggi più alti per il tasso di omicidi (livelli simili solo in Africa Centrale e in America Latina) e per le dimostrazioni e il crimine violento che mettono a repentaglio la pace e l’assetto istituzionale.

Che la popolazione sia poi condannata ad uno stato di miseria duraturo non è solo confermato dal Pil pro capite (nemmeno due dollari al giorno) ma anche dall’Indice di Sviluppo Umano (3) che piazza Haiti all’ultimo posto delle Americhe. Le parole del presidente Martelly sui problemi cronici del paese acclarano senza dubbi l’impossibilità per Haiti di dirsi Stato sovrano e garante delle libertà fondamentali personali e collettive: “Le emergenze sono istruzione, occupazione, ambiente, energia e stato di diritto”(4) L’ultima (stato di diritto) è comprovata dalle rilevazioni degli indici, la prima  – l’istruzione – è una piaga non indifferente visto che l’alfabetizzazione riguarda appena il 52,9% della popolazione con una relativa ricaduta sull’occupazione (circa il 40% di forza lavoro non utilizzata) che non trova l’equilibrio del suo vicino dominicano per un differente mix della composizione del Pil. Haiti soffre di una sproporzione nella offerta dei servizi (oltre il 50% del Pil) rispetto all’industria (19%) tenuto conto che l’agricoltura, che pesa sul 25% del Prodotto, è solo di sussistenza. La mancanza di lavoro e i drammatici risvolti del terremoto hanno spinto circa un milione di haitiani a passare la porosa frontiera con la Repubblica Dominicana in questi tre anni. L’assorbimento della migrazione è stato reso possibile grazie ad un maggiore sviluppo industriale del Paese legato all’efficienza dei servizi (i due settori impiegano l’85% della forza lavoro occupata) e ad una differenza disposizione demografica. Rispetto ad Haiti, caratterizzata da una urbanizzazione selvaggia che ha portato 3 dei suoi 10 milioni di abitanti a vivere a Port-au-Prince e in generale sulla costa, la Repubblica Dominicana gode di una distribuzione della popolazione più omogenea che occupa e sviluppa il retroterra (5).

 

 

La partita a tre (o a quattro)

Il problema più gravoso dell’economia haitiana è però quello energetico. È l’approvvigionamento di carburanti che le impediscono uno sviluppo autonomo della propria industria e la totale dipendenza da uno Stato in particolare, il Venezuela. Se si comparano ancora una volta le importazioni di energia tra i due Paesi, si vedrà che entrambi gli Stati di Hispaniola godono delle agevolazioni della Petrocaribe: l’alleanza petrolifera che permette agli Stati caraibici l’acquisto  – con pagamento dilazionato – di carburante ad un interesse dell’1%. Entrambi sono ovviamente importatori netti di idrocarburi; ma mentre la Repubblica Dominicana riesce a variare il suo mix energetico con il gas, Haiti produce la sua energia solo ed esclusivamente grazie al “favore” venezuelano  di 14 mila barili al giorno di petrolio già raffinato (6). Come è noto Petrocaribe è il braccio energetico dell’organizzazione regionale Alba volta a diffondere il verbo bolivariano sui Caraibi attraverso un’influenza politica supportata dal greggio. Questo piano per il momento non vede grandi risultati dal punto di vista strategico poiché nella sostanza il Venezuela “regala” petrolio ai due Stati per produrre merci e servizi che poi vengono venduti per la maggior parte agli Stati Uniti (loro principale mercato) impedendo a pieno una cooperazione economica che però il Venezuela sta implementando attraverso le  infrastrutture: ad Haiti Petrocaribe sta costruendo una centrale elettrica e una raffineria mentre sul piano alimentare sta partecipando al miglioramento della produzione di zucchero nella Valle di Artibonite.

Haiti d’altronde non può fare a meno di sussidi e agevolazioni: basta guardare ai circa due miliardi e mezzo di dollari arrivati dopo il terremoto sotto forma di donazioni da parte di altri Stati, che però gestiscono il finanziamento senza demandare alle autorità locali.

Il controllo esterno sulla ricostruzione del paese si aggiunge al “sussidio” politico che l’Onu sta prestando ad Haiti – ormai dal 2004 – con l’azione di peacekeeping denominata United Nations Stabilization Mission in Haiti (Minustah) a supporto della democrazia messa in pericolo dal colpo di stato contro Aristide. La missione conta migliaia di cooperanti provenienti da oltre 40 paesi e la guida della missione è stata affidata al Brasile con il tenente generale Edson Leal Pujol. Haiti è dunque un banco di prova importante per un paese che vuole affermarsi come egemone nel continente e dunque gendarme dell’America Latina. Ad oggi i risultati però latitano a causa di una persistente alta percentuale di criminalità diffusa e l’incapacità dello Stato di garantire una polizia efficace aggravatasi dopo lo chock del terremoto che ha azzerato il paese. Il piccolo scacchiere dei Caraibi vede dunque il confronto tra tre potenze: il Venezuela desideroso di imporre un’egemonia ideologica a forza di petrolio; il Brasile che testa le proprie capacità di potenza regionale e di arbitro continentale;  e gli Stati Uniti che detengono ancora un’influenza economica e culturale preponderante lungi dal voler affievolire. All’orizzonte però si fa sempre più ingombrante la presenza di un’altra potenza emergente, molto più preoccupante per gli Stati Uniti che non per Venezuela e Brasile: la Cina è infatti intenzionata ad occupare più spazio possibile nel “cortile di casa” statunitense. Gli investimenti miliardari che le banche cinesi stanno indirizzando nei Caraibi sono seguiti da una buona percentuale di importazioni: sia nella Repubblica Dominicana che ad Haiti i cinesi sono ormai il quarto partner. I prestiti per lo sviluppo infrastrutturale sociale di tutte le Antille e l’occupazione di una fetta di mercato caraibico sono strategici all’insediamento economico della Cina proprio nella zona di massima influenza regionale statunitense.

Haiti da questo punto di vista potrebbe giocare un ruolo di primo piano nel prossimo futuro. Vista l’endemica povertà del paese, aggravata dai disastri naturali – e l’incapacità da parte di tutti gli attori più importanti del continente di impedire il paragone di parte dell’isola con i più sventurati stati africani –  la soluzione potrebbe arrivare da Pechino, la cui politica estera è nota: stanziarsi nei paesi divenendo un interlocutore privilegiato data la sua capacità di portare finanziamenti.

Le mire di questi paesi su Haiti, e in generale su Hispaniola, non sono destinate comunque ad esaurirsi al livello del confronto politico. Proprio il petrolio potrebbe essere l’obbiettivo primario di queste potenze e di conseguenza la possibile salvezza dell’isola. Pare che nel Mar dei Caraibi di esclusività haitiana ci siano riserve per quasi un miliardo di barili.  Petrolio che sarà ambito dalla sete energetica della Cina, dalle compagnie petrolifere nazionali venezuelana e brasiliana (PSVDA e Petrobas), e dalle multinazionali statunitensi del settore. Una partita che del resto già è iniziata: chi giocando la carta dell’assistenzialismo energetico, chi della missione umanitaria di pace, chi del supporto commerciale.

Nonostante il fallimento del suo vicino prossimo (Haiti), la Repubblica Dominicana riesce a crescere a buoni ritmi. La flessione che si è però registrata proprio a partire dal 2011 – anno successivo al terremoto – ha nelle concause proprio la difficoltà del commercio comune con la parte ovest di Hispaniola che rappresenta il secondo mercato per Santo Domingo. L’impossibilità di migliorare l’interscambio con Haiti è solo una delle problematiche disgreganti dell’intera isola. L’alta capacità di influenza negativa di Haiti potrebbe nel medio periodo intaccare la modesta economia dominicana messa già a dura prova dai flussi migratori e di certo impedirne una sviluppo esente da chock. Un’isola così grande e già in parte destabilizzata andrebbe così a sommarsi a Cuba trai i problemi politici endemici degli Stati Uniti.

 

 

 

*Salvatore Rizzi, dottore in Scienza della Politica

 

1) L’Indice degli Stati Falliti è stilato dall’organizzazione di Fund For Peace e pubblicato sulla rivista Foreign Policy. Il giudizio si basa sulla somma di una serie di indicatori politici, economici e sociali: http://ffp.statesindex.org/rankings-2012-sortable

2) L’indice in questione cerca di classificare gli Stati in base alla propria capacità di essere pacifico e privo di tensioni. È stato ideato da un imprenditore australiano, Steve Killelea, e unisce i dati statistici di vari enti ed istituzioni di tutto il mondo. http://www.visionofhumanity.org/gpi-data/

3) Indicatore Onu basato su Pil, alfabetizzazione e speranza di vita:  riguardo quest’ultimo parametro Haiti Spicca si pone nel novero dei paesi terzomondisti con 62,4 anni.       http://hdrstats.undp.org/en/countries/profiles/HTI.html

4) http://www.ilsole24ore.com/art/impresa-e-territori/2013-03-14/haiti-tanti-aiuti-pochi-103421.shtml?uuid=Ab0IIxdH

5) I dati economici dei due paesi sono consultabili su https://www.cia.gov/library/publications/the-world-factbook/

6) http://www.petrocaribe.org/

 

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