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LE RELAZIONI ESTERE DELLA COREA POPOLARE

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Nel trattare la recente crisi coreana, le fonti occidentali sottolineano costantemente che la Corea Popolare è un paese completamente isolato dalla cosiddetta “comunità internazionale”. Sembrerebbe inutile sottolineare che nella concezione occidentale la “comunità internazionale” è solamente la somma delle nazioni che seguono i dettami atlantisti, salvo qualche sporadica apparizione di altre realtà nazionali che, vuoi per convenienza, vuoi per particolari circostanze storico-politiche, aderiscono alle posizioni occidentali. È quindi evidente che tale concezione occidentalocentrica è parziale e partigiana e mira a presentare i paesi che non si allineano come estranei al resto della “civiltà mondiale”.

Ma basta dare una semplice occhiata all’archivio della Korean Central News Agency per rendersi conto come la RPDC mantenga stabili e costanti rapporti diplomatici, politici e economici con numerose nazioni. Naturalmente i rapporti bilaterali sono di diversa natura: ci sono paesi legati con Pyongyang da alleanze strategiche, da posizioni ideologiche similari, da rapporti di amicizia storici, da comuni interessi tecnologici, da investimenti nelle risorse del paese oppure da semplici rapporti di cortesia. Giungono a Pyongyang anche delegazioni di paesi che hanno rapporti ostili con il governo centrale, composte anche da personalità conosciute, come ad esempio il cestista statunitense Dennis Rodman o il lottatore giapponese Antonio Inoki, che ha recentemente visitato il paese con delegazioni americane e nipponiche, o come la delegazione sudcoreana che hanno reso omaggio alla salma del defunto Kim Jong-Il, con a capo Lee Hee-ho, vedova dell’ex presidente Kim Dae-jung, e Hyun Jung-Eu, vedova Hyun Jung-Eu, due personalità che si spesero per la riunificazione coreana. Esistono anche associazioni e movimenti politici che fanno diretto riferimento a Pyongyang, come il Fronte Democratico per la Riunificazione della Corea, con sede a Seul, l’associazione dei Zainichi Chongryon (Associazione Generale dei Coreani residenti in Giappone), che riunisce i coreani che vivono in Giappone che rimangono fedeli al governo socialista di Kim Jong-Un, o la Korean Friendship Association, con sezioni in numerosi paesi del mondo.

Tutti elementi che dimostrano che la Corea Popolare è tutt’altro che un paese “totalmente isolato”.

Per andare più nello specifico dei rapporti internazionali di Pyoangyang, va Innanzitutto sottolineato che la RPDC appartiene, dal 1976, al Movimento dei Non Allineati, che recentemente ha ripreso vigore, in particolare grazie all’indirizzo critico nei confronti dell’unipolarismo americano impresso dagli iraniani e dal Venezuela (vedi ad esempio l’ultimo summit di Tehran del 26 – 31 agosto 2012, con il prossimo incontro già programmato per il 2015 a Caracas). Nel summit di Tehran, il presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad nell’apertura dei lavori dell’incontro, propose ai partecipanti di esprimere profonde condoglianze per la scomparsa di Kim Jong-Il, deceduto il 17 dicembre precedente. Tutti i delegati dei 120 paesi presenti osservarono un minuto di raccoglimento.

Tralasciando le storiche relazioni con Russia e Cina, su cui già molto si è scritto, il paese che ha una più stretta alleanza con la Corea è la Repubblica Islamica dell’Iran. Fin dai tempi della guerra Iran-Iraq, Pyongyang svolse un ruolo di alleato strategico di Tehran, fornendo il governo degli Ayatollah di armamenti che permisero di fronteggiare l’invasione irachena. Attualmente tra i due paesi sono costanti gli scambi economici e militari e per lo sviluppo tecnologico (ad esempio la tecnologia dei missili balistici iraniani Shahab è basata sul modello del missile nordcoreano No-Dong) e nucleare. Nel 2012, nell’ambito del summit dei Paesi non allineati, i due paesi hanno siglato un accordo di cooperazione scientifica e tecnologica, oltre che numerosi intese di natura economica ed energetica con la “benedizione” dell’Ayatollah Ali Khamenei: «la Repubblica Islamica dell’Iran e la RPD di Corea hanno comuni nemici e in particolare gli Stati Uniti e Israele, con questo accordo entrambi dovrebbero riuscire a resistere alle comuni minacce». Il sostegno iraniano non è venuto meno nemmeno durante questa crisi, come dimostrano le dichiarazioni del generale Massoud Jazaeri, che identificano nelle provocazioni statunitensi la causa dell’aumento delle tensioni nella penisola coreana: «tutta questa crisi dimostra che la politica guerrafondaia nordamericana vuole creare crisi in tutto il mondo, per poter intervenire militarmente e ledere la resistenza dei popoli, in questo caso contro la nazione coreana e i suoi dirigenti».

Alleato di ferro con l’Iran, è la Siria, che intrattiene anche un rapporto prioritario con i coreani, con i quali, già nel 2002 siglarono un accordo simile  quello siglato a Tehran 10 anni dopo. I tecnici di Pyongyang contribuirono alla costruzione di una centrale nucleare in Siria, vicino a Dayr az-Zawr, tanto che quando la centrale fu bombardata dagli israeliani (Operation Orchard del 6 settembre 2007) alcune ricostruzioni riportano tra le vittime anche esperti coreani (circostanza mai confermata da Pyongyang). Nell’attuale tragico periodo di tensione, sia in Siria che nella penisola coreana, i due stati hanno confermato la vicinanza anti-imperialista, anche con dichiarazioni ufficiali di stima tra i due leader.

Dopo aver parlato di Iran e Siria, diventa fondamentale discutere del ruolo del Pakistan, in questo arco di paesi che cercarono un deterrente nucleare per affrontare l’ingerenza statunitense. Già nei primi anni ’90 il governo di Pyongyang con esponenti pakistani, in particolare con quel Abdul Qadeer Khan, considerato “il padre dell’atomica islamica”. Secondo alcuni analisti, nella rete di contatti di Khan si trovava oltre a Iran, Siria e Corea Popolare, anche la Libia di Gheddafi (paese in cui lavoravano molti nord-coreani, rimpatriati con lo scoppio della rivolta antigovernativa), con la compiacenza di Pechino. Il Pakistan aprì le relazioni diplomatiche con Pyongyang nel 1970, con i buoni uffici di Pechino nel periodo di governo di Zulfikar Ali Bhutto. Un accordo di difesa tra Pakistan e Corea fu firmato nel 1990 per volontà di Benazir Bhutto, presidentessa considerata molto vicino all’Iran, che venne uccisa nel 2007 dopo il rientro in patria in un attentato. Attentato che secondo il marito e attuale presidente pakistano, Asif Ali Zardari, è stato commissariato dall’ISI, il servizio segreto pakistano, e dal governo di Musharraf, probabilmente proprio a causa di questi rapporti amichevoli nei confronti di Iran e RPDC.

Un altro paese con il quale la Corea Popolare ha un rapporto privilegiato è la Mongolia, dopo una ventina d’anni in cui le relazioni erano assenti, in seguito alla caduta dell’Unione Sovietica e del passaggio alla democrazia parlamentare ad Ulaanbaatar. In particolare negli anni ’90 i rapporti tra i due paesi divennero tesi, salvo migliorare radicalmente nei primi anni 2000, quando, nel 2002, Paek Nam-Sun, allora ministro degli esteri, visitò Ulaanbaatar. Nel luglio 2007, il Presidente dell’Assemblea Popolare Suprema, Kim Yong-Nam incontrò il presidente mongolo Nambaryn Enkhbayar e firmò importanti accordi in campo sanitario, auspicando una maggiore collaborazione nei settori della scienza e della cultura. Accordi che infastidirono non poco Corea del Sud, Giappone e Stati Uniti che sono interessati allo sfruttamento delle ricchissime miniere mongole. Questi accordi hanno inoltre trovato un seguito e sono moltissimi i rapporti bilaterali mongolo-coreani come ad esempio un interscambio di tecnici, studenti e sportivi. Inoltre nel novembre scorso, sempre su iniziativa mongola, si sono incontrati ad Ulaanbaatar rappresentanti diplomatici di alto livello di Giappone e RPDC per discussioni bilaterali sui rapporti tra i due paesi e sulla questione dello sviluppo del nucleare. Negli ultimi anni è riscontrabile in Mongolia un interessante dinamismo diplomatico multivettoriale con prospettiva multipolare, con il presidente Enkhbayar (esponente della sinistra nazionalista) che, ad esempio, si è posto come garante del nucleare iraniano e che ha revocato le licenze al colosso statunitense Rio Tinto  per l’estrazione in una sezione chiave dell’enorme giacimento di oro e rame Oyu Tolgoj (oro e rame) che, da solo, dovrebbe produrre un terzo del Pil mongolo.

Nell’area del sud-est asiatico i rapporti migliori sono con Cambogia, Laos e Vietnam. Con Phnom Penh la vicinanza risale agli anni ’70, anche grazie all’amicizia personale tra Kim Il-Sung e il Re Norodom Sihanouk. Ora le due nazioni puntano a stabilire un solido legale commerciale e la recente visita di delegati coreani nella capitale cambogiana ha stabilito le linee per potenziare le esportazioni tra i due paesi: Phnom Penh mette sul piatto la produzione alimentare (in particolare di riso, frumento e patate), Pyongyang offre in cambio tecnologia a basso prezzo. Inoltre una ditta coreana sta costruendo un museo altamente tecnologico sulla civiltà Khmer per un valore di circa 10 milioni di dollari nei pressi dello scavo archeologico di Angkor Wat. Con il Vietnam, oltre che la tradizionale vicinanza ideologica tra i due partiti comunisti al potere, sono in corso relazioni proficue per lo sviluppo delle tecniche agricole. Rapporti prevalentemente nel campo militare sono attivati con il Laos. Sono ormai in crisi invece i rapporti con il Myanmar, dopo la liberalizzazione del paese, in particolare dopo la visita di Hilary Clinton a Naypyidaw, nel dicembre 2011, che ordinò un blocco dei rapporti bilaterali tra la Giunta guidata da Than Shwe e il governo di Pyongyang, in particolar modo attivi nel campo dello sviluppo nucleare e dell’interscambio degli armamenti.

Non mancano gli interscambi commerciali con l’India, seppur complicati dal rapporto pakistano-coreano. Solamente nel 2010-2011 lo scambio tra Pyongyang e Nuova Delhi toccava i 572 milioni di dollari.

Legata ad una comune visione ideologica è l’amicizia con Cuba. Nel 2010 l’ambasciatore coreano ha celebrato a L’Avana il cinquantesimo anniversario delle relazioni tra i due paesi (29 agosto 1960) e ha ricordato i vincoli e le posizioni comuni dei due governi. Due anni dopo, il 16 dicembre 2012, l’ambasciatore cubano Germán Ferrás Álvarez e il ministro del commercio estero coreano Ri Ryong-Nam hanno firmato a Pyongyang un protocollo di collaborazione e sviluppo del commercio, della scienza e della tecnologia per il 2013.

Nel continente indiolatinoamericano ottimi rapporti sono intrattenuti anche con la Repubblica Bolivariana del Venezuela, fin dal 1999, anno del primo governo Chávez.

Nell’Africa nera i paesi con i quali i rapporti sono prioritari sono lo Zimbabwe e l’Eritrea, anche se intercorrono rapporti costanti con numerosi altri paesi del continente tra i quali Sud Africa, Nigeria ed Egitto. Nel 1980 il Presidente Kim Il-Sung siglò con la controparte zimbabwese, Robert Mugabe, un accordo per l’interscambio delle conoscenze militari e per l’addestramento delle truppe di Hararae, che tutt’ora è in vigore. Nei confronti dell’Eritrea, i coreani sono, con Pechino, i maggiori fornitori dell’esercito di Asmara e, assieme all’Iran, l’unico paese a non aver rispettato le sanzioni ONU del 2008 contro il governo di Isaias Afewerki. Per quanto riguarda l’Egitto, rapporti miranti allo scambio tecnologico risalgono già agli anni ’80 quando il governo di Hosni Mubarak firmò un accordo per la fornitura di armamenti. In Egitto è anche presente l’ufficio navale commerciale coreano per il Mediterraneo. Recentemente la compagnia egiziana Orascom Telecom ha creato la rete per la telefonia mobile in Corea con la compagnia Koryolink. Ma le relazioni con l’Egitto risalgono già al 1967 quando circa 30 piloti dell’Armata Popolare Coreana parteciparono alla guerra dello Yom Kippur a fianco delle armate egiziane di Gamal Abd Nasser.

Da questa breve (e sicuramente parziale) analisi delle relazioni estere di Pyongyang si evidenzia che il governo socialista non ha pregiudiziali politiche o ideologiche (fermo restando una prospettiva multipolare e, di fatto, antimperialista, definita anche nell’ideologia Juché) nei confronti di nessun possibile alleato, ma cerca supporto e amicizia tra i paesi sovrani, che possano dialogare con Pyongyang su un piano di parità (e non secondo quella la velleità occidentale di guardare gli altri paesi “dall’alto al basso”) ponendo come unica precondizione la rispettiva non ingerenza negli affari interni. Ragionare secondo questa logica dovrebbe rappresentare una pilastro fondamentale di qualsiasi politica estera di qualsiasi paese sovrano.

 

 

 

 

Fonti:

La Repubblica Islamica dell’Iran a fianco della Corea Socialista
 
Minacce nucleari: Mongolia in primo piano nei rapporti diplomatici con la Corea del Nord
 
L’Eritrea e i suoi rapporti con Cina, Iran e Corea del Nord
 
Le relazioni tra la Corea socialista e la Siria di Assad
 
North Korea Leadership Watch
 
 

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GLI STATI UNITI SOTTO ATTACCO DOPO IL FALLIMENTO DEI COLLOQUI SU UN TRATTATO PER LE TELECOMUNICAZIONI

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Pubblichiamo la traduzione di un articolo apparso sul “Financial Times”, che riporta le parole di un protagonista delle telecomunicazioni in Italia e non solo. Lo scontro in atto fra Europa e Paesi emergenti da un lato e gli Stati Uniti dall’altro mette in luce le frizioni geopolitiche e gli interessi economici e produttivi incompatibili. Per tali motivi nella Conferenza Mondiale sulle Telecomunicazioni internazionali (WCIT12) tenutasi a Dubai, che pur si è conclusa con la revisione del Trattato che regola le telecomunicazioni internazionali (ITRs), si è evidenziata una profonda spaccatura. Da una parte chi ha un vantaggio competitivo e strategico controllando la rete (gli Usa) dall’altra tutti gli altri attori. Questi stessi temi, oltre ad essere di fondamentale importanza di per sé, devono essere letti con attenzione in vista del paventato trattato di libero scambio fra Europa e Usa.

[La redazione]

 

 

 

 

Franco Bernabè, Amministratore Delegato di Telecom Italia e Presidente del GSMA, l’associazione degli operatori di telefonia mobile, ha criticato quella che ha definito “guerra di propaganda”, condotta dagli Stati Uniti, che la settimana scorsa ha provocato il fallimento delle trattative per un’intesa per le telecomunicazioni.

Gli Stati Uniti, congiuntamente al Regno Unito e al Canada, hanno abbandonato i negoziati giovedì notte, sostenendo di essere preoccupati per come un accordo possa permettere alle nazioni di regolamentare la rete e reprimere la libertà di parola.

Bernabè, che in qualità di Presidente del GSMA rappresenta quasi 800 operatori mobili in 220 paesi, ha sostenuto che l’accusa mossa dagli Stati Uniti e dai loro alleati nei confronti di coloro che sono favorevoli al trattato, ritenuti vicini ad alcuni “regimi autoritari”, fosse “ridicola”.

In un’intervista al “Financial Times” ha affermato: “Questa è una guerra di propaganda. L’idea che una cospicua parte dell’industria europea sia stata associata all’Iran e ad altri regimi oppressivi è offensiva. Si tratta di accuse completamente prive di logica e inaccettabili.”

Bernabè, sollecitando le parti a riconsiderare le proprie posizioni, si è unito ai sostenitori dell’accordo nel suggerire che gli Stati Uniti stessero usando il principio di libertà come una copertura per proteggere compagnie quali Google e Facebook dai tentativi per coordinare la regolamentazione.

L’incontro dell’Unione Internazionale delle Telecomunicazioni, tenutosi a Dubai più di due settimane fa, ha cercato di costruire un ponte tra la rete internet e le reti delle telecomunicazioni.

Un proposito iniziale sarebbe stato quello di porre sullo stesso livello di regole tutte le compagnie internet intese come operatori di rete.

Bernabè ha ribadito: “La regolamentazione ha posto le compagnie europee in una posizione svantaggiata nel panorama competitivo. Non ci sarebbero potuti essere un Google o un Facebook europei, perché sarebbe stato molto complesso attenersi alle regole e agli obblighi delle leggi europee sulla riservatezza”.

I fautori di una rete libera, che comprenda Google, temono che le ampie clausole disposte dall’ITU circa la sovranità nazionale e la sicurezza possano essere usate per legittimare la censura, il monitoraggio clandestino e il blocco dei siti informatici.

“Si dovrebbe raggiungere un compromesso.” Bernabè ha continuato: “Abbiamo bisogno di maggiore regolamentazione da parte degli Stati Uniti, e molto meno norme sul fronte europeo. Se ci fosse lo stesso campo di azione non staremmo a discutere.”

“Mentre l’industria di tlc statunitense è stata capace, grazie al contesto normativo, di adattarsi e contenere nuovi concorrenti, l’industria europea è stata schiacciata, frammentata, resa incapace di reagire, inflessibile e costretta da un enorme mole di obblighi legislativi.”

Bernabè stava parlando al “Financial Times” durante il lancio del suo libro, Libertà vigilata, che racchiude le sue opinioni sulla riservatezza nell’era di internet.

Bernabè è in disaccordo con il carico di informazioni personali che passa attraverso organizzazioni statunitensi come Walmart, Google e Facebook.

 

 

Fonte: “Financial Times” 17 dicembre 2012.

 

 

Traduzione Lorena Orio

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INTERVISTA ALL’ON. RICCARDO MIGLIORI

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A cura di Andrea Turi

 

Per prima cosa la ringrazio della sua disponibilità a rispondere alle mie domande. Vorrei cominciare dagli ultimi sviluppi nelle relazioni tra Serbia e Kosovo. Secondo Lei, dopo il fallimento del dialogo a Bruxelles, ritiene che sia possibile che le due parti trovino un accordo nel breve e medio periodo?

Sarà arduo trovare un “accordo quadro” tra Serbia e Kossovo fino a quando Belgrado continuerà a rifiutare il riconoscimento di Pristina e Pristina si rifiuterà di riconoscere la particolarità dell’area aldilà dell’Ibar. Credo più alla politica dei piccoli passi concreti dettati dalla ragionevolezza.

 

 

Ritiene che il piano Ahtisaari, rigettato dalle parti nel momento in cui fu proposto, sia ancora un soluzione valida, praticabile e rappresenti un accettabile compromesso?

Una volta rifiutato, il piano Ahtisaari non ha possibilità di riesumazione sia perché le parti perderebbero la faccia, sia perché questa non è la stagione di “accordi quadro”.

 

 

Le ultime notizie diffuse dalla Radio Internazionale di Serbia parlano di pattugliamenti organizzati dalla popolazione serba sulla strada Priština-Raška, nella località di Rudare, nei pressi di Zvečan, a causa della forte presenza e della circolazione delle speciali unità “ROSU”, che sono sotto il comando delle istituzioni provvisorie kosovare. Si parla anche di nuovi attacchi. Prendo a pretesto le brevi notizie per domandarle se pensa che ci potrebbero essere atti di forza da parte di Pristina per ottenere questa parte del Paese.

Escludo atti di forza da parte di Pristina perché ciò comporterebbe una perdita di credibilità per lo Stato kossovaro e l’ammissione di una sovranità ancora limitata. Non escludo, invece, gli interessi molteplici, legati anche alle prossime elezioni albanesi, tesi in tale direzione e il vigore del dibattito politico interno ove Kurti è meno isolato di quanto si pensi.

 

 

Lei è stato rappresentante dell’OSCE. in base alla sua recente esperienza, quale è la situazione sociale in Kosovo,  soprattutto nel nord della regione? 

Pristina è un cantiere ed in generale c’è ottimismo circa il futuro economico del Paese nonostante le enormi difficoltà riscontrate inizialmente. La regione del Nord, invece, ha maggiori difficoltà sociali perché ha maggiori difficoltà politiche.

 

 

Il mancato raggiungimento di un accordo rappresenta una sconfitta per l’Unione Europea e la sua (presunta) politica estera?

Le sconfitte politiche dell’Europa, ormai, non si contano più. La Signora Ashton, del resto, ha difficoltà ad uniformare la politica estera quando l’UE non ha una unitaria politica di difesa e sicurezza.

 

 

Quale è la sua opinione sull’operato della diplomazia di Bruxelles in qualità di mediatore?

L’atteggiamento di Bruxelles verso Belgrado è sempre molto severo. Tra l’altro risulta inaccettabile un atteggiamento illuminista secondo il quale i Serbi sarebbero sempre costretti ad emendarsi. La storia va avanti.

 

 

Il Primo Ministro serbo Dacic ha dichiarato a metà del mese di Marzo che gli Albanesi del Kosovo non sono ancora pronti ad un accordo perché hanno le spalle coperte dal potere statunitense. Bene, le chiedo: quali sono gli interessi di Washington nella regione?

A Pristina c’è una grande statua di Bill Clinton e le bandiere USA sventolano dappertutto. Il sistema delle comunicazioni è appannaggio della Signora Albright. Mi dicono che si potrebbe continuare nella elencazione.

 

 

In caso ancora l’avesse, qual’è l’importanza del Kosovo sullo scenario internazionale? Quali altri Paesi oltre agli Stati Uniti hanno ancora interesse alle sorti della regione e quali sono questi interessi?

Alla Casa Bianca sostengono (ufficialmente) che le priorità USA oggi non sono i Balcani, ma l’Asia Centrale. Si tratta, comunque, di un impegno in più per l’Europa che ha interesse non solo alla stabilità dei Balcani, ma anche a testimoniare la convivenza tra democrazia e società islamica seppur ampiamente secolarizzata.

 

 

L’Ambasciatore statunitense a Belgrado Michael Kirby ha fatto sapere (8 aprile 2013) che il suo Paese è pronto a partecipare attivamente al dialogo. Pensa che davanti ad un possibile scenario anche la Federazione Russa decida di giocare un ruolo più “pesante” che vada oltre la solidarietà verso il popolo e le istituzioni serbe?

La Serbia nella UE sarà anche un nuovo ponte di dialogo con Mosca per recuperare lo spirito positivo di Pratica di Mare. Un ruolo concreto della Federazione Russa sarebbe auspicabile perché sarebbe “riequilibratore”.

 

 

L’Ambasciatore della Federazione Russa a Belgrado, Aleksandar Cepurin, ha recentemente dichiarato che la Risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite 1244 è un documento ancora valido ed in essere. Concorda con il fatto che il luogo giusto per risolvere la questione possano essere le Nazioni Unite?

Certamente lo è anche se molta acqua sotto i ponti della storia è passata da allora costituendo una situazione “de facto” irreversibile per quanto riguarda la questione della sovranità.

 

 

Come reputa il lavoro dell’amministrazione internazionale in Kosovo dal 1999 e l’applicazione del diritto e della legge nel Paese?

E’ stato fatto moltissimo ma ancora moltissimo resta da fare soprattutto nel settore giudiziario. L’indipendenza della magistratura, che è essenziale nella tripartizione autonoma dei poteri, è necessario quanto urgente obiettivo da raggiungere.

 

           

Quale sarà, quindi, il futuro dei due Paesi? È il cammino europeo, l’opzione europea, la migliore soluzione per entrambi? O, forse, ci sono altre alternative più praticabili, soprattutto per la Serbia?

Il popolo serbo vuole l’ingresso nella UE ed è nostro interesse l’integrazione serba. Con l’avvicinarsi delle elezioni tedesche, la richiesta della Merkel di reintroduzione dei visti per l’area Shengen per i cittadini serbi si è fatta più insistente. Per quanto riguarda la seconda parte della domanda, è una tesi da rigettare con forza anche perché in controtendenza coi negoziati con Bruxelles. Tutt’altra questione concerne la NATO ovviamente.

 

 

Crede che la data di inizio delle negoziazioni per l’ingresso di Belgrado nell’UE verrà fissata nonostante il dialogo con Pristina non abbia portato, per il momento, a niente oppure tale decisione verrà rimandata ad un prossimo futuro? Nel caso in cui la decisione venga rimandata, sarà la questione Kosovo ad essere decisiva o questa sarà un semplice pretesto per chiudere le porte a Belgrado?

Spero ardentemente che non vi siano slittamenti sui tempi né scuse per dire NO a Belgrado. Certo la questione kossovara ha il suo peso, ma se abbiamo preso Cipro senza avere risolto la questione cipriota, possiamo prendere la Serbia senza avere risolto la questione kossovara.

 

 

Ultima domanda: immaginiamo un futuro europeo per Belgrado. Saranno maggiori i benefici che la Serbia ricaverà dall’ingresso nell’UE o quelli dell’Europa con l’approdo di Belgrado nella casa comune europea?

E’ interesse di tutti la stabilità. L’Europa più grande è una Europa più forte e credibile. Come ha dimostrato la storia, una Serbia più europea è interesse della Serbia come di tutti i Paesi che sono diventati membri dell’Unione Europea.

 

 

 

* L’on. Riccardo Migliori Presidente dell’Assemblea Parlamentare dell’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (Osce).

 

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DA KEYNES A FRIEDMAN, E RITORNO. I LIMITI DELL’IDEOLOGIA

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L’entità della crisi economica indotta dall’onda d’urto propagatasi dallo shock del 2007-2008 ha sortito ripercussioni decisamente inaspettate sul piano delle teorie economiche dominanti e, conseguentemente, sulle operazione compiute dai vari Paesi in campo economico. Il successo che in questi anni hanno riscosso economisti “keynesiani” come Paul Krugman, Joseph Stiglitz, ecc. è effettivamente dovuto al fallimento del economia imperniata sul concetto di “laissez-faire”, di cui i padri della “scuola austriaca” (Ludwig Von Mises e Friedrich Von Hayek) e i loro allievi della “scuola di Chicago” (Milton Friedman in primis) sono stati i principali sostenitori. Il disastro economico odierno può essere infatti considerato come il risultato delle misure neoliberali applicate inizialmente in tutti i Paesi industrializzati, e successivamente in quasi tutto il mondo per effetto del processo di globalizzazione irradiato dal pulsar statunitense attraverso le sue potenti propaggini finanziarie (Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale).

Ma l’affermazione delle teorie neoliberali è a sua volta dovuta all’inadeguatezza delle ricette keynesiane manifestatasi in seguito allo shock petrolifero del 1973.

La validità della teoria generale di John Maynard Keynes rimase praticamente indiscussa dagli anni ’40 fino a quel particolare episodio storico per alcuni motivi piuttosto peculiari.

In sostanza, la teoria economica sviluppata da Keynes è incardinata sul concetto di “domanda aggregata”, che risulta dalla somma della domanda di consumi da parte dei cittadini, della domanda di investimenti da parte delle imprese, la domanda del settore statale mediante la spesa pubblica e i tassi di interesse, e la domanda dei mercati internazionali, sostenibile incentivando le esportazioni e quindi correggendo verso il basso i tassi di cambio.

Focalizzando l’attenzione sulla variabile della domanda aggregata e sui suoi componenti, Keynes offrì una base teorica volta a combattere due dei principali problemi che le economie nazionali si sarebbero potute trovare ad affrontare, ovvero la disoccupazione e l’inflazione.

Dal momento che riteneva che la disoccupazione scaturisse da una depressione della domanda aggregata, Keynes suggeriva di intervenire per sostenere questa domanda. Per una nazione sarebbe quindi  stato possibile:

 

A – stimolare i consumi attraverso il taglio delle imposte dirette, in modo da consentire ai cittadini di conservare più soldi da spendere;

B – favorire gli investimenti delle imprese applicando bassi tassi di interessi  così da rendere più abbordabile il costo del denaro;

C – edificare nuove infrastrutture e potenziare quelle esistenti allargando i cordoni della spesa pubblica, coinvolgendo direttamente i cittadini nella costruzione di strade, ponti, ferrovie, ospedali, ecc.;

D – colmare la carenza della domanda interna orientando la produzione verso le esportazioni, da promuovere mediante la svalutazione della moneta locale.

 

D’altro canto, Keynes era convinto che l’inflazione fosse dovuta a un aumento eccessivo ed incontrollato della domanda aggregata cui non corrisponderebbe una offerta adeguata, e indicava pertanto di agire per comprimere la richiesta di beni e servizi. Lo Stato sarebbe quindi stato chiamato ad applicare misure diametralmente opposte a quelle necessarie per fronteggiare la disoccupazione. Avrebbe quindi potuto:

 

A – deprimere i consumi aumentando le imposte dirette;

B – scoraggiare gli investimenti delle imprese applicando alti tassi di interesse;

C – focalizzare l’attenzione sul bilancio adottando politiche di austerità volte a tagliare la spesa pubblica;

D – sostenere la moneta locale in modo da rendere più problematiche le esportazioni.

 

I presupposti che Keynes fissò per escogitare questa brillante teoria non contemplavano, naturalmente, che i fenomeni di disoccupazione e inflazione potessero manifestarsi contemporaneamente, dal momento che la disoccupazione, spingendo verso il basso i prezzi, si manifestava generalmente in periodi deflazionistici. Va sottolineato che nel momento in cui il grande economista britannico ideò le sue teorie gli Stati erano molto “chiusi” verso l’esterno, e riuscivano quasi sempre a rifornirsi dei beni di cui avevano bisogno attingendo alle risorse di cui disponevano all’interno dei confini nazionali o importandoli alle proprie insindacabili condizioni dalle colonie. Ma la decolonizzazione e le sue logiche di base, associata all’aumento costante della domanda di energia determinarono una progressiva apertura dei mercati nazionali, che cominciarono ad interconnettersi tra di loro in maniera sempre più salda.

Così, quando si verificò lo shock del 1973, il “paradosso” keynesiano finì per verificarsi, poiché l’aumento esorbitante del prezzo del petrolio (pari al 400%) circa innescò un brusco aumento dei costi di produzione da parte delle imprese che si videro costrette a scaricare il tutto sul prezzo finale. Le politiche keynesiane adottate per arginare il fenomeno si rivelarono completamente fallimentari, poiché in quel caso l’inflazione non era dovuta a un aumento incontrollato della domanda, ma a una decisione politica assunta dai Paesi membri dell’OPEC in combutta con lo Shah di Persia, nonché con Richard Nixon ed Henry Kissinger.

Il trionfo del neoliberismo nacque proprio sulle ceneri delle ricette keynesiane, il cui fallimento costituì un’occasione da non perdere per i principali esponenti della “scuola di Chicago”. Milton Friedman in persona ebbe a scrivere che: «Soltanto una crisi, reale o percepita che sia, produce vero cambiamento. Quando quella crisi si verifica, le azioni intraprese dipendono dalle idee che circolano. Questa, io credo, è la nostra funzione principale: sviluppare alternative alle politiche esistenti, mantenerle in vita e disponibili finché il politicamente impossibile diventa il politicamente inevitabile».

La celebre giornalista canadese Naomi Klein ha individuato in questa espressione la base su cui è stata costruita la cosiddetta “shock therapy”, ovvero la prassi operativa attraverso cui decine e decine di Paesi sono stati convertiti, sotto la sorveglianza di Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale, all’economia liberista dopo l’“esperimento” attuato dagli esponenti della scuola di Chicago nel Cile di Augusto Pinochet.

Secondo il nuovo paradigma di riferimento, l’attenzione generale non sarebbe più dovuta cadere sul lato della domanda, ma su quello dell’offerta, e l’approccio alla realtà sarebbe dovuto passare dal macroeconomico al microeconomico. Lo Stato si sarebbe pertanto dovuto limitare a mantenere i conti a posto, ad applicare tassi di interesse volti a garantire la stabilità e a ridurre le imposte allo scopo di stimolare le aziende ad investire migliorando la qualità dei loro prodotti. In tal modo si sarebbe favorita la concorrenza, e ciascuna impresa sarebbe stata costretta a comprimere i cosiddetti “costi fissi” per mantenersi competitiva sui mercati mondiali. L’aumento dei costi indotto dallo shock petrolifero fu quindi mitigato con  il taglio dei salari, la rimozione degli apparecchi volti a limitare l’impatto ambientale e tutte le altre misure rientranti nel programma di “razionalizzazione produttiva”.

Grazie a queste circostanze, le tesi di Milton Friedman sostituirono quelle di Keynes, giudicate ormai obsolete, e numerosissime nazioni di tutto il mondo vararono robusti programmi imbevuti di neoliberismo.

Con lo scoppio della crisi del 2007-2008, le teorie di Keynes sono state rapidamente riscoperte ed evocate specialmente in riferimento all’Europa, alla luce del fatto che nel Vecchio Continente ha cominciato a permanere nuovamente il fenomeno di deflazione combinato a disoccupazione di massa. Numerosi economisti come Paul Krugman hanno ripetutamente stigmatizzato l’Unione Europea e la Banca Centrale Europea, perché impediscono per statuto ai singoli Paesi sia di stabilire i tassi di interesse da applicare sia (soprattutto) di svalutare la moneta per favorire le esportazioni. Ciascun Paese ha il potere di agire unicamente attraverso strumenti fiscali. Ma limitarsi ad aumentare la spesa pubblica ed abbassare le tasse senza poter intervenire sui tassi di interesse e sulla moneta finisce soltanto per alimentare il deficit e il debito pubblico. Con la sottoscrizione del cosiddetto “patto di stabilità”, gli Stati sono stati espropriati anche del potere di avvalersi di questi strumenti, poiché ogni Paese è tenuto a rientrare in determinati parametri di disciplina di bilancio (deficit al 3% e debito pubblico al 60% del Prodotto Interno Lordo).

Secondo la teoria keynesiana, i Paesi mediterranei, che hanno tassi di disoccupazione che in alcuni casi supera il 20%, necessiterebbero di politiche espansive, in cui la spesa in disavanzo dovrebbe essere associata a una riduzione delle tasse, a una diminuzione dei tassi di interesse  e a una svalutazione competitiva, ma l’Unione Europea proibisce l’applicazione di questo genere di misure. La BCE ha abbassato notevolmente i tassi di interesse e concesso denaro a basso costo alle banche che, lungi dall’utilizzare questa liquidità per sostenere imprese e famiglie, hanno fatto incetta di Buoni del Tesoro dei Paesi mediterranei e successivamente scommesso pesantemente sul loro declino attraverso i Credit Default Swap, in modo da lucrare sull’aumento degli spread. Le banche tedesche (Deutsche Bank e Commerzbank) si sono distinte per solerzia e disinvoltura con cui hanno applicato questa prassi allo stesso modo in cui Berlino si è opposta a qualsiasi genere di apertura finalizzata a dar respiro all’economia greca, spagnola, italiana e portoghese. La Germania intende mantenere le condizioni che le consentono di registrare i propri esorbitanti avanzi nella bilancia dei pagamenti, il 60-65% dei quali è assorbito dai Paesi membri dell’Eurozona. Angela Merkel e il ministro delle Finanze Wolfgang Schaeuble si sono irriducibilmente opposti sia alla svalutazione dell’euro, sia alla federalizzazione del debito sia al lancio dei cosiddetti “Eurobond” –  che impedirebbero le periodiche fiammate degli spread –, sostenendo che la “fiducia” dei “mercati” si recupererà soltanto mostrando finanze pubbliche in salute, in conformità alle tesi sostenute da Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff clamorosamente rivelatesi prive di alcun fondamento. In tal modo l’intera Europa mediterranea rischia concretamente di sprofondare nella depressione economica, con tutti i suoi corollari di disoccupazione galoppante e disintegrazione del tessuto sociale ad essa connessi.

L’opposizione a qualsiasi genere di politica espansiva è peraltro aggravata dal cambio di paradigma deciso dal nuovo governo giapponese, che intende, molto keynesianamente, raddoppiare la base monetaria nazionale nell’arco di pochi anni allo scopo di far lievitare sensibilmente l’inflazione e di deprimere la valutazione dello yen, in modo da favorire le esportazioni.

Negli Stati Uniti, le istituzioni hanno addirittura attinto a piene mani alle teorie di Keynes. Ma ciò non toglie che la politica espansiva condotta dal Dipartimento del Tesoro e dalla Federal Reserve appaia estremamente pericolosa, nonostante l’intero comparto informativo continui a parlare incessantemente di “ripresa degli USA” e di “calo della disoccupazione”. Con i suoi continui quantitative easing, la Federal Reserve sta infatti riacquistando titoli di debito emessi dal Tesoro al ritmo di circa un trilione di dollari all’anno, cosa che ha reso i bond estremamente costosi e portato la loro redditività a livelli negativi, in termini reali. Per la Fed si tratta di una mossa indispensabile ad assicurare la solvibilità delle banche, le quali, nonostante la loro spaventosa esposizione sul mercato dei derivati (la sola JP Morgan Chase ha un’esposizione sui derivati equivalente al Prodotto Interno Lordo mondiale), hanno utilizzato questa liquidità non per allargare il bacino del credito a famiglie e imprese, ma per operare pesantemente sui mercati azionari – non è un caso che gli indici Dow Jones e Standard & Poor’s abbiano registrato ben due record nell’arco di poche settimane. Ma l’evidente surriscaldamento degli stock market rappresenta un segnale molto pericoloso, perché indica la presenza di un’euforia capace di dissolversi in pochi attimi, provocando una caduta ben peggiore di quelle verificatesi nel 1987 e nel 1999.

L’evidente collusione tra la Fed e Wall Street (va ricordato che la Banca Centrale è controllata da banche private – gruppi Rothschild, Warburg, Lazard, Rockefeller, Kuhn Loeb e banche come Goldman Sachs, Citigroup, ecc. – azioniste dei 12 distretti che compongono la “riserva federale”) si è tuttavia spinta ben oltre il sostegno indiscriminato ed illimitato alle grandi banche. Un economista molto addentro a queste questioni come Paul Craig Roberts (ex alto funzionario al Tesoro nonché padre della cosiddetta “reaganomics”) sostiene infatti che la Federal Reserve abbia più o meno direttamente affidato ai giganti del credito il compito di inondare di short “nudi” il mercato dei future sull’oro. Merrill Lynch e Goldman Sachs in primis avrebbero teleguidato questa potente offensiva tesa a far crollare il valore del metallo, in modo da scoraggiare gli investitori a puntare sul bene-rifugio per eccellenza orientandoli verso la divisa statunitense.

Con il valore del dollaro tenuto a galla attraverso questo genere di “prodigi”, la Fed è riuscita a tenere (molto) parzialmente a freno l’inflazione (già altissima, come sostiene l’economista John Williams, il quale, attraverso calcoli specifici, ha scoperto che i dati ufficiali sottostimano notevolmente il livello reale dell’aumento dei prezzi), che aumenterebbe inesorabilmente in misura esponenziale qualora l’allontanamento generalizzato dalla divisa statunitense attualmente in atto dovesse ulteriormente radicalizzarsi. L’effetto di aumentare considerevolmente l’offerta di valuta statunitense in presenza di una sensibile contrazione della domanda innescherebbe automaticamente una sonora caduta di valore del dollaro, e per un Paese come gli USA, la cui bilancia dei pagamenti è cronicamente in passivo per effetto della pesante deindustrializzazione subita in passato (anche a causa delle dinamiche legate alla globalizzazione), il deprezzamento della moneta provocherebbe forti fiammate inflazionistiche immobilizzando i redditi.

Per mitigare l’aumento dei prezzi, la Federal Reserve si vedrebbe costretta ad alzare il tassi di interesse, ma ciò provocherebbe la caduta del valore e la conseguente esplosione della redditività dei Treasury bond, il che appesantirebbe enormemente gli oneri a carico dello Stato e indurrebbe una drastica stretta creditizia (credit crunch) suscettibile di strangolare defintivamente l’arrancante economia reale. Verrebbe così innescata una tremenda spirale distruttiva che abbatterebbe i redditi e farebbe crollare le entrate fiscali, alimentando il già colossale deficit nazionale. Si manifesterebbe, in altre parole, di una forma estremamente radicale di stagflazione, in cui il fenomeno dell’inflazione galoppante si presenterebbe in presenza di una grave fase depressiva. La materializzazione del fenomeno che la dottrina economica ha sempre bollato come paradosso (inflazione mista a depressione) delineerebbe i contorni di una catastrofe inaudita di fronte alla quale non esistono rimedi.

Sull’economia statunitense gravano quindi tre gigantesche bolle (obbligazionaria, azionaria e del dollaro), che potrebbero scoppiare da un momento all’altro generando ripercussioni inimmaginabili che si propagherebbero ben oltre l’economia e il tessuto sociale nordamericano. Tutto dipende quindi da quale atteggiamento Cina e Giappone in primis decideranno di tenere nei confronti della valuta statunitense. Malgrado Pechino e Tokio siano ben consapevoli che un deprezzamento del dollaro ridurrebbe considerevolmente il volume del credito che possono vantare nei confronti di Washington, non sono mancati segnali di fastidio. Il 26 dicembre 2011, infatti, si è tenuto il vertice di Pechino, al termine del quale l’allora capo del governo cinese Wen Jibao e l’allora primo ministro giapponese Yoshihiko Noda hanno sottoscritto un accordo dall’enorme coefficiente strategico, che prevede l’abbandono del dollaro come valuta di riferimento nell’ambito degli interscambi tra le due potenze asiatiche. Yuan e yen saranno chiamate a sostituire la moneta statunitense, che fino a quella fatidica data costituiva l’indice di riferimento di oltre la metà delle transazioni commerciali tra Pechino e Tokio. Come se non bastasse, i governi di Corea del Sud, Malaysia, Australia, Indonesia, Bielorussia, Argentina e Brasile hanno stipulato accordi bilaterali con Pechino attraverso cui si è stabilita la possibilità di utilizzare lo yuan come moneta di riferimento alternativa al dollaro. La Cina ha fatto valere le proprie posizioni al riguardo anche nella riunione del BRICS tenutasi a Durban nel marzo 2013, al termine della quale i Paesi membri hanno deciso di escludere il dollaro dai loro scambi e di dar vita a un ente bancario destinato verosimilmente ad esercitare una forte concorrenza alle istituzioni di Bretton Woods, controllate dagli USA.

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UN GOLFO, UNO STRETTO, UN MARE (IRAN 1975-1995)

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Un Golfo, uno Stretto, un Mare (Iran 1975-1995)

immagini di Bandar-e ‘Abbâs, Qeshm, Hormoz e Châh-Bahâr

Fotografie di Riccardo Zipoli

con poesie di Hâfez e musiche dello Hormozgân

Mostra prodotta da:

Dipartimento di Studi sull’Asia e sull’Africa Mediterranea (Università Ca’ Foscari Venezia)

Scuola in Produzione e Conservazione dei Beni Culturali (Università Ca’ Foscari Venezia)

Con il contributo di:

Istituto Culturale dell’Ambasciata della Repubblica Islamica dell’Iran – Roma

Teatro Ca’ Foscari

con il patrocinio dell’Assessorato alle Attività Culturali del Comune di Venezia

Il Golfo Persico, lo Stretto di Hormoz e il Mare di Oman identificano gli spazi acquei che bagnano le coste meridionali dell’Iran e quelle di numerosi paesi arabi: l’Oman, gli Emirati Arabi Uniti, l’Arabia Saudita, il Qatar, il Bahrain, il Kuwait e l’Iraq. Si tratta di una regione coinvolta in complesse vicende geografiche, storiche, politiche, economiche e linguistiche che la mettono al centro dell’attenzione mondiale e che però, in questa sede, restano in secondo piano. Il presente omaggio si concentra infatti sulla cultura di quei luoghi e trova le radici nella sfera degli affetti e dei ricordi relativi a tre viaggi compiuti da Riccardo Zipoli molti anni fa, nel 1975, nel 1980 e nel 1995, lungo i litorali nel sud dell’Iran. Dall’archivio fotografico di quei tre viaggi sono state scelte 36 fotografie con il fine di costruire un repertorio che, oltre a essere un diario personale di tre lontane vicende, possa anche dare un’idea di quei luoghi, in un misto di memoria e di documentazione.

La mostra presenta anche una raccolta di brani musicali, un video, un’antologia di poesie e una serie di schede scientifiche.

I brani musicali sono stati registrati dal grande iranista Ilya Gershevitch (1914-2001) nel Golfo Persico nel 1956, e sono inediti. Il prodotto è stato realizzato grazie alla generosità dell’Ancient India and Iran Trust di Cambridge (Regno Unito), in collaborazione con il Conservatorio Musicale veneziano Benedetto Marcello.

Il video, con la voce recitante di Ottavia Piccolo, raccoglie alcuni materiali della mostra ed è stato realizzato in collaborazione con ilDipartimento di Scienze Ambientali, Informatica e Statistica dell’Università Ca’ Foscari Venezia.

Le poesie, tradotte in italiano da Riccardo Zipoli, sono di Shamsoddin Mohammad Hâfez (1320-1390), da tutti considerato il più importante poeta lirico di lingua persiana.

Le schede scientifiche, che descrivono da vari punti di vista le zone oggetto della mostra, sono a cura di Gerardo Barbera.

L’esposizione propone un percorso suggestivo in cui fotografie, musiche, poesie, mappe e descrizioni scientifiche si alternano in un itinerario che descrive aspetti del Golfo Persico lontani dallo stereotipo contemporaneo dominato da tematiche economiche e militari. Il quadro che ne esce è quello di una zona estranea alle contese di cui è stata ed è oggetto, una zona bella, affascinante, pacifica.

La mostra è è allestita a Ca’ Cappello, palazzo che ospita la sezione del Vicino e Medio Oriente, Caucaso e Subcontinente Indiano del Dipartimento di Studi sull’Asia e sull’Africa Mediterranea dell’Università Ca’ Foscari Venezia. L’intento è stato quello di creare un allestimento che entrasse in sintonia con la vita universitaria di questa sede proponendosi come un’iniziativa artistica e come uno stimolo per la riflessione e per il dibattito. Si tratta anche di un omaggio a un palazzo storico dell’ateneo veneziano, un palazzo dove hanno studiato e si sono formati molti studiosi di discipline orientalistiche.

L’esposizione è stata curata da Riccardo Zipoli, fotografo e docente di Lingua e letteratura persiana e di Ideazione e produzione fotograficapresso l’Università Ca’ Foscari Venezia, con la collaborazione di Alberto Prandi, architetto di rinomata esperienza negli allestimenti, e si è avvalsa delle capacità di due stampatori d’eccellenza, la ditta Center Chrome (Firenze), che ha curato la stampa delle immagini fotografiche, e il Gruppofallani (Venezia), che si è occupato della stampa e della messa in posa di tutti gli elementi espositivi.

Della mostra è stato stampato un catalogo in inglese a cura della casa editrice Cafoscarina.

Ca’ Cappello, San Polo 2035, Venezia

14 giugno-15 ottobre 2013

lunedì – venerdi 9 – 19

sabato 9 – 12

chiuso 12 -17 agosto

ingresso libero

 
 
Capture venezia

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TALASSOCRAZIA E SANZIONI

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Megara e l’Italia

Nel 1991, gli Atti di un colloquio di storici e politologi europei ed americani avente per tema “la rivalità egemonica fra Atene e Sparta e fra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica” furono pubblicati sotto il titolo From Thucydides to the Nuclear Age. Tucidide, lo storico di quella “guerra mondiale dell’antichità” che fu la guerra del Peloponneso, è un autore particolarmente apprezzato in certi ambienti politico-intellettuali atlantisti, che hanno cercato di farne il testimone del bipolarismo e del confronto fra due blocchi militari.

La filologia classica, a partire da Ulrich von Wilamowitz-Moellendorff1, ha rimproverato a Tucidide il fatto che, volendo attribuire a Sparta le cause del conflitto, ha lasciato in ombra il blocco commerciale imposto a Megara dalla talassocrazia ateniese. Eppure la guerra del Peloponneso ebbe inizio col decreto contro i Megaresi del 432 a. C. (il Megaréon pséphisma), una serie di sanzioni economiche che interdicevano ai Megaresi, alleati di Sparta, l’accesso ai porti, agli scali ed ai mercati della Lega di Delo, l’alleanza egemonizzata da Atene.

Per gli storici è evidente che le sanzioni contro Megara non erano semplicemente un mezzo con cui Atene intendeva estendere la propria influenza indebolendo i rivali. Helmut Berve, per esempio, ha affermato che con l’embargo, che coinvolgeva anche gli alleati di Megara, Atene “puntava il coltello alla gola dei Peloponnesii”2. Infatti lo pséphisma era una una sfida, una provocazione che doveva procurare agli Ateniesi il casus belli necessario per giustificare la guerra contro Sparta e i suoi alleati. Tuttavia, come è noto, trent’anni più tardi il conflitto si risolse con la sconfitta di Atene e l’abbattimento del suo regime democratico.

Un altro episodio esemplare nella storia delle sanzioni: il 18 novembre 1935, per la prima volta, la Società delle Nazioni decretò le sanzioni economiche contro un paese membro, l’Italia, come risposta alla campagna d’Etiopia. La Gran Bretagna, capofila mondiale dell’anticolonialismo, inviò la Home Fleet a pattugliare il Mediterraneo per far rispettare l’embargo.

Qualche anno dopo, Carl Schmitt commentava: “Le potenze societarie non facevano la guerra, ma imponevano delle sanzioni. La famosa arte inglese dei ‘metodi indiretti’ celebrò un nuovo trionfo. La tipica distinzione fra operazioni militari e operazioni non militari, azioni belliche e azioni pacifiche, perse ogni significato, perché le operazioni non militari potevano essere ostili in un modo più efficace, immediato ed intenso”3.

D’altronde era stato lo stesso fondatore della Società delle Nazioni, il presidente statunitense Thomas Woodrow Wilson, a teorizzare: “Una nazione boicottata finisce per cedere. Applicando questo rimedio economico-pacifico, silenzioso ma mortale, si evita di fare ricorso alla forza”4.

Quanto all’Inghilterra, evidentemente essa aveva ben imparato la lezione sintetizzata nel celebre assioma di Sir Walter Raleigh: “Chi domina il mare domina il commercio mondiale; e a chi domina il commercio mondiale appartengono tutti i tesori del mondo e il mondo stesso”.

A quanto pare, le potenze talassocratiche privilegiano le sanzioni come forma speciale di guerra e le utilizzano nel quadro di una concezione della guerra e del nemico che è molto diversa da quella che sta alla base dello jus publicum Europaeum, poiché ignora la distinzione tra combattenti e non combattenti.

“La guerra marittima – ha scritto altrove Carl Schmitt – non è una guerra di combattenti; essa si basa su una concezione totale del nemico, la quale considera nemici non solo tutti i cittadini dello Stato nemico, ma anche tutti coloro che commerciano col nemico e ne sostengono l’economia. In questo genere di guerra è permesso, senza contestazione possibile, che la proprietà privata nel nemico sia sottoposta al diritto di preda; il blocco, mezzo che appartiene specificamente al diritto marittimo riconosciuto dal diritto internazionale, colpirà senza eccezione l’insieme della popolazione delle regioni coinvolte. Grazie ad un altro mezzo parimenti riconosciuto dal diritto internazionale e parimenti appartenente al diritto marittimo, il diritto di saccheggio, anche la proprietà privata dei neutrali potrà essere presa”5.

Nel 1946, per esempio, gli Stati Uniti pretesero che la Confederazione Elvetica consegnasse i beni dei cittadini tedeschi depositati nelle banche svizzere, pretesa contraria all’ordine giuridico privato internazionale6, ma conforme al diritto di preda specifico del diritto marittimo.

 

 

Le sanzioni secondo la dottrina delle relazioni internazionali 

Secondo la dottrina delle relazioni internazionali, le sanzioni economiche sono disposizioni adottate da uno Stato, o da una coalizione di Stati, o da un’organizzazione internazionale, allo scopo di costringere un altro Stato a rispettare le regole della coesistenza internazionale, senza fare ricorso alle armi.

Nel testo di Martin I. Glassner sulle relazioni internazionali si può leggere che “sanzioni specifiche, imposte in circostanze particolari e fatte rispettare efficacemente, possono modificare il comportamento dello Stato a cui sono rivolte, rafforzando nel contempo il prestigio della parte che le impone. Esistono comunque poche prove che le sanzioni da sole possano spaventare Stati che non siano molto piccoli e deboli”7.

Le sanzioni economiche più comuni sono le seguenti:

1) l’embargo

2) il boicottaggio

3) il congelamento dei beni e dei capitali che lo Stato sottoposto a sanzioni o i suoi cittadini possiedono all’estero

4) il divieto di concedere crediti

5) il divieto di transazione finanziaria

6) il divieto di fare scalo per le imbarcazioni e gli aerei dello Stato sottoposto a sanzioni.

7) la revoca dell’assistenza finanziaria e tecnica.

L’embargo, in particolare, è il divieto, rivolto ad un’imbarcazione mercantile, di levare l’ancora dal porto in cui si trova o di accostarsi ad un porto. In un’accezione più ampia, l’embargo è il blocco degli scambi commerciali decretato da un paese o da più paesi contro un paese terzo.

Il boicottaggio, come pure il blocco, è un insieme di misure che mirano a bloccare il commercio estero e le comunicazioni di un paese nemico. In particolare, il boicottaggio consiste nel divieto di acquistare i beni provenienti dal paese che è sottoposto a sanzioni.

Embargo e boicottaggio sono considerati dall’ONU sanzioni pacifiche applicabili nei confronti degli Stati che violano il diritto internazionale o non rispettano i diritti umani.

In realtà, come affermano i colonnelli cinesi Qiao Liang e Wang Xiangsui nel loro libro sulla “guerra senza limiti”, “l’imposizione di embarghi sulle esportazioni di tecnologie fondamentali (…) può avere un effetto distruttivo pari a quello di un’operazione militare. Al riguardo, l’embargo totale (…) contro l’Iraq, iniziato dagli Stati Uniti, è l’esempio classico da libro di testo”8.

 

 

La “guerra economica” e i suoi obiettivi

Un altro militare, il generale Carlo Jean, già diciott’anni fa preannunciava l’intensificarsi di un uso delle armi economiche – quali l’embargo e le altre sanzioni – finalizzato a conseguire gli stessi obiettivi perseguiti dalla guerra tradizionale. Infatti la “guerra economica” è pur sempre una guerra, poiché il suo obiettivo strategico consiste nello sconfiggere il nemico per assoggettarlo alla volontà del vincitore, così come nella guerra propriamente detta. D’altronde il generale Jean osserva che in questo contesto i mezzi d’ordine economico non vengono impiegati per la produzione o per il commercio, bensì, come se fossero vere e proprie armi, per ottenere risultati analoghi a quelli perseguiti tramite la forza militare, vale a dire “per distruggere la volontà di resistenza dell’avversario (ad esempio, privandolo delle proprie capacità militari, provocando gravi danni alla sua base produttiva, carestie, epidemie, rivolte, cambio di classe dirigente o di governo, colpi di Stato, secessioni, e così via)”9.

Il medesimo autore definisce l'”arma economica” come il mezzo che gli Stati o le coalizioni di Stati “possono lecitamente impiegare per il controllo dell’economia nazionale o internazionale, qualora tale impiego sia teso a conseguire obiettivi analoghi a quelli conseguibili con l’impiego della forza militare e, in particolare, la vittoria su uno Stato o una coalizione nemica”10. Parimenti egli osserva che “questo principio tutela nell’ordinamento internazionale le potenze economicamente dominanti, favorendo il mantenimento dello statu quo”11, sicché gli è possibile concludere affermando: “Ovvio dunque che esso sia stato sostenuto e imposto dall’Occidente, che nell’attuale fase storica gode di una schiacciante supremazia economica sul resto del mondo”12.

È stato anche detto che il concetto di “guerra economica” è ambiguo e multiforme, in quanto si tratta di una guerra che può perseguire obiettivi differenti: economici, strategici o politici13.

La guerra economica ha obiettivi economici, quando lo scopo principale dello Stato che la intraprende non consiste nel danneggiamento dell’avversario, ma nell’aumento del benessere dei propri cittadini o nella crescita della propria ricchezza.

La guerra economica si propone invece degli scopi strategici allorché, in un conflitto militare, essa mira a privare il nemico dei rifornimenti necessari alle Forze Armate ed alla popolazione mediante blocchi navali, aerei o terrestri. Ma si persegue uno scopo strategico anche quando, in assenza di un conflitto militare diretto, vogliono interdire a uno Stato avversario tecnologie e prodotti considerati “critici”.

Infine, la guerra economica si pone degli obiettivi politici quando l’arma economica viene usata per indurre uno Stato ad accettare la volontà di chi la usa, sicché essa si manifesta esattamente come è definita dalle  note formule clausewitziane: “continuazione della politica dello Stato con altri mezzi”, “atto di violenza finalizzato a costringere l’avversario a sottomettersi alla nostra volontà”, “atto ispirato da un disegno politico”.

Nel caso della Repubblica Islamica dell’Iran, lo scopo della guerra economica è sicuramente strategico, poiché l’obiettivo dichiarato delle sanzioni è quello di bloccare l’acquisizione di uranio e di tecnologie utili al programma nucleare.

Ma, per quanto concerne le sanzioni unilaterali imposte dagli Stati Uniti d’America, lo scopo è anche e soprattutto politico, anzi, geopolitico, considerata la necessità della talassocrazia statunitense di controllare lo spykmaniano Rimland, del quale l’Iran costituisce un segmento centrale.

Infatti, se Sir Halford Mackinder aveva formulato la dottrina secondo cui chi controlla lo Heartland governa il mondo, Nicholas J. Spykman ha enunciato la tesi complementare, con una formula che non sarà mai ripetuta abbastanza: “Who controls the Rimland rules Eurasia; who rules Eurasia controls the destinies of the world“.

 

 

 

 

1. Ulrich von Wilamowitz-Moellendorff, Curae Thucydideae, 1885, p. 17.

2. Helmut Berve, Griechische Geschichte, II 1952, p. 11.

3. Carl Schmitt, Inter pacem et bellum nihil medium, “Zeitschrift der Akademie für Deutsches Recht”, VI, 1939, pp. 594-595.

4. Citato da Gallois, Le sang du pétrole – Irak, L’Age d’Homme, Lausanne 1966, p. 31.

5. Carl Schmitt, Souveraineté de l’Etat et liberté des mers, in Du Politique, Pardès, 1990, pp. 150-151; cfr. Idem, Terra e mare, Adelphi, Milano p. 90.

6. “Neue Zürcher Zeitung”, 14 Sept. 1996.

7. M. I. Glassner, Manuale di geografia politica II. Geografia delle relazioni tra gli Stati, Franco Angeli, Milano 1995, p. 36.

8. Qiao Liang – Wang Xiangsui, Guerra senza limiti, LEG, Pordenone 2001, p. 81.

9. Carlo Jean, Geopolitica, Laterza, Bari 1995, p. 140.

10. Carlo Jean, Geopolitica, cit., p. 141.

11. Ibidem.

12. Ibidem.

13. Claude Lachaux, La guerre économique: un concept ambigu, “Problèmes Economiques”, 14 oct. 1992, pp. 28-31.

 

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ELEZIONI PRESIDENZIALI IN MONGOLIA

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Il 26 giugno i cittadini della Repubblica di Mongolia saranno chiamati a decidere il nuovo Presidente, massima carica dell’immenso paese mongolo. La figura del Presidente della Repubblica in Mongolia è una figura ibrida: da un lato è fortemente rappresentativo del paese, visto che è eletto direttamente dalla cittadinanza, e ha il diritto di veto rispetto alle leggi votate dal Parlamento (il Grande Hural di Stato), dall’altra è legato a doppio filo alle decisioni del suo partito visto che può essere costretto a dimettersi in qualsiasi momento. Tra le prerogative più importanti del Presidente c’è un’ampia autonomia nella gestione della politica estera (nomina Ambasciatori e riceve gli Ambasciatori degli altri stati, rappresenta il paese negli incontri bilaterali e nelle Organizzazioni internazionali).

L’elezione cade in un momento storico estremamente positivo con l’enorme paese asiatico (grande 5 volte l’Italia, ma con una popolazione di appena 3 milioni e 180 mila abitanti, poco meno della somma delle sole città di Roma e Milano) protagonista di una crescita economica senza precedenti, grazie alla presenza sul suo territorio di ricchezze naturali (petrolio, oro, pietre rare, rame, carbone) senza pari che hanno attirato l’attenzione dei maggiori investitori mondiali, con Russia, Cina, Stati Uniti, Giappone e Sud Corea a scontrarsi per le licenze di sfruttamento del sottosuolo. Questa costante crescita del PIL con percentuali a due cifre ha però una duplice faccia: se il paese sta oggettivamente crescendo dal punto di vista economico e si può proporre su numerosi tavoli negoziali e diplomatici come paese sovrano, si registrano anche preoccupanti squilibri socio-economici con una soglia di povertà sempre più estesa e problemi socio-culturali come la diffusione dell’alcoolismo.

È quindi evidente che questa scadenza elettorale rappresenti uno snodo di primaria importanza per il futuro della massa continentale eurasiatica, visti gli enormi interessi in gioco.

Di seguito presenteremo brevemente il profilo dei tre candidati, che come vedremo sono tre rappresentanti di partiti che potremmo collocare nell’emisfero di sinistra secondo un paradigma politico eurocentrico.

Cahiagijn Ėlbėgdorž: presidente in carica, eletto nel 2009, con il Partito Democratico, formazione di centrosinistra, che si richiama alla tradizione europea liberal-socialista. È sostenuto anche dal Partito Civile-Partito Verde e dal Partito Nazional-democratico. Secondo gli analisti la sua rielezione è altamente probabile. Ex giornalista formatosi in Ucraina e Stati Uniti è stato tra i promotori della democratizzazione del Paese, fin dai primi anni ’90 (la cosiddetta Perestrojka mongola), è stato primo ministro in due periodi (aprile-dicembre 1998 e agosto 2004 – gennaio 2006). Di tendenza liberale, è considerato il candidato più filo-occidentale. In realtà nel suo primo mandato ha messo sul tavolo una politica estera pragmatica: ha saputo allacciare ottimi rapporti con l’Occidente e con i paesi dell’Unione Europea in particolare, ma non ha rinunciato a rapporti bilaterali con Iran, Corea del Nord e Cina, oltre a rafforzare la presenza nell’Organizzazione per la Cooperazione di Shangai. Nella politica energetica ha sollevato più di qualche malumore nei dintorni di Washington, per quanto riguarda la concessione delle licenze di estrazione. È il candidato pragmatico che piace ai “nuovi ricchi” di Ulaanbaatar e alla borghesia.

Badmaanyambuugiin Bat-Erdene: candidato del Partito del Popolo Mongolo, partito erede del partito unico al potere durante il periodo socialista. Bat-Erdene è una leggenda sportiva del paese, essendo il più grande lottatore della storia contemporanea di Bökh (vincitore per 11 volte, primato assoluto, del titolo nazionale del Naadam), la lotta libera mongola, la cui popolarità è pari solo a quella dal lottatore di sumo Asashōryū (vero nome Dolgorsürengiin Dagvadorj), schierato nelle file del Partito Democratico. Deputato dal 2004 è una figura fortemente carismatica, proposta dal Partito come candidato di “unità nazionale”. Tradizionalmente il Partito è vicino a Russia e Cina e segue con interesse il modello centralista del socialismo di mercato cinese. Negli ultimi anni il partito è stato penalizzato dalla Rivoluzione Colorata del 2007 che lo ha estromesso dal potere e dalle politiche poco trasparenti dell’ex Presidente Ėnhbajar (vedi sotto), accusato di corruzione. La scelta di Bat-Erdene, quindi di uno sportivo pulito, invincibile, amatissimo dal popolo, rientra in un’ottica di maggior trasparenza e di  penetrazione delle masse popolari più colpite dall’ingiusta redistribuzione della ricchezza nazionale. Il cavallo di battaglia di Bat-Erdene è la lotta alla corruzione e alle attività illegali delle compagnie estrattive, che punta a riportare sotto il controllo dello Stato centrale, concedendo licenze solo in cambio di garanzie di serietà, legalità e convenienza per il popolo. A sostenere Bat-Erdene sono anche tre partiti minori: il Partito Verde Mongolo (da non confondere con quello che sostiene Ėlbėgdorž), dal Partito per la realizzazione della libertà e dal Partito Unito dei Patrioti.

Natsag Udval: esponente del Partito Rivoluzionario del Popolo Mongolo, nato da una scissione del Partito del Popolo, fondato dall’ex Presidente Nambaryn Ėnhbajar. È la prima donna candidata alla presidenza della Repubblica, attualmente occupa il dicastero della salute. Il partito che si richiama alla tradizione della sinistra comunista mongola, è caratterizzato da dure posizioni nazionaliste anti-cinesi (Ėnhbajar è inoltre seguace del Dalai Lama) e raccoglie molti consensi nelle masse popolari che vedono la Cina e la sua potenza come invasiva e imperialista. Il candidato del PRPM potrebbe erodere voti a Bat-Erdene.

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I MISSILI ANTIAEREI RUSSI S-300 GIÀ SCHIERATI E OPERATIVI IN SIRIA?

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Prof. Michel Chossudovsky, Global Research, 30 maggio 2013

Secondo fonti, il sistema missilistico superficie-aria russo S-300 deve essere consegnato e distribuito in Siria. Israele ha risposto con velate minacce. Secondo il ministro israeliano per gli Affari Militari Moshe Ya’alon: “È evidente che questa mossa è una minaccia per noi… In questa fase non posso dire che ci sia una escalation. Le spedizioni non sono state inviate ancora. E spero che non lo saranno… Dio non voglia che raggiungano la Siria, sapremo cosa fare”. Il presidente Assad ha confermato che gli S-300 sono stati consegnati.
 
 

E’ importante inserire queste notizie nel contesto storico. L’annuncio di Mosca è stato casualmente descritto come un’improvvisata “rappresaglia” per la revoca dell’embargo sulle armi dell’Unione europea. Questa interpretazione eruttata dai media mainstream ignora la natura della pianificazione militare. Il dispiegamento dei missili antiaerei russi S-300 già schierati e operativi in Siria era previsto dal Ministero della Difesa russo dal 2006. Mosca ha annunciato nel giugno 2006 che avrebbe schierato i sistemi di difesa aerea S-300PMU per proteggere la sua base navale di Tartus nella Siria meridionale. Si era capito che questo dispiegamento potrebbe anche proteggere lo spazio aereo siriano. La notizia evidenzia lo schieramento degli S-300PMU, pur confermando che “i sistemi [s-300] non saranno consegnati ai siriani. Saranno equipaggiati e gestiti da personale russo. (Kommerzant (http://www.globalresearch.ca/russia-to-defend-its-principal-middle-east-ally-moscow-takes-syria-under-its-protection/2847))”.

L’intento dichiarato di Mosca, tuttavia, è “implementare un sistema di difesa aerea attorno alla base. Fornire una copertura aerea alla base stessa e a una parte consistente del territorio siriano”. Secondo le nostre fonti, la Russia e Damasco hanno raggiunto un accordo sulla modernizzazione delle difese aeree siriane. I suoi sistemi di difesa aerea a medio raggio S-125 saranno aggiornati allo fase Pechora-2A. L’aggiornamento certamente migliorerà la difesa aerea siriana, che utilizza l’hardware in dotazione alla Siria dagli anni ’80. Mosca è pronta ad offrire alla Siria anche i più sofisticati sistemi a medio raggio Buk-M1. I sistemi Strelets a distanza ravvicinata, venduti a Damasco lo scorso anno, sono tutti dei sistemi di difesa aerea siriani che si dimostrano essere degli equipaggiamenti sofisticati, a questo punto (questi sistemi utilizzano il SAM Igla). (Kommerzant (http://www.globalresearch.ca/russia-to-defend-its-principal-middle-east-ally-moscow-takes-syria-under-its-protection/2847) 28 luglio 2006)

 

 

Sviluppi recenti

Vi è ragione di credere che i principali componenti del sistema di difesa aerea S-300 siano stati consegnati e schierati in Siria nel corso degli ultimi 18 mesi. Vi sono indicazioni che i componenti del sistema S-300 siano già operativi. Secondo Arun Shavetz (http://www.israelnationalnews.com/News/News.aspx/150059) (24 novembre 2011), consiglieri tecnici russi sono arrivati in Siria nel novembre 2011, per “aiutare i siriani a gestire una batteria di missili S-300”. La relazione indica inoltre che un sistema radar avanzato è stato installato in tutte le installazioni chiave siriane, militari e industriali. “Il sistema radar copre anche le aree a nord e a sud della Siria, dove sarà in grado di rilevare il movimento di truppe o di aeromobili in direzione del confine siriano. I radar coprono gran parte d’Israele, così come la base militare di Incirlik in Turchia, utilizzata dalla NATO.” (Ibid)

Quasi un anno fa, nel giugno 2012, il ministro della Difesa israeliano Ehud Barak fece pressione su Mosca per annullare la vendita degli S-300 alla Siria. Il presidente russo Vladimir Putin, durante la sua visita in Israele, ha confermato la sospensione della vendita di S-300 (vedasi Israele convince la Russia ad annullare l’accordo siriano sui missili S-300: ufficiale, Xinhua (http://news.xinhuanet.com/english/world/2012-06/28/c_131682101.htm) 28 giugno 2012). Mentre non vi è alcuna conferma ufficiale che gli S-300 siano già operativi, la Siria possiede il sistema di difesa aerea Pechora-2M, che fonti militari statunitensi ammettono costituire “una minaccia”, vale a dire un ostacolo nel caso “che una no fly zone” sia attuata sulla Siria. Il Pechora-2M è un sofisticato sistema di puntamento multiplo che può essere utilizzato anche contro missili da crociera. Se questo sistema di difesa aerea non fosse attivo, l’attuazione di una “no fly zone” di USA-NATO, senza dubbio sarebbe stata già prevista in precedenza.

Il sistema missilistico di difesa aerea SA-3 Pechora-2M è un sistema missilistico antiaereo superficie-aria a corto raggio progettato per la distruzione di aerei, missili da crociera, elicotteri d'assalto e altri bersagli a terra e aerei, a basse e medie altitudini.
Il sistema missilistico di difesa aerea SA-3 Pechora-2M è un sistema missilistico antiaereo superficie-aria a corto raggio progettato per la distruzione di aerei, missili da crociera, elicotteri d’assalto e altri bersagli a terra e aerei, a basse e medie altitudini.


Inoltre, in risposta all’installazione dei missili Patriot di USA-alleati in Turchia, la Russia ha consegnato alla Siria gli avanzati missili Iskander, ora pienamente operativi. L’Iskander è descritto come un sistema missilistico superficie-superficie “che nessun sistema di difesa missilistica può tracciare o distruggere”. L’Iskander può volare alla velocità ipersonica di oltre 1,3 chilometri al secondo (Mach 6-7) e ha una gittata di oltre 280 miglia con una precisione millimetrica nel distruggere bersagli con la sua testata da 1.500 chili, un incubo per qualsiasi sistema di difesa missilistica.

 

Michel Chossudovsky, Global Research, 30 maggio 2013

 

 

 

Allegato

Portiamo all’attenzione dei lettori di Global Research una relazione che descrive la natura del sistema missilistico superficie-aria russo S-300V. Nota: questo sistema è diverso da quello installato in Siria.

MissileThreat – http://missilethreat.com/defense-systems/s-300v-sa-12a-gladiator-sa-12b-giant/

L’S-300V, noto anche con la designazione NATO SA-12, è un avanzato sistema missilistico superficie-aria russo. Due sono le versioni attualmente esistenti: il Gladiator (NATO: SA-12A), in grado di distruggere i missili balistici, e il Gigant (NATO: SA-12B), per l’uso contro aerei e missili da crociera. Dall’inizio degli anni ’90, i russi hanno venduto migliaia di S-300V in Asia, Europa e Medio Oriente.

S-300V (SA-12A Gladiator, SA-12B Gigant)

Utente: Russia

Testata: HE (Alto Esplosivo)

Gittata: A: 6 – 75 km; B: 13 – 100 km

Basato: mobile terrestre

Stato: operativo

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L’S-300V è stato sviluppato dalla Antej Corporation, una delle maggiori società della difesa dell’ex Unione Sovietica. E’ stato progettato principalmente come sistema antimissile balistico, anche se ha anche la possibilità di individuare e distruggere aerei e missili da crociera, come il Patriot degli Stati Uniti. L’S-300V è stato schierato nel 1986 ed ebbe un tale successo che, alla fine degli anni ’80, l’esercito sovietico ordinava una media di tre-quattro battaglioni ogni anno. (1) Negli anni ’90, l’Antej migliorò la capacità dell’S-300V, dando al sistema la possibilità di ingaggiare bersagli che volano fino a 100 chilometri di distanza. (2) Fin dall’inizio, l’S-300V è stato progettato come un sistema missilistico duplice, incorporando due missili che differiscono per dimensione, portata e finalità. Il più piccolo dei due, il Gladiator, è soprattutto un missile antiaereo. Con una lunghezza di 7 metri, 0,72 metri di larghezza e un peso di 2.500 chilogrammi, vola a 1,7 chilometri al secondo e può distruggere aerei a 6-75 chilometri di distanza che si trovano a quote tra i 25 e i 25000 metri. Ogni Gladiator ha una testata da 150 chilogrammi di alto esplosivo. (3)

Al contrario, il Gigant è progettato per distruggere missili balistici tattici e missili da crociera, anche se può anche abbattere aerei. Con una lunghezza di 8,5 metri, 0,9 metri di larghezza e un peso di 4.600 chilogrammi, si avvicina al bersaglio a 2,4 chilometri al secondo. Può ingaggiare missili da crociera e velivoli a distanze tra i 13 e i 100 chilometri a quote tra 1 e 30 chilometri (20-40 km contro i missili balistici). Come il Gladiator, ogni Gigant è dotato di una testata da 150 chilogrammi di alto esplosivo. (4)

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Entrambi i missili S-300V sono guidati dal radar a scansione phased-array russo 9S19M2, in grado di eseguire la scansione per una superficie di 90 gradi ogni secondo. Secondo i funzionari dell’Antej, il radar rileva obiettivi tra i 20 e i 175 km di distanza con una precisione di 200-300 metri. Il 9S19M2 è in grado di inseguire fino a 16 missili balistici, aerei o missili da crociera e contemporaneamente gestire fino a sei dispositivi di jamming. Entrambe le varianti dei missili S-300V più il sistema radar, vengono trasportati su lanciatori mobili.

Nel corso degli anni, i russi hanno testato l’S-300V contro una vasta gamma di obiettivi. I funzionari dell’Antej sostengono che, in una serie di test nel 1997, gli intercettori Gladiator e Gigant distrussero più di 60 missili balistici e da crociera. Tra i missili bersaglio vi erano Scud-B modificati per simulare il missile balistico a corto raggio al-Hussein usato dall’Iraq nella Guerra del Golfo. In una serie di test, l’S-300V con un colpo singolo ha 0,4-0,7 probabilità di distruggere missili balistici tattici. Una media di 1,5-1,75 intercettori è sufficiente per abbattere un singolo bersaglio. (6) Nel 1998, l’Antej presentò una versione dell’S-300V, soprannominato “Antej-2500”. Conosciuto come S-300VM, mentre era in fase di sviluppo, il modello aggiornato adotta due tipi di missili con velocità massime di 1,7 e 2,6 chilometri al secondo. Il sistema modificato è in grado di ingaggiare contemporaneamente 24 bersagli a una distanza di 40-200 km e a quote dai 25 metri ai 30 chilometri. E’ in grado di rilevare, inseguire e distruggere missili balistici tattici fino a 2.500 km di distanza, da qui il suo nome, Antej-2500. (7)

Negli ultimi dieci anni, la Russia ha dispiegato migliaia di S-300V e Antej-2500 presso i suoi complessi militari e industriali chiave. Inoltre, ha esportato questi sistemi in Asia, Europa e Medio Oriente per finanziare la propria economia in difficoltà, a seguito del crollo dell’Unione Sovietica nel 1991. Secondo Aviation Week & Space Technology, “nella competizione mondiale per la vendita dei sistemi di difesa missilistica, l’S-300V della russa Antej Corp. è il principale  concorrente”. (8) Il vantaggio per gli acquirenti dei missili terra-aria russi è che, a differenza degli Stati Uniti, non vi sono allegati obblighi politici e, molto spesso, le armi sono molto più economiche rispetto a quelle statunitensi. (9) Nel 1996, per esempio, la Russia commercializzò il sistema S-300V negli Emirati Arabi Uniti, in diretta concorrenza con gli Stati Uniti, che vendevano missili Patriot agli Emirati Arabi Uniti da diversi anni. La Russia offrì i missili S-300V agli Emirati Arabi Uniti a prezzi pesantemente scontati, in sostanza li vendettero a metà del prezzo normale, in cambio della risoluzione del debito a lungo termine con l’UAE. L’accordo Russia-Emirati Arabi Uniti, tuttavia, fece arrabbiare gli Stati Uniti che inasprirono le loro relazioni con la Russia. (10)

L’S-300V ha anche svolto un ruolo nei più grandi e più redditizi accordi sugli armamenti tra la Russia e altre potenze nucleari. Nel febbraio 2002, il viceprimo ministro russo Ilja Klebanov guidò una delegazione a New Delhi, in India, per negoziare un accordo sulle armi pesanti, il cui punto focale fu la vendita di missili S-300V. (11) Nel corso degli anni, essendo uno dei più importanti e  maggiori acquirenti di armamenti della Russia, l’India ha dotato quasi i due terzi delle sue forze armate di equipaggiamenti russi. (12) Nel febbraio 2004, la Russia ha formalmente offerto di vendere il sistema di difesa all’India. (13) Le recenti tensioni tra India e Pakistan, entrambi in possesso di armi nucleari, garantisce che i sistemi missilistici antibalistici S-300V, ed altri, saranno predominanti nei futuri accordi sugli armamenti. (14) Allo stesso modo, è stato indicato nel dicembre 2003 che Mosca intendeva fornire all’Iran, una potenziale potenza nucleare, 1,6 miliardi dollari di dollari in armamenti, per la maggior parte missili terra-aria S-300V o Antej-2500. L’Iran ha fatto pressioni sulla Russia per vendergli lo scudo difensivo dalla fine degli anni ’90. Si prevede che utilizzerà i missili per proteggere la sua importante regione industriale di Esfahan, la sua base navale di Bandar Abbas (sul Golfo Persico), i terminali petroliferi di Abadan e Khorramshahr e la centrale nucleare di Bushehr. (15) Gli Stati Uniti, manco a dirlo, espressero forti obiezioni all’accordo Russia-Iran e, ad un certo punto, minacciarono persino sanzioni. Nonostante queste obiezioni, sembra che la Russia non abbia intenzione di fermare la commercializzazione dei propri missili S-300V, così come di altre armi, in Asia, Europa e Medio Oriente nei prossimi anni.

 

 

 

 

 

Note

1. Nikolay Novichkov e Michael A. Dornheim, “Russian SA-12, SA-10 On World ATBM Market,” Aviation Week & Space Technology, 3 marzo 1997.

2. Robert Wall, “Russia’s Premier SAMs Seen Proliferating Soon”, Aviation Week & Space Technology, 27 settembre 1999.

3. Novichkov, et al.; Missile.index.

4. Ibid.

5. Novichkov, et al.

6. Lbid.

7. “Russia’s Antey Offers Upgraded SA-12 For Export,” Aerospace Daily, 28 maggio 1998.

8. Novichkov, et al.

9. Carlo Kopp, “Next-Generation SAMs For Asia A Wake-Up Call For Australia”, Australian Aviation, 1 ottobre 2003.

10. “Russian/U.S. Tussle Over UAE Air Defence System Intensifies”, Flight International, 24 marzo 1999; GlobalSecurity.org.

11. “Russia: Moscow Begins Arms Trade Negotiations With New Delhi,” Periscope Daily Defense News Capsules, 6 febbraio 2002.

12. Sergei Blagov, “Trade: Russia Leads World In Arms Exports,” Inter Press Service, 1 liglio 2002.

13. “Russia Offers S-300V SAM Anti-Missile System To India,” The Press Trust of India Limited, 5 febbraio 2004.

14. Sergei Blagov, “Trade: Russia Leads World In Arms Exports”, Inter Press Service, 1 luglio  2002; Rajat Pandit, “India Wants Info On Patriot Missile System”, The Times of India, 14 agosto 2003.

15. Aleksandr Reutov, “Iran Yields To IAEA To Gain Time”, Kommersant, 19 dicembre 2003.

 

 

Copyright © 2013 Global Research

http://www.globalresearch.ca/russias-s-300-surface-to-air-missile-already-deployed-and-functional-in-syria-the-ordnance-bothering-the-allies/5336882?print=1

 

 

Traduzione di Alessandro Lattanzio

http://sitoaurora.altervista.org/home.htm

http://aurorasito.wordpress.com

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ISRAELE COMBATTE UNA GUERRA REGIONALE IN SIRIA

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Mahdi Darius Nazemroaya, Global Research, 30 maggio 2013

L’evoluzione della situazione interna in Siria mette in movimento una nuova serie di piani che coinvolgono l’aggressione israeliana contro la Siria. Non solo gli Stati Uniti e i loro alleati cercano di rinforzare militarmente le milizie anti-governative in ritirata, ma ora il loro obiettivo è creare una nuova fase del conflitto in cui gli Stati inizino ad agire contro la Siria al posto delle indebolite forze anti-governative. In altre parole, la pressione esterna viene applicata per sostituire la declinante pressione interna. L’ingresso delle truppe israeliane e del servizio di sicurezza Mossad in Siria con ripetuti attacchi aerei, in violazione dello spazio aereo libanese, all’impianto siriano di ricerca militare nella città di Jamraya chiarisce il ruolo d’Israele nel destabilizzare la Siria. Israele ha anche ammesso che “un’intensa attività d’intelligence” è stata attuata in Siria dalle forze israeliane e che pensa anche di occupare altro territorio siriano come nuova “zona cuscinetto”. Fox News, apertamente sbilanciata in favore di Israele, ha trasmesso un video di soldati israeliani che attraversano illegalmente la frontiera siriana. Notizie dalla Siria indicano che un veicolo militare israeliano è stato sequestrato durante i combattimenti contro le forze anti-governative nella città di Quseir, nel territorio siriano.

 

 
Epicentro di una guerra regionale? 

Gli eventi che coinvolgono Israele sono parte della tendenza ad ampliare e internazionalizzare il conflitto siriano, creando ricadute violente. Secondo un quotidiano britannico: “Se qualcuno aveva dubbi che il raccapricciante [conflitto] in Siria stia già divenendo un più ampio conflitto in Medio Oriente, gli [attacchi israeliani] negli ultimi giorni dovrebbero dirgli di abbandonarli”. Turchia e Israele, come il Regno hashemita di Giordania, sono innegabilmente coinvolti nei combattimenti quali aggressori della Siria. La Turchia ha condotto le operazioni di ricognizione della NATO in Siria, ospita missili Patriot della NATO puntati contro la Siria (con la possibilità di schierarli contro l’Iran e la Russia) e favorisce apertamente le forze anti-governative. Israele è stato il più discreto dei due, ma ha inviato il Mossad in Siria e costruito strutture nelle alture del Golan per aiutare l’insurrezione. Entrambi i Paesi hanno continuamente minacciato la Siria e spinto per l’intervento della NATO e la no-fly zone. Per tutto il tempo, gli Stati Uniti hanno stimolato Ankara e Tel Aviv a proseguire le tensioni di guerra e hanno anche proposto la vendita alla Turchia di gas degli Stati Uniti per allontanare economicamente i turchi dagli alleati siriani Russia e l’Iran e dall’influenza che hanno sulla essa.
 
In realtà, la Siria è solo un fronte di una grande lotta egemonica che si estende dall’Afghanistan presidiato dalla NATO all’Iraq passando per il Libano e la Striscia di Gaza. La Repubblica libanese si presenta quale prossimo obiettivo della destabilizzazione nella grande lotta di cui la Siria è un fronte. Vi sono timori che ci possa essere un vuoto tra i parlamentari e il governo a Beirut, a causa della ricaduta della crisi in Siria che potrebbe essere capitalizzata per accendere un altro conflitto interno libanese. Le tensioni tra il filo-siriani guidati da Hezbollah dell’Alleanza 8 marzo e gli anti-siriani guidati da Hariri dell’Alleanza del 14 Marzo, si sono accumulate in seguito al conflitto in Siria. Entrambe le parti in Libano sono coinvolte nel conflitto siriano. Il Libano viene trascinato nel conflitto perché la Siria è utilizzata come arena per colpire e paralizzare Hezbollah e l’Alleanza 8 marzo, con l’obiettivo di trasformare il Libano in una colonia controllata da Washington e dai suoi alleati, che sarà governata dal corrotto Hariri alla guida dell’Alleanza del 14 Marzo. Hezbollah ha iniziato a combattere sul lato siriano del confine siro-libanese, mentre l’Alleanza del 14 Marzo ha iniziato l’invio di armi e finanziamenti agli insorti fin dall’inizio della sollevazione, nel 2011. Dopo mesi di menzogne, il ruolo di Hariri in Libano è stato scoperto nel novembre del 2012, quando furono fornite le prove che dimostrano che il membro del partito futuro di Hariri, Okab Sakr, era dietro l’invio di armi ai ribelli siriani in coordinamento con ufficiali dei servizi segreti turchi e qatarioti. Per quanto riguarda Hezbollah, i suoi membri cominciarono a lottare sul lato siriano del confine di propria iniziativa. Poi i ribelli in Siria hanno iniziato ad attaccare i villaggi sciiti su entrambi i lati del confine siro-libanese. Le forze anti-governative in Siria hanno iniziato a fare tutto il possibile per provocare Hezbollah ad azioni di rappresaglia, compreso il rapimento di pellegrini libanesi e, nel 2012, il deliberato attacco ai santuari sciiti in Siria. Dopo che la moschea in cui Hujr Adi ibn al-Kindi e suo figlio furono sepolti, in Siria, è stata profanata dagli insorti, Hezbollah e sciiti iracheni sono entrati ulteriormente nel conflitto siriano per proteggere la moschea di Sayyidah Zaynab. In Siria non solo sono stati attaccati i sacri edifici venerati dagli sciiti, ma leader sunniti sono stati uccisi e chiese cristiane sono state profanate. Leader spirituali cristiani sono stati aggrediti. I funzionari iraniani hanno accusato gli Stati Uniti, Israele e i sauditi per la profanazione di questi luoghi santi siriani e gli attacchi delle minoranze.
 
Mentre la maggior parte della popolazione araba sunnita di Siria sostiene il governo siriano contro i ribelli e i loro sostenitori stranieri, vi è una spinta reale per tracciare il conflitto in Siria lungo linee settarie tra arabi contro non-arabi, e sunniti contro alawiti e sciiti. Varie minoranze vengono sistematicamente aggredite. Drusi, cristiani maroniti cattolici, melchiti cristiani greco-cattolici, cristiani greco-ortodossi, armeni cristiani ortodossi, siriaci cristiani ortodossi, alawiti e duodecimani (jaffari) e sciiti vengono tutti aggrediti in quanto minoranze religiose. Armeni, assiri, curdi, e turcomanni vengono aggrediti in quanto minoranze etniche. L’Iraq conosce fin troppo bene l’incubo che la Siria sta affrontando. Molti ribelli in Siria provengono dall’Iraq e sono legati al movimento del Risveglio al-Anbar (o Figli del Movimento Iraq), collegato ad al-Qaida ed hanno cominciato a collaborare e ricevere finanziamenti dagli Stati Uniti durante la guerra contro l’occupazione anglo- statunitense. Se questi vincono in Siria, alla fine ritorneranno in Iraq per accendere la rivolta contro il governo federale di Baghdad. D’altra parte, il conflitto in Siria è il catalizzatore del rafforzamento russo in Medio Oriente e della costruzione di nuovi legami tra Hezbollah e Mosca. Nell’ottobre del 2011, Hezbollah ha inviato una delegazione in Russia per discutere dei combattimenti in Siria. E’ chiaro ormai che Mosca si coordina con l'”Asse della Resistenza” o Blocco della Resistenza guidata dagli iraniani che comprende Siria, Hezbollah, Michel Aoun e i palestinesi. Dopo colloqui sulla Siria a Teheran, durante la visita del viceministro degli Esteri russo Mikhail Bogdanov a Beirut il 26 aprile, in piena vacanza del governo formale libanese, è stata adottata questa cooperazione strategica. Il viaggio di Bogdanov in Libano è importante, perché è stato un chiaro indicatore del fatto che la Russia ha stretto legami strategici diretti con Hezbollah e che riconosce il Blocco della Resistenza come prolungamento della propria sicurezza.
 
Come Hezbollah, l’Iran è anche un obiettivo del conflitto in Siria. Questo è uno dei motivi per cui  Hassan Nasrallah, il segretario generale di Hezbollah, ha compiuto una visita a Teheran il 29 aprile (dopo l’incontro con Mikhail Bogdanov) per discutere di un fronte comune con gli iraniani. Lo stesso gruppo di Paesi che attaccano Siria e Hezbollah, hanno di mira l’Iran. E’ stato riportato che “Israele si prepara ad accettare un accordo di cooperazione di difesa con la Turchia e tre Stati arabi, volta ad istituire un sistema di allarme rapido per rilevare i missili balistici iraniani”. Uzi Mahnaimi ha spiegato che questa “proposta, a cui i diplomatici coinvolti si riferiscono come ‘4 +1’, potrebbe alla fine portare i tecnici di Turchia, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Giordania a cooperare con gli israeliani nei centri di comando-e-controllo congiunti”. Proprio come Hezbollah ha confermato, è coinvolto nei combattimenti in Siria e ha promesso che i “veri amici” della Siria, cioè  Iran, Russia, Cina e l’Alleanza 8 marzo libanese, non lasceranno che la Siria cada nelle mani degli Stati Uniti e dei loro alleati, Teheran ha detto più volte a Washington e ai suoi alleati che la Siria è la ‘Linea Rossa’ degli iraniani. I comandanti iraniani hanno detto che la Siria è un’estensione dei perimetri di sicurezza dell’Iran. Inoltre, gli iraniani hanno ammesso apertamente che aiutano i loro alleati siriani e sono disposti a fornire addestramento ed assistenza a Damasco, come pure ad intervenire militarmente per aiutare la Siria se gli Stati Uniti e i loro alleati l’attaccano.
 
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La Siria e il progetto per il “Nuovo Medio Oriente” 
 
Ciò che accade in Siria avrà importanti ripercussioni regionali e globali. I tentativi di creare una guerra settaria fanno parte della logica del divide et impera. Ciò rientra nella strategia del “caos costruttivo” di Stati Uniti e Israele, per frammentare e ridisegnare l’intero Medio Oriente secondo il Piano Yinon e le sue versioni rimaneggiate. Il ministro degli Esteri iraniano Salehi ha avvertito che se il conflitto in Siria non finirà il risultato sarà la partizione della Siria e l’ampliamento del conflitto in tutto il Medio Oriente. Gli stessi avvertimenti riecheggiano da Russia, Siria e altri luoghi. Mentre i cinesi mantengono il silenzio, si rendono conto che l’assedio della Siria è parte del piano del Pentagono contro la Cina. Il giorno prima che Benjamin Netanyahu arrivasse a Pechino, la CNN aveva riferito che “il portavoce del ministero degli esteri cinese aveva suggerito che la linea dura di Netanyahu fosse un messaggio sgradito ai suoi ospiti cinesi”, per via degli attacchi israeliani a Jamraya.
 
La situazione in Siria è simile alla situazione che si è creata in Iraq durante l’occupazione anglo-statunitense. Si tratta della continuazione del medesimo processo di destabilizzazione che vuole distruggere il tessuto pluralistico delle antiche società del Medio Oriente. E’ il piano che ha scacciato i cristiani dall’Iraq e distrutto i quartieri misti sciiti e sunniti, arabi e curdi. Contemporaneamente l’Iraq soffre per la realizzazione virtuale sia del Piano Yinon che del Piano Biden, che vogliono che l’Iraq debba essere diviso in tre settori. Il governo regionale del Kurdistan, che opera apertamente contro la sovranità dell’Iraq ed è allineato a Turchia e Israele, è ai ferri corti con il governo federale di Baghdad e possiede de facto l’indipendenza. I corrotti leader del governo regionale del Kurdistan hanno impedito all’esercito iracheno di controllare alcuni valichi del  confine iracheno-siriano nel nord, usati dai ribelli in Siria, ed hanno permesso agli israeliani di usare il Kurdistan iracheno come base delle operazioni contro la Siria e l’Iran. Come hanno fatto in Iraq durante il caos, gli Stati Uniti e i loro alleati usano soldi e settarismo. L’insurrezione in Siria è finanziata dagli Stati Uniti e dai membri della loro coalizione anti-siriana, come i sauditi e il Qatar.  Inoltre, i gruppi di opposizione al governo siriano sono stati finanziariamente cooptati dal ramo siriano della Fratellanza musulmana, grazie al finanziamento estero ricevuto per rovesciare il governo siriano. Un esponente dell’opposizione ha ammesso che i Fratelli musulmani “ci hanno chiesto di quanto avevamo bisogno, glielo abbiamo detto e loro ci hanno mandato immediatamente tale importo”. Inoltre, i fondi esteri non sono stati utilizzati solo per pagare ciò di cui avevano bisogno, ma i Fratelli musulmani dicevano ad attivisti e oppositori del governo che “dovrebbero prendere l’uno per cento dei finanziamenti per i loro stipendi personali”. Non ci dovrebbe essere alcun dubbio che i ribelli in Siria ed Israele siano dalla stessa parte. Le forze anti-governative in Siria hanno persino ringraziato Israele in diverse occasioni ed erano giubilanti per gli attacchi israeliani contro Jamraya. In conseguenza dell’imbarazzante attenzione che hanno ricevuto per essersi allineati con Israele, i ribelli in Siria hanno cambiato marcia e cercato di salvare la faccia  sostenendo ridicolmente che Israele è segretamente alleato con Bashar al-Assad, l’Iran e Hezbollah.
 
Ha qualcosa di significativo quando i funzionari israeliani dicono che non vedono il cambio di gestione di al-Qaida in Siria come una minaccia per Tel Aviv. Amos Gilad, ufficiale dell’esercito israeliano, ha dichiarato apertamente che al-Qaida non rappresenta alcuna preoccupazione per Israele e “anche se [i suoi] elementi ottengono un punto d’appoggio in Siria nel caos della guerra civile del paese, l’asse Siria-Iran-Hezbollah che affrontano [è] di gran lunga più pericoloso” per Israele. In realtà, i governi di Israele, Turchia, Arabia Saudita, Qatar, Regno Unito, Francia e Stati Uniti sono in combutta con i presunti terroristi che alcuni di loro dicono di contrastare o di combattere. Hanno utilizzato dei gruppi definiti dei rami di al-Qaida come truppe terrestri in Siria e in Libia. In caso di successo, alla fine si cercherà di utilizzare gli stessi militanti per accendere insurrezioni in luoghi come il Caucaso del Nord, Distretto Federale della Russia. Mentre Libano, Iran, Iraq e palestinesi vengono attaccati attraverso la destabilizzazione della Siria, i Paesi che aggrediscono la Siria preparano anche le fiamme che li bruceranno se il “Nuovo Medio Oriente” degli USA venisse inaugurato con un battesimo di fuoco e sangue. L’instabilità siriana e la possibile spartizione della Siria potrebbero innescare una guerra civile in Turchia e addirittura portare alla spartizione della Turchia stessa. Anche la Giordania sarà consumata dalle fiamme che bruciano la Siria. Se la Siria crolla, gli iraniani hanno espresso un avvertimento inequivocabile a re Abdullah II di Giordania sul suo futuro. Il messaggio di Teheran ad Abdullah II, un despota che arresta coloro che solo parlano negativamente di lui, ma che viene invitato alla Casa Bianca per parlare di democrazia in Siria, è semplice: “È necessario essere consapevoli del fatto che se gli Stati Uniti decidono di entrare in guerra con la Siria, il vostro regno vi sarà trascinato.” Né l’Arabia Saudita o il Qatar saranno risparmiati dalle fiamme che la Casa dei Saud e dei loro rivali al-Thani alimentano per conto dell’amministrazione Obama e d’Israele nei loro tentativi in Siria che potrebbero, infine, innescare una guerra totale in Medio Oriente e oltre.
 
 
 
 

Questo articolo è stato originariamente pubblicato su RT Op-Edge.
Copyright © 2013 Global Research

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IL LUPO GRIGIO AL BIVIO

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Di seguito la copertina del nuovo numero 2/2013 di “Eurasia – Rivista di studi geopolitici” dedicato alla Turchia; la distribuzione è prevista per metà giugno.

Schermata 2013-06-02 a 12.15.48 AM

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LA STORIA DELLE ARMI CHIMICHE VUOL NASCONDERE LA SCONFITTA DEI “RIBELLI”

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La tempistica dei ripetuti attacchi di Tel Aviv alla Siria, nel maggio 2013, e l’avvio di un’altra serie di accuse e tensioni tra il governo turco e la Siria, e le conseguenti autobombe nella città turca di Reyhanli dicono molto. In primo luogo, gli attacchi aerei di Tel Aviv, violando lo spazio aereo libanese, contro l’impianto di ricerca militare siriano nella città di Jamraya, che si trova nella galassia urbana di Damasco, chiarisce il ruolo di Israele nel destabilizzare la Siria. Israele agisce essenzialmente come aviazione dell’insurrezione. In secondo luogo, le accuse della Turchia contro la Siria sono parte della campagna di demonizzazione del governo turco contro Damasco, usata per giustificare l’atteggiamento aggressivo della Turchia contro i siriani.

Gli attacchi israeliani di maggio seguono un attacco simile all’inizio del 2013, a gennaio. L’attacco è stato giustificato come azione per impedire l’arrivo di un convoglio in Libano per consegnare  missili iraniani all’ala militare di Hezbollah. Queste offensive israeliane in Siria riguardano sia la raccolta di informazioni per le forze a terra e, secondo il governo siriano, sia la collaborazione israeliana con le forze antigovernative che combattono in Siria. Israele ha anche incrementato la presenza militare sulle alture del Golan. A parte i suoi aviogetti, Israele ora ha apertamente detto di aver inviato truppe, spie, veicoli e droni in Siria. E’ coinvolto nel supporto dell’insurrezione. Tel Aviv è stato anche colto a spiare la marina russa nel porto mediterraneo di Tartus, dove tre grandi dispositivi galleggianti per la trasmissione elettronica sono stati trovati al largo di un’isola, per  monitorare le navi russe.

Le offensive israeliane inoltre illuminano il ruolo centrale di Washington nell’organizzazione dell’assedio e della guerra segreta contro i siriani mediante ascari e fantocci. Il coinvolgimento di Tel Aviv in Siria è coordinato dall’amministrazione Obama. Il commento di Barak Obama sugli attacchi israeliani ne dava immediato sostegno. Il presidente degli Stati Uniti ha detto alla rete Telemundo che gli israeliani sono giustificati nell’aggredire la Siria e che gli Stati Uniti si coordinano con Tel Aviv contro il governo siriano. Inoltre, gli attacchi aerei israeliani si sono avuti dopo le riunioni tra i membri dei gabinetti Obama e Netanyahu. Ancor prima, il presidente Obama aveva visitato Israele per ricucire i rapporti tra Israele e Turchia, per far sì che entrambi gli alleati degli Stati Uniti coordinassero i loro sforzi contro i siriani.

 

 

 

Il coordinamento militare israeliano e turco contro la Siria

Gli attacchi aerei israeliani contro Jamraya appaiono una provocazione calcolata, volta a istigare le ostilità utilizzando la risposta siriana come pretesto per la guerra. Non dovrebbe sorprendere che dopo l’attacco di Israele su Jamraya, Turchia e Israele abbiano lanciato esercitazioni militari sui rispettivi confini con la Siria, nel caso d’Israele questi comprendono le alture del Golan, territorio siriano occupato. Mentre i movimenti militari di Israele e Turchia, che sono stati presentati come esercitazioni separate, difatti erano dei coordinati pre-posizionamenti militari da parte dei due alleati. Inoltre, gli Stati Uniti e un gruppo di loro alleati hanno iniziato delle esercitazioni militari al largo delle coste iraniane, nel Golfo Persico, allo stesso tempo. L’atteggiamento militare era volto  sia ad intimidire la Siria che i suoi alleati regionali, a non reagire militarmente contro gli attacchi israeliani o di aspettarsi che una risposta militare siriana apra la porta all’attacco congiunto israeliano e turco alla Siria o a un conflitto regionale che potrebbe coinvolgere gli alleati della Siria,  Iran e Libano. Nonostante il fatto che l’Iron Dome si sia dimostrato inefficace nei combattimenti d’Israele a Gaza, nel 2012, e sia stato quindi chiamato il “Duomo di carta” per beffa, gli israeliani hanno inoltre dichiarato lo stato di allerta e inviato due delle loro batterie antimissile Iron Dome verso i confini libanesi e siriani.

 

 

 

Narrazioni contorte 

La Turchia ha giocato un gioco simile nelle sue aree di confine con la Siria, compresi scambi di artiglieria turca e siriana. Il governo turco ha invano cercato di galvanizzare l’opinione pubblica turca nel sostenere le sue impopolari politiche ostili alla Siria. In entrambi i casi, la vera vittima, la Siria, è stata trasformata nell’aggressore, mentre i colpevoli vengono presentati come vittime. L’attacco d’Israele contro la Siria viene presentato come un atto puramente difensivo dai suoi fautori. Tale narrazione non coglie il punto che Israele ha apertamente detto di esser coinvolto nel conflitto in Siria per la ragione strategica di danneggiare la Siria e minare gli iraniani e i loro alleati regionali. C’è un errore d’inversione della logica qui, perché la narrazione israeliana ignora il fatto che eventuali ipotetici invi di armi iraniane ad Hezbollah sono il risultato diretto della continua aggressività d’Israele verso il Libano. Hezbollah, che significa “Partito di Dio” in arabo, non è stato creato per distruggere Israele, l’organizzazione libanese è stata creata con il sostegno dell’Iran con l’obiettivo di difendere il Libano dalle aggressioni israeliane, dopo diversi anni di occupazione israeliana del Libano. Vale la pena notare che l’invasione e l’occupazione israeliana del Libano veniva giustificata da Tel Aviv con la scusa di scacciare l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), ma ciò continuò anche dopo che l’OLP lasciò il Libano.

Nel caso della Turchia, i siriani non hanno cercato di istigare un conflitto con la Turchia. Il governo dell’AKP di Turchia ha sostenuto attivamente il terrorismo contro la Siria, permettendo alle forze straniere di utilizzare il suolo turco per l’infiltrazione e come base logistica. Questo, però, non ha fermato il governo turco dall’incolpare delle autobombe di Reyhanli la Siria, subito dopo le esplosioni e senza nemmeno condurre un’indagine adeguata. Il primo ministro Erdogan e il suo governo non riconoscono nemmeno la maggiore probabilità che le bombe siano state piazzate dai loro stessi alleati, che combattono contro il governo siriano. Qualcuno chiamerebbe gli attentati di Reyhanli una specie di “ritorno di fiamma”, mentre altri non hanno escluso la possibilità di una “false flag” perpetrata per incastrare la Siria. In realtà, si scopre che i funzionari turchi sapevano  che gli attentati terroristici stavano per essere effettuati. Redhack, un gruppo di attivisti hacker turchi, ha diffuso una serie di cabli che rivelano che l’intelligence della gendarmeria di Ankara,  responsabile verso il Ministero degli Interni della Turchia, fosse consapevole che gli attentati di Reyhanli stavano per avere luogo.

 

 

 

Il motivo di fondo delle nuove pressioni: l’insurrezione è stata sconfitta

Una nuova equazione è entrata in vigore. A causa della sconfitta degli insorti, la pressione esterna viene ora applicata per sostituire la calante pressione interna sulla Siria. In questo contesto, le mosse israeliane e turche sono parte di una strategia coordinata e orchestrata da Washington contro la Siria. Gli attacchi israeliani e le autobombe terroristiche in Turchia servono a rinnovare le pressioni straniere sulla Siria e l’escalation della retorica interventista contro Damasco. Questa è una diretta conseguenza delle gravi sconfitte che le forze anti-governative hanno subito in Siria. Tutto il rumore sull’uso di armi chimiche da parte del regime siriano proviene da funzionari e media ufficialisti statunitensi, canadesi, israeliani, europei occidentali, turchi, sauditi e qatarioti nell’ambito di questo nuovo rimescolamento… le voci sull’uso di armi chimiche in Siria e le sfacciate accuse di Ankara circa il sostegno siriano al terrorismo al confine turco, nascondono la ritirata delle milizie anti-governative.

Le accuse sull’uso di armi chimiche e gli eventi che coinvolgono Israele e Turchia servono, inoltre, da nuove variabili in mancanza di una strategia di Washington verso la Siria. Queste nuove variabili forniscono a Washington una leva nelle trattative con gli alleati della Siria, in particolare la Russia e la Cina, e una maggiore flessibilità di azione nella guerra segreta in Siria. In un modo o nell’altro, hanno anche aperto la porta a nuove possibilità all’obiettivo del cambio di regime in Siria e fornendo maggiore spazio a Washington nel contrattare vantaggi politici in Siria.

 

 

 

Chi usa armi chimiche in Siria?

Il governo siriano si è rivolto alle Nazioni Unite sull’uso di armi chimiche da parte delle forze ribelli. Ha chiesto un’indagine formale delle Nazioni Unite. A sua volta, riprendendo l’assai poco originale farsa delle ispezioni sulle armi delle Nazioni Unite contro l’Iraq di Saddam Hussein, l’amministrazione Obama e i suoi alleati lavorano a politicizzare le indagini delle Nazioni Unite per darne la colpa al governo siriano. Questo è uno dei motivi per cui gli Stati Uniti e i loro alleati hanno scelto d’impedire alla Russia d’inviare ispettori in Siria. Nonostante il fatto che le armi chimiche siano state usate contro i sostenitori del governo nelle zone controllate dal governo, i ribelli e i nemici della Siria cercano d’incolpare Damasco per gli attacchi chimici. I siriani hanno accusato i ribelli e i loro sostenitori stranieri di aver deliberatamente usato armi chimiche in Siria per creare il pretesto per una guerra diretta dalla NATO contro il loro Paese. Sono stati accusati anche la Turchia e Israele. Lawrence Wilkerson, ex capo dello staff del segretario di Stato Colin Powell, ha anche detto, durante un’intervista a Current TV, che l’uso di armi chimiche in Siria potrebbe essere il risultato di un’operazione false flag, che avrebbe potuto essere stata eventualmente perpetrata da Israele.

Anche se le Nazioni Unite sono per lo più acquiescenti verso le richieste degli Stati Uniti contro la Siria, hanno respinto le accuse sulle armi chimiche contro Damasco. La Commissione d’inchiesta internazionale indipendente sulla Repubblica araba siriana, un corpo investigativo dell’ONU che è stato istituito dall’Ufficio dell’Alto Commissario per i Diritti Umani  delle Nazioni Unite, ha rivelato che secondo i suoi accertamenti risulta che in Siria sia stato utilizzato gas Sarin dalle forze anti-governative e non dal governo siriano. Ciò è troppo scomodo per Washington. Gli Stati Uniti hanno immediatamente respinto le valutazioni delle Nazioni Unite, mentre la NATO si è affrettata a minare il rapporto dicendo di essere scettica verso i risultati delle Nazioni Unite. Invece gli Stati Uniti e i loro alleati hanno supportato una risoluzione il 15 maggio 2013 contro la Siria  all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, che in sostanza ha visto gli Stati Uniti e i loro alleati e fantocci, votare contro la Siria, e tutti i Paesi dalla politica estera indipendente votare contro o astenersi. E’ in questo quadro che l’amministrazione Obama ha detto che l’uso di armi chimiche è una “linea rossa” per l’intervento degli Stati Uniti. Il governo degli Stati Uniti ha anche pubblicamente esortato la NATO a riconsiderare il suo ruolo in Siria, sulla base delle accuse da parte di Israele, Gran Bretagna, Turchia, Francia e dell’amministrazione Obama sull’uso di armi chimiche da parte del governo siriano. La situazione di stallo tra i principali alleati della Siria e gli Stati Uniti, tuttavia, rende l’intervento militare diretto del Pentagono e della NATO una proposta difficile, pericolosa e improbabile. La creazione di una nuova task force mediterranea della Russia, attraverso il dispiegamento permanente di un contingente di navi da guerra della Flotta del Pacifico russa nel Mar Mediterraneo, è volto ad impedire l’intervento militare degli Stati Uniti e della NATO in Siria.

Il fiasco delle armi chimiche viene usato per giustificare ulteriori aiuti degli Stati Uniti agli insorti, invece della guerra diretta che elementi del tipo Coalizione Nazionale siriana, i petro-sceiccati arabi, i neo-con e l’Istituto di Washington per la Politica del Vicino Oriente hanno promosso come cheerleaders. La sconfitta degli insorti ha avviato una nuova serie di piani contro la Siria e i suoi alleati. Anche mentre il segretario di Stato John Kerry parla con il suo omologo russo, Sergej Lavrov, di organizzare una seconda conferenza di pace in Siria a Ginevra, gli Stati Uniti dichiarano che si preparano ad armare i ribelli… sul modello delle accuse che spianarono le mosse anglo-francesi contro la Libia utilizzate per scatenare la guerra imperialista di Washington alla Libia, le accuse sulle armi chimiche usate dagli Stati Uniti e dai loro alleati contro il governo siriano agiscono da cortina fumogena per porre fine all’embargo dell’Unione europea sulle armi alla Siria. Stati membri dell’Unione europea effettivamente invieranno armi ai ribelli in Siria sulla base di queste accuse.

 

 

 

http://www.strategic-culture.org/pview/2013/05/31/chemical-wmd-story-is-being-used-cover-rebel-retreat-syria.html

 

 

Traduzione di Alessandro Lattanzio

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PERÙ: IL DIFFICILE EQUILIBRIO TRA L’ACQUA E L’ORO

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Un Paese “mega-diverso”

Il Perù è uno dei dieci Paesi “mega-diversi” per ricchezza biologica e di specie viventi, il quarto per estensione di foreste tropicali al mondo e che presenta 11 ecoregioni e 28 dei 32 climi esistenti in natura. Possiede 12201 laghi e lagune e 1007 fiumi e rii e che superano nel complesso i 14000 chilometri di lunghezza di vie fluviali (di cui 4000 sono commercialmente navigabili). Questo paese andino è anche il secondo produttore mondiale di rame (dopo il Cile), di zinco (dopo la Cina), terzo produttore di argento e sesto di oro.

Tali dati celano le enormi potenzialità del settore ortofrutticolo, della pesca ed agricolo in generale; cifre ancora poco conosciute, ma che sono la fonte di quel 6,3% di crescita annuale media che dura da più di un decennio (dal 2000) e che ha fatto meritare al paese l’epiteto di “estrella fulgorante” (stella sfolgorante). Ça va sans dire che lo sviluppo del settore minerario è una componente fondante di tale crescita. Un settore che è fiore all’occhiello ed allo stesso tempo è al centro e causa di grandi conflitti e polemiche che sarebbe oltremodo riduttivo stigmatizzare in un’antitesi tra ambientalisti integralisti retrogradi ed intrepidi promotori dello sviluppo minerario. Per cercare di comprenderne le ragioni ed in secondo luogo, analizzare l’impronta alle relazioni internazionali data dal governo Humala, bisogna immergersi innanzitutto in un contesto “ricco”, anche questo, di paradossi e “doppi discorsi”.

 

 

Dei paradossi

Quello che queste cifre sfolgoranti non permettono di cogliere è, come spesso accade, la realtà fisica del paese e lo svolgersi della vita reale della popolazione.

In una superficie estesa quattro volte quella italiana, in un territorio che la geografia naturale impone di distinguere nelle tre regioni di costa, sierra (ovvero catena delle Ande) e selva (ovvero in prevalenza foresta amazzonica), dei più di 30 milioni di abitanti, circa un terzo vive a Lima. La capitale rappresenta di fatto il concentrato della “mega-diversità” sociale ed umana del paese: città di pueblos jovenes (corrispondenti alle più note favelas brasiliane) senz’acqua né strade e quartieri chiusi formati da ville con piscina. Ma soprattutto Lima, sede di un potere fortemente accentrato, che sa sfruttare a suo vantaggio le distanze fisiche e la diseguale distribuzione della popolazione: rispetto a Lima, “il resto” del paese è costituito da cifre da gestire, indigeni e campesinos (1), che risultano realtà lontane e poco conosciute dal nucleo dell’opinione pubblica e dell’elettorato.

Di tutte le suddette migliaia di laghi e fiumi, vi è solo il 2% di disponibilità di acqua nella costa, fortemente desertica e che paradossalmente rappresenta la regione in cui si concentra l’attività agricola e la restante popolazione. Un paradosso che è conseguenza della conformazione del territorio unita allo scarso sviluppo di un’adeguata rete infrastrutturale , che rende ancora moltissimi pueblos (centri abitati della sierra e della selva) difficilmente accessibili, condannandoli di fatto ad un’attività agricola per lo più di sussistenza o destinata ad un limitato mercato locale.

I dipartimenti (corrispondenti amministrativi delle nostre regioni) che occupano i primi posti quanto ad investimenti nell’industria mineraria, sono anche quelli che registrano i tassi più elevati di povertà e di denutrizione infantile. Tra questi si evidenzia Cajamarca, distretto andino del Nord, il cui 44,9% del territorio risulta sotto concessione mineraria: primo dipartimento per produzione di oro nel paese ed in cui il tasso di incidenza della povertà è superiore al 53%, quello di denutrizione infantile è del 37,6% e vi è ancora un 14,1% di analfabetismo (2).

 

 

Dei conflitti nel settore minerario

In questi paradossi evidenti si celano le cause primarie di una conflittualità elevatissima. Lo scorso aprile, nel suo rapporto mensile, la Defensoria del Pueblo ha denunciato l’esistenza di 229 conflitti tra attivi e latenti. Di questi conflitti 175 risultano attivi, ed il 72,6% (ossia 127) appaiono di natura socio-ambientale (3). Risulta quasi superfluo precisare che la maggior parte di tali conflitti (il 70,9%, ossia 90 casi) è relazionato con l’attività mineraria e presenta una forte correlazione con tematiche legate all’acqua.

Ma in cosa si traducono, nel concreto, tali conflitti? Quale incidenza hanno nel paese e nel guidare poi le mosse internazionali del potere centrale?

Una situazione emblematica è rappresentata dal cosiddetto “caso Conga”, sviluppatosi appunto nella regione di Cajamarca, su cui da anni indugia l’attenzione dei media e dell’opinione pubblica del paese, spaccata su un estremizzato “Conga va” – “Conga no va” e su cui gli investitori internazionali tengono gli occhi puntati. 

Con il progetto minerario Conga l’impresa Yanacocha, joint venture tra la statunitense Newmont (53,35%), la compagnia Buenaventura (43,65%) e la Corporazione finanziaria internazionale (5%), vorrebbe realizzare uno sfruttamento prevalentemente aurifero senza precedenti: un totale di duemila ettari in concessione ed un investimento totale di 4800 milioni di dollari. Ora, il progetto, annunciato nel 2004 e per cui già si erano realizzate la fase previa di esplorazione e di valutazione di impatto ambientale del sito, si trova in una fase di stallo. Il progetto Conga dovrebbe infatti svilupparsi all’interno di un delicato ecosistema di cento ettari di “zona umida”, alla sorgente di cinque bacini idrografici e nella quale sono presenti quattro lagune, che verrebbero irrimediabilmente danneggiate: il progetto prevedrebbe due tagli aperti, uno dei quali di 2 km di larghezza ed 1 km di profondità, sopra la laguna Perol, mentre la laguna Azul si convertirebbe sostanzialmente in una discarica di rifiuti, accogliendo le 92000 tonnellate di rocce al giorno prodotte per 17 anni. In definitiva, le lagune verrebbero rimpiazzate da delle cisterne di acqua.

Quanto detto è solo uno degli aspetti critici del progetto che nel complesso modificherebbe irrimediabilmente l’ambiente, la fauna, l’agricoltura e quindi la vita di gran parte della popolazione cajamarquina – che nel novembre 2011 si rese protagonista di una forte protesta che portò ad una paralisi totale di qualsiasi attività. Da allora, in estrema sintesi, il conflitto si è giocato tra richieste di nuove perizie, perizie fortemente critiche sulla fattibilità del progetto (svolte da idrogeologi internazionali super partes), tentativi di discredito di tali documentazioni, alternate a vere e proprio opposizioni allo studio di impatto ambientale dei progetti. La conseguenza sono state marce di protesta degenerate in violenza che ha provocato diversi morti e richiesto l’intervento delle forze armate – intervento rafforzato dalla proclamazione a più riprese dello stato di emergenza. 

Ad oggi, la situazione resta ambigua: non esiste l’ufficialità né della fattibilità del progetto, né della sua sospensione, ma a discapito delle ronde campesine di vigilanza (che dovrebbero impedire l’intraprendere di ulteriori attività sul sito), Yanacocha rimane positiva ed annuncia la costruzione di una prima cisterna – rafforzando tale posizione con l’acquisizione di macchinari necessari allo sviluppo del nuovo sito.

 

 

Della semplificazione e del doppio discorso del governo

Davanti a questo complesso banco di prova, ciò su cui sembra puntare il governo di Ollanta Humala è la semplificazione. A livello interno, complici il suddetto paradosso di una diseguale distribuzione della popolazione, con l’ausilio dei media non è difficile placare gli animi ed in particolar modo il dissenso degli abitanti della capitale (limegni) che, come detto precedentemente, rappresentano un terzo dell’intera popolazione peruviana. Questi, fisicamente distanti dal problema, sono assediati da (dis)informazione mediatica: chi ha posizioni ostili a Conga viene spesso dipinto in toto come un “anti-minero” o come un ambientalista integralista fermo su convinzioni retrograde colpevoli, per gli analisti governativi, di:

–       Generare perdite di 350.000 dollari al giorno;

–       perdita e mancata generazione di posti di lavoro;

–       danni al turismo nella regione.

Tali argomentazioni, unite alla campagna mediatica, hanno la loro efficacia: mentre il 78% dei cajamarquini si oppone al progetto, il 54% della popolazione totale peruviana si pronuncia come favorevole (4).

A partire dall’inizio della paralisi (novembre 2011) ad oggi il Presidente Humala ha continuato a svolgere un pacato doppio discorso, ripetendo come un mantra il suo rifiuto a  posizioni estreme che vedono “o l’acqua o l’oro” e che può coesistere “Y el agua Y el oro”.

Da un lato si mostra in abiti campesini in visita alle popolazioni di Cajamarca, dall’altro continua il dialogo con Yanacocha, la quale, nonostante le minacce di considerare alternative di investimento in Nevada, Australia, Ghana o Indonesia, sembra difficile che abbandoni i suoi interessi in Perù.

A chi accusa Humala di aver abbandonato le posizioni critiche nei confronti dei progetti minerari di Cajamarca (tenute durante la campagna elettorale), il presidente risponde rinnegando ogni tipo di affermazione in sentore “antiminero”, pronunciata prima del 28 luglio 2011 e ribadendo fermamente il concetto “Y el agua Y el oro”.

Come tecnicamente sia possibile raggiungere la coesistenza di questo binomio (acqua e oro) è difficile immaginarlo, se non mettendo in conto danni irreparabili all’ambiente. Ma appare evidente che questo è un costo che l’esecutivo stima sostenibile in rapporto allo sviluppo minerario ottenibile. Tale settore, nel 2012 ha rappresentato il 10% del PIL del Paese con un flusso di investimenti provenienti dall’estero di 8569 milioni di dollari (principalmente da Stati Uniti, Svizzera, Canada e Cina), senza contare le cifre generate dal pagamento dei canoni di esplorazione, sfruttamento dei siti ed altre spese di partecipazione imposte a tutte le compagnie minerarie senza distinzione. Da parte sua, l’esecutivo peruviano prevede lo stanziamento di 53000 milioni di dollari in progetti minerari, ponendo ancor più in evidenza l’importanza che vuole dare a tale settore.

Il governo conferma quindi la sua totale apertura ed accoglienza degli investimenti stranieri e la buona coesistenza con quelli nazionali nello stesso settore. Il tutto viene accompagnato da ulteriori semplificazioni: riduzione delle barriere d’ingresso al mercato minerario con l’obiettivo di ampliare la lista dei suoi partner (tra questi – i già citati Stati Uniti, Svizzera, Canada e Cina e – dal 2012 – l’UE) con cui è firmatario di importanti trattati di libero commercio. D’altra parte, in un Paese in cui nella bilancia commerciale la voce esportazioni costituisce il 29% del PIL ed il 56% di esse ha origine mineraria, la linea è già tracciata. Ecosistemi, lagune millenarie, popolazioni locali ed ambientalisti radicali possono solo retrocedere: la  estrella fulgorante prosegue il suo cammino di crescita aurea.

 

*Laura Sesenna ha una laurea triennale in Giurisprudenza a Genova ed una laurea specialistica in Relazioni internazionali presso l’Université Catholique de Louvain. Ha lavorato per un anno a Lima con Fedepaz, ONG di avvocati impegnati nella difesa dei diritti umani e del diritto dell’ambiente.

 

 

(1)   I “campesinos” sono i contadini, coloro che vivono dell’attività di agricoltura e pastorizia; normalmente vivono in comunità, nelle Ande, ed hanno un forte sentimento identitario di appartenenza al gruppo ed un vivo legame con la terra.

(2)   11° Observatorio de conflictos mineros en el Perú, Reporte segundo semestre, dic. 2012, CooperAccion, Fedepaz, Grufides. http://www.muqui.org/index.php?option=com_content&task=blogsection&id=14&Itemid=16

INEI, Instituto Nacional de Estadística e Informática: http://www.inei.gob.pe/web/PeruCifrasDetalle4.asp

(3)   Reporte mensual de conflictos sociales n°110, Defensoría del pueblo, apr. 2013:

http://www.defensoria.gob.pe/modules/Downloads/conflictos/2013/Reporte-Mensual-conflictos-Sociales-110-Abril-2013.pdf

(4)   11° Observatorio, cit. “El 54% de los peruanos aprueba ejecución del proyecto minero Conga”, El Comercio, 2 mag. 2012: http://elcomercio.pe/economia/1409351/noticia-54-peruanos-aprueba-ejecucion-proyecto-minero-conga

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IL RAPPORTO TRA ISLAM E POLITICA NELLO SPAZIO POSTSOVIETICO

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Il processo di rinascita islamica nell’Urss prima, nella Federazione russa e Csi (Comunità di Stati Indipendenti) poi, è stato un fenomeno oggettivamente rilevante che si è manifestato a partire dagli inizi degli anni ‘90. Più precisamente, spiegano i curatori russi del volume Islam e politica nello spazio post-sovietico, si dovrebbe parlare di «restaurazione del ruolo dell’islam nella comunità»[1] perché l’islam in quest’area non sarebbe mai morto, nonostante la forte campagna di ateizzazione promossa dal governo sovietico nella sua settantennale esistenza. A partire dal decreto “Separazione della religione dallo Stato e dalla scuola” del 1918, infatti, il sistema di educazione religioso e le strutture cultuali furono destituite di legittimità, limitate nella loro attività, e migliaia di moschee furono distrutte.[2] I contribuiti pubblicati in questo studio offrono materiale di analisi sufficiente per comprendere la portata di tale fenomeno in aree dell’Asia Centrale come quella caucasica e quella del Turkestan comprendente  paesi come Kazakistan, Kirghizistan, Uzbekistan, Turkmenistan. I due autori, Sergej Filatov e Aleksej V. Malashenko, datano l’inizio di tale processo generale di rivitalizzazione dei movimenti religiosi nel 1988, data in cui si festeggiò il millennio del battesimo della Rus’ con la conversione del principe Vladimir I di Kiev (958-1015 d.C.) e in seguito alla quale tutto il popolo russo venne convertito. Tale circostanza eccezionale avrebbe segnato da un punto di vista cronologico un allentamento delle persecuzioni religiose con un cambiamento della posizione del governo sull’ortodossia che si rifletté anche sulla situazione dei musulmani presenti sul grande suolo sovietico.[3] Una tale spiegazione evenemenziale di un processo così imponente si mostra insufficiente se non correlata ad almeno due fenomeni determinanti l’autocoscienza dei musulmani di area sovietica e post-sovietica. Da un lato il periodo della perestrojka gorbacioviana avrebbe determinato da un punto di vista politico-culturale la rinuncia all’ateizzazione forzata (e quest’aspetto è riconosciuto dagli autori); dall’altro tale processo di rinascita islamica si deve inscrivere all’interno di un più vasto quadro politico-culturale di rivalorizzazione ideologica dell’identità religiosa musulmana all’interno dell’Oriente in generale. A tale ultimo processo si può attribuire il nome di Rinascita islamica, le cui cause non possono essere ascritte a fattori religiosi immanenti al mondo musulmano, quanto piuttosto alla situazione ideologica e geopolitica mondiale. Secondo il politologo statunitense Samuel Huntington «ignorare le conseguenze della Rinascita islamica sul quadro politico dell’emisfero orientale di fine XX secolo significa ignorare l’impatto avuto dalla Riforma protestante sulla politica europea del tardo XVI secolo».[4]

Relativamente all’area postsovietica le cause di tale fermento religioso non sono solo di ordine demografico.[5] Da non sottovalutare è il fenomeno di «liberalizzazione ideologica nel paese»[6] dopo il 1989 attraverso la quale organizzazioni di islamisti non conformisti, cioè ostili al regime, percepirono se stessi come soggetti politici legittimati a promuovere rivendicazioni islamiche. A questo tipo di rivendicazioni di carattere culturale-religioso si sovrappose un aspetto etnico che poté manifestarsi talvolta in modo pacifico, come le moschee kazake e kirghise che operano per l’uno o l’altro dei gruppi etnici della popolazione,[7] oppure in modo destabilizzante scatenando processi in cui il separatismo etnico coincide con il settarismo confessionale, come nella prima e seconda guerra cecena (rispettivamente 1994-96, e 1999-2009). Fondamentale presupposto geopolitico dell’analisi degli autori è che «la rinascita islamica in Asia centrale è anche un fattore centrifugo e di tensione verso un consolidamento etnico».[8] Alla luce di questi aspetti non si può che rimanere stupiti dall’opinione dello storico dell’Europa Orientale Andreas Kappeler, secondo cui durante la fase della perestrojka «nell’Asia Centrale non apparvero movimenti nazionali o islamici».[9] Il fenomeno di rinascita islamica nell’area post-sovietica sarebbe infatti già stato attestato dall’orientalista Gilles Kepel nel suo noto La Revanche de Dieu (1991), in cui si trovava scritto che «gli anni Settanta hanno portato alla ribalta i movimenti islamici, dalla Malesia al Senegal, dalle repubbliche musulmane sovietiche alle periferie europee popolate da milioni di musulmani immigrati».[10]

La rinascita islamica nello spazio post-sovietico ricostruita dagli autori si svolge attraverso momenti e dinamiche diversi relativamente alla configurazione storico-politica peculiare delle regioni sovietiche. Da un punto di vista più unitario il fenomeno si caratterizza per una prima fase, databile in modo indicativo dal 1988 al 1991, che consiste nella riattivazione dell’islam sommerso favorito dal processo di democratizzazione. In questa prima fase ha inizio la restituzione delle moschee, la fondazione di associazioni musulmane, di scuole domenicali presso le quali si poteva studiare il Corano e una riabilitazione delle ricorrenze religiose pubbliche. In questa fase la rinascita avvenne certamente a causa di un allentamento della politica ideologica sovietica, ma rimase ancora estranea alla politica ufficiale.

La seconda fase avrebbe inizio proprio con la dissoluzione dell’Unione Sovietica nel 1991. La trasformazione dell’Urss in Federazione Russa portò alla nascita di una pluralità di realtà regionali in cui l’islam venne assunto come parte integrante, e in alcuni casi determinante, degli elementi ideologici di indipendentismo politico. In questa fase l’islam poté ricevere una legittimazione formale perché ebbe una funzione strumentale e al contempo palingenetica rispetto al rafforzamento delle identità nazionali. All’interno di questa legalizzazione della partecipazione dell’islam alla vita politica iniziarono ad emergere anche gruppi fondamentalisti che avrebbero avuto sempre più manifestamente lo scopo di fondare uno stato islamico all’interno della Csi. Questo fu il fine ultimo di numerosi movimenti islamisti e indipendentisti come il gruppo armato indipendentista ceceno Jama’at assieme al programma presentato da Maskhadov alle elezioni presidenziali del 1997 che prevedeva la costituzione di uno «stato ceceno islamico»,[11] oppure la sezione tagika del Partito islamico della Rinascita (Ipv), i wahabiti penetrati nel Daghestan o l’associazione Badiozman in Uzbekistan. In questa fase di cooptazione dell’islam più moderato all’interno delle ideologie ufficiali, le classi dirigenti post-sovietiche agli inizi degli anni ‘90 scoprirono nell’islam un «potenziale di stabilizzazione della società».[12] Tra il 1989 e il 1990 in Uzbekistan, per esempio, il numero delle moschee aumentò da 84 a 250, le feste religiose tra il 1990-91 vennero dichiarate festività ufficiali e la “luna di miele” tra l’islam e il governo uzbeko in seguito all’efficacia delle dimostrazioni di piazza nella capitale Taškent per chiedere le dimissioni del muftī Babachanov, che presiedeva la Dum (Direzione spirituale dei musulmani dell’Asia Centrale), accusato di essere filo-russo.[13] In seguito la “luna di miele” finì con un dualismo in seno alla comunità musulmana provocato dalla scissione all’interno della Direzione dei musulmani dell’Uzbekistan, che operava un controllo degli ulema volto a saldarli al potere, di musulmani non conformisti che rivendicarono una propria posizione politica contro le autorità laiche. Questo conflitto porterà all’estromissione del muftī Muhammad-Yusuf con l’imam Abdullaev, ligio al presidente Karimov. In particolare la guerra civile tagika fu un segnale che destò numerose preoccupazioni circa l’apertura e l’istituzionalizzazione di organizzazioni islamiche. Come mostra il caso tagiko, la distensione dei rapporti tra governi e organizzazioni islamiche lasciò ben presto spazio ad una terza fase in cui il “fattore islam” si rovesciò in un potenziale di destabilizzazione. Nel maggio del 1992 il governo tagiko diede inizio a persecuzioni contro il Partito della rinascita islamica del Tagikistan (Pivt) che, pur avendo un programma economico di tipo «capitalista allo stato puro»,[14] godeva dell’appoggio di gruppi fondamentalisti della regione del Kuljab.[15] Il conflitto si risolse a favore del governo a causa della scissione in seno al blocco islamico-moderato relativamente a questioni di politica estera: se gli islamisti tagiki erano legati ai confratelli islamisti uzbeki attraverso il legame sovranazionale della umma, l’ala nazionalista del blocco di opposizione tagiko non favorì l’unità con gli islamisti uzbeki. L’interesse geopolitico russo per la regione tagika a forte rischio di instabilità fu determinante per l’intervento della 201esima divisione della fanteria russa.

La terza fase di questo fenomeno di Rinascita islamica, che è scaturita da drammatiche crisi come quella tagika, è definita dagli autori come fase di “delusione” per l’islam ed è collocata tra la fine del 1992 e il 1996. Si fece crescente il timore che all’interno delle regioni post-sovietiche potesse avere inizio «una nuova perestrojka, ma questa volta orientata verso i regimi musulmani conservatori del vicino Oriente».[16] È bene ricordare che all’interno del sunnitismo, comprendente circa il 90% dell’intero insieme di musulmani, vi sono quattro scuole giuridico-religiose (madhhab) che si caratterizzano per diversi orientamenti rispetto alla sharīʿah e alla giurisprudenza islamica (fiq): Malikismo, Sciafeismo, Hanafismo e Hanbalismo. Se infatti è vero che la parte assolutamente maggioritaria dei musulmani nella regione centroasiatica del Turkestan ha professato per parecchi secoli l’islam sunnita di scuola hanafita, tradizionalmente più aperto a possibilità di innovazione, la studiosa Marija Malashenko osserva che «i predicatori del Vicino Oriente, dell’Arabia Saudita, degli Emirati arabi cercano di diffondere in Uzbekistan l’islam del madhhab più radicale, quello hanbalita».[17] In queste aree post-sovietiche l’islamismo, in particolare quello wahabita e hanbalita, costituisce un fattore destabilizzante per i governi che si caratterizzano per un élite politica educata secondo una forma mentis sovietica, e da un punto di vista culturale-religioso esso si presenta come un elemento allogeno rispetto alle forme sincretiche di religione musulmana.

Nell’area kazaka e kirghisa, per esempio, si conservano credenze preislamiche e culti locali talvolta ereditati dall’antica religione protomonoteistica;[18] «in tutte le regioni del Tagikistan – scrive Aziz Nijazi – si conservano riti preislamici, venerazione di santi e di sante, fede nella magia e nei prodigi».[19] Questo insieme di ragioni politico-culturali giustificavano la preoccupazione degli ulema kazaki e kirghisi verso la predicazione di imam stranieri, soprattutto degli Stati arabi, distinta per un forte radicalismo.[20] Già alla fine degli anni ‘80 in Tagikistan, a seguito di una lettera contenente osservazioni su problemi religiosi e socio-politici inviata dal mullah S. A. Nuri al XXVII congresso del Pcus, il governo decise di intervenire con misure repressive contro gruppi islamisti e proibendo pubblicazioni sovversive come quelle dei loro teorici: Sayyid Qutb in primis assieme a suo fratello Muhhammad, ma anche al-Qardawi, Mawdudi, al-Banna e al-Afgani.[21] Indicativo di tale potenziale di destabilizzazione dei gruppi islamisti fu per esempio la posizione del presidente ceceno Maskhadov che, un anno dopo il suo annuncio di creazione di uno “stato ceceno islamico”, si dovette render protagonista, insieme al muftī della repubblica cecena, di una «massiccia campagna di discredito dei wahhabiti, come portatori di un’ideologia estranea al popolo, agenti di servizi segreti e avventurieri politici, orientati a portare la Cecenia ad una nuova guerra con la Russia».[22] All’interno delle repubbliche postsovietiche i governi, in questa terza fase di “delusione” del processo di Rinascita islamica, dovettero reagire a forme di proselitismo proveniente da aree sunnite e fomentato dal capitale saudita di quelli che Kepel definì come «banchieri della reislamizzazione».[23]

Ai fini di una comprensione del carattere potenzialmente destabilizzante dell’islamismo e della sua strumentalità rispetto a rivendicazioni etniche, particolare attenzione in questo volume merita il secondo capitolo di Aleskey Kudrjavcev dedicato alla situazione caucasica e alla genesi della prima guerra cecena. Lo studioso rileva come nell’attuazione di una politica unilateralmente separatista del generale ceceno Dudaev «il fattore islamico giocò un ruolo primario».[24] Dudaev nel 1993 rilanciò l’appello all’islam come strumento di coesione nazionale cecena e per questo fu perfino difeso dai suoi sostenitori come imam,[25] all’interno di una regione dove il processo di islamizzazione dal basso era già in atto. Nel giugno del 1990, infatti, venne fondato il Partito islamico della Rinascita (Ipv) composta da membri musulmani di varie etnie del Caucaso settentrionale e nello stesso anno comparve il partito “La via dell’islam” dell’imprenditore ceceno Gantamirov. I due partiti erano uniti nel fine dell’instaurazione di uno stato islamico indipendente e della lotta contro il governo ateo sovietico: la lotta contro Mosca venne intesa come jihad.[26] Quella “internazionale islamica” che preconizzava una umma fondata sul riconoscimento di uno jus religionis e sul disconoscimento dei confini etnico-territoriali aveva un unico obbiettivo in aree diverse o, per dirla con ‘Abd al-Salam Faraj, ideologo del gruppo egiziano al-jihad, un unico “imperativo occultato”:[27] combattere il Faraone nei paesi arabi socialisti e l’«Impero»[28] nemico dell’islam nello spazio sovietico, cioè le manifestazioni politiche della jahiliyya contemporanea (l’”ignoranza” dell’insegnamento del Profeta, paragonabile a quella preislamica). In questa fase di lotta dell’islamismo vale quanto scrisse Vatikiotis a proposito dell’aprioristica illegittimità di ogni Stato non fondato sulla hakimiyya (sovranità) di Allah dal punto di vista islamista: «finché i propugnatori dell’islam sosterranno che esiste un ordinamento politico specificamente islamico, essi non riconosceranno mai l’autorità di uno Stato che non si basi sui principi della fede».[29]

La quarta e ultima fase analizzata dagli autori di Islam e politica nello spazio post-sovietico è collocata temporalmente nella seconda metà degli anni ’90 e si caratterizza per la nascita di una prima generazione di «musulmani non sovietici».[30] Alla nascita di questa nuova generazione di credenti corrisponde anche l’emersione di una nuova generazione di ulema che vanno dai 22 ai 27-28 anni e che in questo periodo sono già diverse migliaia. Ciò non implica solo un conflitto generazionale con i vecchi ulama cresciuti e  conformatisi al sistema sovietico, ma avrà anche conseguenze sulle nuove forme di islamizzazione delle società post-sovietiche, orientate verso un islam politicizzato e sempre meno conciliato con le autorità. Uno sguardo panoramico sugli sviluppi politico-religiosi dell’islam nello spazio post-sovietico negli anni ’90 ci consente di individuare in Cecenia e Daghestan il focolaio dell’attivismo islamico russo, in Tagikistan e in Uzbekistan (con particolare riferimento all’area del Fergana ad est) quello dell’Asia Centrale. Significativa in questa dinamica era la tattica politica espressa D. Usmon, ideologo dell’opposizione islamista tagika ed ex membro della direzione del Partito islamico della rinascita (Ipv) dell’Urss, secondo cui nell’impossibilità di costituire una repubblica islamica agli inizi degli anni ’90 si sarebbe resa necessaria la creazione di un sistema multipartitico da impiegare per eliminare il monopolio del Partito comunista nella gestione del potere. Lo stato democratico di diritto, per quanto teologicamente impuro per definizione rispetto al concetto di hakimiyya, svolgerebbe in questo modo una funzione strumentale alla causa islamica per una ragione che fu già individuata da Huntington: nei sistemi elettivi parlamentari non occidentali «la competizione elettorale può portare al potere forze nazionaliste e fondamentaliste antioccidentali».[31] Se il nesso tra fondamentalismo e anti-occidentalismo non è affatto pacifico, come dimostra la prassi politica delle petromonarchie saudite, tale tattica ha però risvolti interessanti per la comprensione della recente ascesa delle forze politiche islamico moderate e capitaliste nel nord Africa e Medio Oriente in lotta contro i regimi socialisti e baathisti. In questo modo le rivendicazioni islamico-democratiche tese alla creazione di sistemi liberali multipartitici farebbero pressione per la creazione di un sistema che diviene vittima di sé stesso: l’islamizzazione dal basso alleata delle forze più liberali troverebbe poi nello stesso “Stato di diritto” un limite alla sua politica. L’oscillazione tra orientamento estero ed economico di tipo occidentale e l’inizio di un’interna islamizzazione dall’alto incapace di controllare quei fenomeni di islamizzazione scatenati dal basso, sarebbe pertanto un indice di tale difficoltà.

In questo volume pubblicato in Italia ormai nel 2000, sono compresi sette saggi dedicati alle aree centroasiatiche e a questioni diverse, come per esempio al rapporto tra islam e forze armate nella Russia contemporanea. Lo studio delle fasi successive dello sviluppo dell’islamismo nello spazio post-sovietico non può quindi essere qui incluso, ma alcune linee di tale sviluppo sono già tracciate e certamente meritano nuovi studi approfonditi.

 

 




[1] FILATOV S. – MALASHENKO A. V., Introduzione, in AA. VV., Islam e politica nello spazio post-sovietico, a cura di Filatov S. – A. V. Malashenko, Fondazione Agnelli, Torino, 200, p. XII.
 

[2] MALASHENKO M., Islam e politica in Uzbekistan, in AA. VV., Islam e politica nello spazio post-sovietico, op. cit., p. 132.

[3] FILATOV S. – A. V. MALASHENKO, Conclusioni, in AA. VV., Islam e politica nello spazio post-sovietico, op. cit., p. 173.

[4] HUNTINGTON S. P., Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Garzanti, Milano, 1997, p. 157.

[5] Ivi, p. 172: «Negli anni settanta, ad esempio, gli equilibri demografici nell’ex Unione Sovietica ha subìto un drastico mutamento, con una crescita del 24 per cento dei musulmani rispetto al 6,5 per cento dei russi, il che ha suscitato grossi timori tra i dirigenti comunisti dell’Asia Centrale».

[6] NIJAZI A., L’islam in Tagikistan, in AA. VV., Islam e politica nello spazio post-sovietico, op. cit., p. 109.

[7] MALASHENKO A. V., L’islam in Kazakhstan e Kirghisia, in AA. VV., Islam e politica nello spazio post-sovietico, op. cit., p. 85.

[8] Ivi, p. 79.

[9] KAPPELER A., La Russia. Storia di un impero multietnico, Edizioni Lavoro, Roma, 2006, p. 353.

[10] KEPEL G., La rivincita di Dio, Rizzoli, Milano, 1991, pp. 18-19.

[11] Lo stesso orientamento ebbero anche i predecessori D. Dudaev, e Z. Yandarbiyev, che nel settembre del 1996 introdusse per decreto il codice penale islamico e proclamò l’islam religione di stato. Già con Dudaev nell’aprile dell’anno precedente vennero introdotti per decreto degli istituti tribunali islamici nelle provincie meridionali della neonata Repubblica cecena di Ichkeria. Vedi KUDRJAVCEV A., L’islam nel Caucaso settentrionale dopo la divisione dell’Urss, in AA. VV., Islam e politica nello spazio post-sovietico, op. cit., pp. 41-42.

[12] FILATOV S. – A. V. MALASHENKO, Conclusioni, in AA. VV., Islam e politica nello spazio post-sovietico, op. cit., p. 176.

[13] MALASHENKO M., Islam e politica in Uzbekistan, in AA. VV., Islam e politica nello spazio post-sovietico, op. cit., pp. 134-135.

[14] NIJAZI A., L’islam in Tagikistan, in AA. VV., Islam e politica nello spazio post-sovietico, op. cit., p. 116.

[15] Ivi, p. 118.

[16] FILATOV S. – A. V. MALASHENKO, Conclusioni, in AA. VV., Islam e politica nello spazio post-sovietico, op. cit., pp. 176-177.

[17] MALASHENKO M., Islam e politica in Uzbekistan, in AA. VV., Islam e politica nello spazio post-sovietico, op. cit., p. 148.

[18] MALASHENKO A. V., L’islam in Kazakhstan e Kirghisia, in AA. VV., Islam e politica nello spazio post-sovietico, op. cit., p. 77.

[19] NIJAZI A., L’islam in Tagikistan, in AA. VV., Islam e politica nello spazio post-sovietico, op. cit., p. 105.

[20] MALASHENKO A. V., L’islam in Kazakhstan e Kirghisia, in AA. VV., Islam e politica nello spazio post-sovietico, op. cit., p. 88.

[21] NIJAZI A., L’islam in Tagikistan, in AA. VV., Islam e politica nello spazio post-sovietico, op. cit., pp. 109-110.

[22] KUDRJAVCEV A., L’islam nel Caucaso settentrionale dopo la divisione dell’Urss, in AA. VV., Islam e politica nello spazio post-sovietico, op. cit., pp. 43-44.

[23] KEPEL G., La rivincita di Dio, Rizzoli, Milano, 1991, p. 38.

[24] KUDRJAVCEV A., L’islam nel Caucaso settentrionale dopo la divisione dell’Urss, in AA. VV., Islam e politica nello spazio post-sovietico, op. cit., p. 30.

[25] Ivi, p. 40.

[26] FILATOV S. – A. V. MALASHENKO, Conclusioni, in AA. VV., Islam e politica nello spazio post-sovietico, op. cit., p. 176.

[27] KEPEL G., Il profeta e il faraone. I Fratelli musulmani alle origini del movimento islamista, Laterza, Roma-Bari, 2006, p. 171.

[28] KUDRJAVCEV A., L’islam nel Caucaso settentrionale dopo la divisione dell’Urss, in AA. VV., Islam e politica nello spazio post-sovietico, op. cit., p. 31.

[29] VATIKIOTIS P. J., Islam: stati senza nazioni, Il Saggiatore, Milano, 1993, p. 155.

[30] FILATOV S. – A. V. MALASHENKO, Conclusioni, in AA. VV., Islam e politica nello spazio post-sovietico, op. cit., p. 179.

[31] HUNTINGTON S. P., Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Garzanti, Milano, 1997, p. 289.

 

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LA COREA DEL NORD METTE ALLA PROVA I LIMITI DELLA TOLLERANZA

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Stando al “London Telegraph”, un appartamento nel blocco residenziale di Dandong, la più grande città cinese sul confine sino-coreano, è stato chiuso dalle autorità cinesi lo scorso mese di marzo. Quell’appartamento è stato definito come un “nodo chiave finanziario nell’apparato delle armi di distruzione di massa della Corea del Nord”. Alcuni organi di informazione sono quasi sicuri che tutto ciò mostri come la Cina non può tollerare ancora a lungo le iniziative belliche della Corea del Nord. Il governo di Pyongyang ha ripetutamente rivendicato iniziative di guerra di recente. In quanto membro permanente del Consiglio di Sicurezza dell’ONU e principale vicino della Corea del Nord, le iniziative intraprese dalla Cina nel merito della questione attireranno l’attenzione mondiale, soprattutto dal momento che Pechino ha recentemente imposto alcune sanzioni ai danni della Corea del Nord per punire le sue crescenti azioni ostili verso la Cina e altre iniziative attuate dopo che il leader nordcoreano Kim Jong-un ha assunto il suo incarico, che potrebbero minacciare la pace nella Penisola Coreana.

Pechino ha votato a favore delle sanzioni ONU a marzo, e ha già controllato con solerzia le banche illegali della Corea del Nord in Cina. La Cina ha le sue difficoltà nella risoluzione della questione nordcoreana. Gli Stati Uniti e i loro alleati militari hanno intensificato il loro impiego strategico attorno alla penisola. Tale dispiegamento militare esercita un enorme impatto negativo sugli interessi della Cina in relazione ai temi della sicurezza. Tuttavia, la Cina non può accusare gli Stati Uniti per queste azioni di impiego geostrategico perché, secondo gli Stati Uniti, queste contromisure sono indirizzate contro la Corea del Nord. La Cina dovrebbe dunque redarguire la Corea del Nord per aver messo a rischio la stabilità regionale. Ma la Cina non può interrompere definitivamente il suo sostegno militare alla Corea del Nord come l’Occidente vorrebbe convincerla a fare.

In breve, non possiamo brutalmente “abbandonare” la Corea del Nord. Al di là della natura del regime politico in Corea, la Cina avrà sempre suoi interessi nella penisola in merito ai temi della sicurezza. Pechino ha già riadattato le sue politiche verso la Corea del Nord. Colpendo le sue azioni ostili, che hanno minacciato la pace nella penisola, la Cina ha stabilito avvertimenti e ammonimenti. Le relazioni diplomatiche tra Pechino e Pyongyang hanno raggiunto il loro livello più basso dal 1953. Tuttavia, questo non significa che la Cina vuole abbandonare del tutto la Corea del Nord. Essa non deve considerarsi come uno Stato satellite della Cina. Non è per tanto possibile “abbandonarla”. L’ammonimento e il sanzionamento cinesi contro il vicino sono finalizzati a preservare gli interessi della nostra stessa sicurezza.

In precedenza, la Cina si è sempre dimostrata amichevole nei confronti della Corea del Nord, ricevendo soltanto risposte positive. Il problema odierno è costituto dal fatto che da quando Kim Jong-un è salito al potere, la Cina ha ricevuto dal suo vicino quasi nessuna risposta positiva. Ma anche di fronte a questo, non possiamo trarre la conclusione in base alla quale l’amministrazione di Kim Jong-un non risponderà mai positivamente alla Cina.

Tuttavia, la scelta di non abbandonare la Corea del Nord non può essere ricondotta ad un riconoscimento cinese dello status nucleare della Corea del Nord. La denuclearizzazione è sempre stata uno dei principi della Cina sulla questione nordcoreana. Nessun Paese crede che la Corea del Nord voglia perseguire la pace costruendo un arsenale nucleare. Alcuni analisti hanno avanzato l’ipotesi secondo la quale se la Cina non ammettesse lo status di nazione nucleare della Corea del Nord e non venisse incontro alle richieste nordcoreane, e Washington poi dovesse inviare segnali di apertura a Pyongyang, una Corea del Nord in possesso di armi nucleari potrebbe esercitare una pressione sulla Cina per ritorsione.

Per quanto mi riguarda, c’è soltanto una possibilità. La sfiducia della Corea del Nord nei confronti degli Stati Uniti è profondamente risaputa, esattamente come la sua dipendenza dalla Cina. Se il regime di Pyongyang chiudesse del tutto le sue relazioni diplomatiche con la Cina e si rivolgesse agli Stati Uniti, sarà continuamente in allarme in relazione alla futura integrità del suo regime. Ad ogni modo, una tale situazione potrebbe realizzarsi sul piano strettamente strategico. La Corea del Nord è stata a lungo un attore in gioco nel confronto tra la Cina e gli Stati Uniti. Possiamo prendere in conto questa possibilità, ma sarà opportuno non preoccuparsi più di tanto a questo proposito.

 

L’articolo è stato compilato dalla redattrice del “Global Times” Shu Meng sulla base di un’intervista a Shi Yinhong, direttore del Centro di Studi Statunitensi presso l’Università Renmin di Pechino.

 

FONTE

Shu Meng, North Korea testing limits of tolerance, “Global Times” del 6/5/2013, p. 11

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IL “FILM GEOPOLITICO” DELLA CRISI

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A differenza di molti commentatori, interessati in particolar modo ad evidenziare gli squilibri del sistema finanziario internazionale per comprendere l’attuale crisi del capitalismo occidentale, noi abbiamo sempre cercato di comprendere tali squilibri alla luce del conflitto geopolitico. Per questo motivo, siamo convinti che anche un libro, indubbiamente utile e prezioso, come Il film della crisi, di Giorgio Ruffolo e Stefano Sylos Labini, (1) non colga appieno il significato di quella mutazione del capitalismo che Luciano Gallino definisce come “finanzcapitalismo”. (2) Ovverosia quell’enorme espansione del capitalismo finanziario, favorita dalla deregolamentazione dei movimenti internazionali dei capitali che si iniziò negli anni Ottanta con la Thatcher e Reagan e che portò, nel 1999, all’abolizione della legge bancaria del 1933, nota come Glass-Steagall Act, da parte dell’amministrazione Clinton.

Vero che anche Ruffolo e Sylos Labini hanno ben presente l’importanza dalla controffensiva capitalistica sferrata dalla “élite del potere” statunitense allo scopo di porre rimedio al declino dell’economia americana. Una controffensiva che segna la fine dell’Età dell’Oro (espressione che Ruffolo e Sylos Labini riprendono dallo storico Eric Hobswam e che designa il periodo compreso tra la fine della Seconda Guerra Mondiale e i primi anni Settanta) e l’avvio di una nuova fase storica, che Ruffolo e Sylos Labini denominano l’Età del Capitalismo Finanziario e che potrebbe portare ad una nuova Età dei Torbidi (la prima essendo il periodo compreso tra l’inizio del Novecento e la Seconda Guerra Mondiale). Nondimeno, in questo “film della crisi”, rimangono quasi del tutto “fuori campo” non solo le ragioni della lotta politica del capitalismo occidentale “a guida” statunitense contro il socialismo sovietico (e ancora prima contro la Germania nazionalsocialista – la cui sconfitta, insieme a quella del Giappone, permise agli Stati Uniti di liquidare definitivamente la potenza inglese e di diventare, di fatto, i padroni del mondo dal punto di vista economico), ma anche e soprattutto quelle strategie politico-militari ed economiche tramite le quali gli Stati Uniti, dopo il crollo dell’Unione Sovietica, hanno cercato (e continuano a cercare) di realizzare il loro disegno di dominio globale. In altri termini, ci sembra che Ruffolo e Sylos Labini, nel prendere in esame il processo di globalizzazione, non tengano sufficientemente conto delle ragioni geopolitiche del “soggetto” che globalizza.

L’alleanza medesima tra capitalismo e democrazia liberale che avrebbe contraddistinto gli anni dell’Età dell’Oro, in effetti, non pare comprensibile senza tener conto della necessità per gli Stati Uniti, nel secondo dopoguerra, di piantare stabilmente le tende in Europa onde mantenere salda la “presa” sull’intera aerea occidentale. Né fu certo per generosità che gli Stati Uniti si impegnarono in un programma di aiuti economici ai Paesi europei, ma naturalmente per interesse politico ed economico, dacché la domanda interna non poteva da sola “alimentare” il gigantesco sistema produttivo statunitense. La ripresa dell’Europa, anche se non v’è alcun dubbio che sia stata favorita dagli Stati Uniti, dipese da vari fattori (e non si deve nemmeno dimenticare che ebbe a trarre notevole vantaggio sia dalla guerra di Corea sia dalla creazione della Ceca, ossia la “Comunità europea del carbone e dell’acciaio”), compresa una situazione internazionale che vedeva gli Stati Uniti svolgere la funzione di “centro regolatore” dell’economia mondiale, come si era stabilito, nell’estate del 1944, a Bretton Woods, ove, com’è noto, si gettarono le basi di un nuovo ordine mondiale che riservava agli Stati Uniti sia la funzione politico-strategica sia quella economico-finanziaria. Agli Stati Uniti si riconosceva cioè una funzione di indirizzo e di controllo dell’intera vita politica ed economica dell’Occidente, anche per garantire l’istituzionalizzazione del conflitto sociale e impedire così la crescita di movimenti rivoluzionari, comunisti e socialisti, in specie nell’Europa Occidentale.

D’altra parte è significativo (pur dovendo tener presenti tutti i distinguo, le varianti e le sottovarianti possibili) che l’alleanza tra capitalismo e democrazia liberale (che tramite il Welfare assicurò sviluppo sociale e benessere economico negli anni del secondo dopoguerra) non sia mai venuta meno, in Occidente, neanche dopo la fine dell’Età dell’Oro. E’ evidente quindi, anche sotto questo aspetto, che è semplicistico e fuorviante considerare il “finanzcapitalismo” (che pure è fenomeno di fondamentale importanza) come la “variante cattiva” del capitalismo. Invero, si dovrebbero abbandonare degli schemi concettuali basati su una visione meramente “economicistica” del capitalismo e comprendere che il sistema capitalistico (che, a nostro avviso, si fonda su quella che Karl Polanyi definisce come “società di mercato”) ha necessariamente bisogno di un “centro regolatore” per la risoluzione dei conflitti internazionali e sociali. Un ruolo svolto appunto dagli Stati Uniti a partire dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, avvalendosi anche di organizzazioni “internazionali” (come il Fondo Monetario Internazionale, la Banca Mondiale e così via), benché insieme con altri centri potere “subdominanti” (si pensi alla cosiddetta “Trilaterale” – Usa, Ue, o meglio l’Europa Settentrionale, e  Giappone – ma anche alle particolari relazioni tra gli Usa e Israele e tra gli Usa e le petromonarchie del Golfo). Fu questa “rete di potere” che consentì agli Stati Uniti di ristrutturare l’intero sistema internazionale, grazie anche ad una innovazione strategica e tecnologica che condusse, nel giro di un decennio, alla scomparsa dell’Unione Sovietica (la cui “spinta propulsiva” si deve ritenere già esaurita, grosso modo, alla fine degli anni Cinquanta, dato che l’Unione Sovietica era pressoché del tutto dipendente dall’industria pesante – che conobbe una formidabile espansione durante la Seconda Guerra Mondiale, allorché gli americani diedero ai russi tutti quei materiali che solo un’industria leggera e una media e piccola impresa privata possono produrre con efficienza – e “soffocata” dalla burocrazia, dall’ideologia e da una nomenklatura tanto ottusa quanto dispotica). E si trattò di una innovazione che, profittando della debolezza e poi del crollo dell’Urss, portò pure ad una trasformazione del modo di produzione e dei rapporti sociali su base radicalmente nuova, eliminando in un batter d’occhio decenni di “retorica democratica”.

E’ innegabile, del resto, che lotta per la supremazia geopolitica, crisi del Welfare e abolizione di fondamentali diritti sociali ed economici siano aspetti essenziali di un unico “processo geopolitico” teso a consolidare l’egemonia atlantista e la struttura di potere della “società di mercato” occidentale. E’ affatto logico pertanto che l’economico venga usato come un mezzo per imporre delle strategie politiche (concernenti le regole del sistema – quelle cioè in base a cui è possibile scegliere tra diverse opzioni) miranti a rafforzare la potenza statunitense come centro egemonico mondiale, in quanto unica potenza che può effettivamente tutelare gli interessi dei gruppi dominanti nei singoli Paesi occidentali. E questo ovviamente vale sia nei confronti dei ceti popolari e dei “grossi” ceti medi (che, pur se di solito definiti ceti produttivi o riflessivi, sono ceti “subalterni” sia sotto il profilo economico che sotto quello culturale), sia, sul piano internazionale, nei confronti di altre potenze, tanto più se caratterizzate da un diverso sistema politico e socio-economico.

Di conseguenza, è naturale che anche il palese fallimento del capitalismo finanziario (che, anziché garantire la crescita, ha dato origine ad una crisi economica che ha aggravato enormemente il divario tra ricchi e poveri nello stesso mondo occidentale) assuma un significato del tutto particolare. Vale a dire che la crisi seguita al fallimento della Lehman Brothers si rivela essere prima di tutto una crisi geopolitica, nel senso che è, ad un tempo, effetto della controffensiva statunitense iniziatasi nella seconda metà del secolo scorso e del fatto che tale controffensiva non ha avuto quel pieno successo che invece dopo il crollo dell’Unione Sovietica sembrava a portata di mano. E ciò non solo per l’emergere di nuove potenze, quali la Cina o l’India, per gli insuccessi degli Stati Uniti in Iraq e in Afghanistan o per il nuovo corso “socialista” di alcuni Paesi dell’America Latina, ma anche per la politica della Russia di Putin che ha impedito che la bandiera a stelle e strisce sventolasse su  quasi tutta l’Eurasia (e si può immaginare che cosa sarebbe accaduto se gli Stati Uniti, ovvero i “mercati”, si fossero impadroniti – come stavano per fare – delle immense risorse della Russia).

Da qui la necessità di una ulteriore ridefinizione della strategia globale statunitense imperniata, sull’alleanza (indipendentemente dai rapporti, tutt’altro che chiari, tra i servizi statunitensi e al-Qaeda) tra gli Stati Uniti e le forze islamiste al soldo delle petromonarchie del Golfo, protagoniste della cosiddetta “primavera araba”, che di fatto è consistita in una serie di “operazioni colorate”, che hanno sfruttato il malcontento popolare nei confronti del regime tunisino e di quello egiziano per fare spazio a gruppi di potere ritenuti più capaci di controllare il conflitto politico e sociale in funzione degli interessi delle “forze (filo)occidentali”, nonché per liquidare nell’area mediterranea ogni ostacolo alla politica di potenza degli Stati Uniti – Siria compresa, benché il regime di Assad si stia rivelando un “osso troppo duro” per le bande islamiste, appoggiate e finanziate dalle “forze (filo)occidentali”. Peraltro, non dovrebbe nemmeno stupire che anche l’offensiva dei “mercati” contro il “ventre molle” di Eurolandia sia parte integrante di tale strategia. Un’offensiva favorita da una classe dirigente europea il cui scopo principale pare essere quello di impedire che la Germania abbia la possibilità di “allontanarsi” dall’Unione Europea – e ciò nonostante che la Germania ancora non capisca (o faccia finta di non capire) che non è (solo) per virtù propria ma soprattutto per la situazione geopolitica generale che la sua economia (e in primo luogo la sua bilancia commerciale) può crescere a danno (ma ancora per quanto tempo?) dei Paesi europei più deboli.

Comunque sia, è alla luce di questo contesto geopolitico che si deve prendere in considerazione la tesi di Ruffolo e Sylos Labyni secondo cui è necessario «il ritorno non al disegno di Bretton Woods, ma al suo progetto rivale, quello proposto nella stessa sede da John M. Keynes, non basato sull’egemonia americana e che preveda un pari responsabilità dei Paesi creditori e dei Paesi debitori». (3) Non a caso è proprio la strategia statunitense nei confronti della Gran Bretagna subito dopo la fine della Seconda Guerra mondiale (strategia che i liberali tendono a dimenticare o a sottovalutare) che conferma appieno che il sistema capitalistico sarebbe un specie di hobbesiana “guerra di tutti contro tutti” qualora non vi fosse un unico centro di potenza (altro che mercato autoregolantesi!) a regolare il conflitto sia tra (sub)dominanti che tra (sub)dominanti e dominati (per spiegarsi in termini semplici ma chiari a tutti).

L’8 maggio del 1945, infatti, gli Stati Uniti non esitarono ad interrompere, di punto in bianco, gli aiuti concessi alla Gran Bretagna (tranne gli aiuti per la guerra del Pacifico che continuarono fino al 21 agosto) in base alla legge “Affitti e Prestiti” del marzo 1941. Londra fu subito costretta ad inviare a Washington una delegazione di cui faceva parte lo stesso John M. Keynes, ma senza ottenere alcun risultato. Gli Stati Uniti erano decisi a liquidare definitivamente l’impero britannico, perfettamente consapevoli di interpretare la parte più dinamica e aggressiva del sistema capitalistico. Le condizioni durissime imposte dagli Stati Uniti per un nuovo prestito (che prevedevano tra l’altro la ratifica degli accordi di Bretton Woods e la convertibilità della sterlina entro il luglio del 1947, con conseguenze pesantissime per la bilancia dei pagamenti inglese), aggravarono considerevolmente la già precaria situazione della Gran Bretagna (impegnata pure, dopo la vittoria del laburisti, nell’estate del 1945, nella costruzione del Welfare State), tanto che, durante il terribile inverno del ’46-’47, il governo dovette perfino razionare, oltre al pane, la corrente elettrica e sospendere la pubblicazione dei settimanali. L’economia inglese in seguito riuscì lentamente a risalire la china, anche grazie al Piano Marshall, ma i costi politici dello scontro gli Stati Uniti furono salatissimi. E il ridimensionamento della potenza inglese fu chiaro a chiunque allorché Londra prese la decisione di abbandonare la Grecia per l’impossibilità di rifornire il corpo di spedizione di 16000 soldati britannici e di appoggiare l’esercito greco contro i partigiani comunisti di Markos. (4)

Eppure sarebbe decisamente errato vedere in questo solo l’arroganza di una particolare amministrazione statunitense, anziché un modo di procedere del  tutto “normale” per la potenza capitalistica predominante. Ne è ulteriore e decisiva conferma la politica di potenza statunitense subito dopo il crollo dell’Unione Sovietica, che invece secondo i sostenitori dell’alleanza tra capitalismo e democrazia liberale avrebbe dovuto portare ad una sorta di sistema occidentale multipolare (mentre era proprio la presenza del “blocco sovietico” a garantire un certo margine d’azione ai singoli Stati del “blocco occidentale” ed alle forze popolari e socialdemocratiche europee). Inoltre è particolarmente significativo che, negli anni Ottanta, un obiettivo di primaria importanza per i circoli (filo)atlantisti sia stato quello di spazzare via l’ostacolo rappresentato dalla socialdemocrazia scandinava (un’operazione che probabilmente costò la vita ad Olof Palme). Al riguardo, scrive Bruno Amoroso che «tolti di mezzo gli scomodi scandinavi la campagna di destabilizzazione si estende al Regno Unito, muove verso il Sud dell’Europa, passando per la Germania e la Francia. Fatto crollare il sistema dei Paesi socialisti e dei Paesi del “terzo mondo”, che ad essi si appoggiavano, nel corso degli anni ’80-’90 venne il momento dei Paesi del Sud, l’Italia e la Spagna in particolare. Inizia cioè l’operazione “mani pulite” che consegnerà il sistema politico italiano e spagnolo […] alle nuove strategie del capitalismo e cioè alla loro adesione acritica e servile alla globalizzazione e a una Europa “occidentalizzata”». (5)

Si tratta appunto di quella strategia imperniata sul cosiddetto “unipolarismo statunitense” e che, come si è già ricordato, è entrata in crisi in questi ultimi anni, ma che non può essere seguita da una “fase multipolare” senza che gli Stati Uniti vi si oppongano in ogni modo. A tale proposito, si dovrebbe pure nettamente distinguere la questione di un sistema internazionale multipolare da quella concernente la possibilità di dar vita ad un sistema capitalistico policentrico. Se le considerazioni fin qui svolte sono corrette, è certo possibile che si formi un “polo geopolitico alternativo” (come potrebbe essere quello dei Brics) rispetto a quello occidentale, ma non è possibile che vi sia un sistema (liberal)capitalistico policentrico. Il sistema capitalistico occidentale può tollerare che via sia un certo equilibrio geopolitico multipolare (ossia che esista anche un sistema non capitalistico, o perlomeno non liberalcapitalistico, socialista o “dirigista” che sia), almeno fino a quando non sia in grado di eliminare il “polo antagonista” (e quindi tenterà in ogni modo di creare le condizioni perché ciò sia possibile), ma non può esso stesso essere un sistema multipolare senza rischiare di essere distrutto da “lotte intestine”. In sostanza, è inevitabile che vi sia una sola potenza capitalistica predominante e che la sua “sfera di potenza” sia tendenzialmente illimitata sotto ogni punto di vista (politico, militare, economico e culturale). Sicché, non sorprende che gli Stati Uniti, in specie con la cosiddetta “geopolitica del caos”, tentino di impedire con ogni mezzo che si possa dare origine ad un autentico sistema internazionale multipolare, né che già dagli anni Ottanta la strategia statunitense fosse attenta a “riformare” gli equilibri europei, per evitare che si potesse costituire un “polo geopolitico” europeo, che necessariamente si sarebbe scontrato con gli Stati Uniti.

D’altronde, si deve tener pure presente che nessun’altra potenza rappresenta una “società di mercato” meglio di quella statunitense, che si potrebbe definire una sorta di “talassocrazia assoluta” che mira al dominio della terra, e la cui caratteristica principale consiste in una volontà di potenza che si vuole “libera” «dalla natura, dal tempo e dalla storia» (6) per esportare ovunque la “religione” dell’homo oeconomicus. Va da sé che lo stesso Warfare State, l’immenso apparato militare statunitense – che ha permesso tra l’altro di finanziare con il denaro pubblico (nella patria del liberismo!) settori strategici come il settore della tecnologia aerospaziale, quello dell’elettronica e quello dell’informatica – (7) svolge un ruolo che ha ben poco a che vedere con la sicurezza nazionale degli Stati Uniti, benché indubbiamente il “sistema occidentale” preferisca agire tramite i media mainstream (di cui il “grande capitale” detiene l’effettivo controllo) e la guerra economica per destabilizzare un Paese e/o distruggerne la base produttiva. (8) Ma si tratta di “cose note” su cui non occorre insistere.

Ciò su cui è invece necessario insistere è che il secolo da poco trascorso ben difficilmente lo si può comprendere senza prendere in esame il declino della potenza inglese (cominciato alla fine dell’Ottocento), la talassocrazia europea che svolse la funzione di “centro regolatore” del sistema capitalistico mondiale fino all’ascesa della Germania e degli stessi Stati Uniti. (9) La crisi economica di fine Ottocento e quella del ’29, ciascuna seguita da una guerra mondiale, non possono non essere messe in relazione al venir meno di quell’equilibrio internazionale che poggiava sul dominio dei mari (e dei “mercati”) da parte della potenza inglese. In definitiva, come insegna Gianfranco La Grassa, si deve tener conto che, se in certe fasi storiche una parte riesce a prevalere nettamente sulle altre e si ha un certo equilibrio, vi sono sempre dei conflitti di varia intensità, sì che prima o poi si passa ad una fase fortemente conflittuale tra i diversi centri di potenza. Ma ciò vale principalmente per il sistema capitalistico, in quanto «l’accentuarsi del combattimento interdominanti […] non ha affatto come scopo il profitto bensì quello della supremazia di certi gruppi su altri, uno scopo per il quale il profitto diventa mezzo [di modo che] il profitto non è fine se non per il singolo capitalista, mero portatore soggettivo di un processo oggettivo in corso di svolgimento nel campo di battaglia, eminentemente politico». (10) Si potrebbe allora affermare che il sistema capitalistico tende ad un equilibrio in cui vi sia un “centro regolatore” dei conflitti (cioè una sola potenza predominante, poiché non si può prescindere dalla potenza politico-militare, dagli apparati coercitivi e ideologici di uno Stato). Un equilibro sempre fluido e tale che, se vien meno, è inevitabile che il sistema capitalistico tenda a ripristinarlo anche con un regolamento bellico dei conti (benché possa anche solo trattarsi di una guerra economica, i cui effetti però possono essere perfino più devastanti di una guerra vera e propria).

In questa prospettiva, ci pare ovvio che anche la strategia alternativa proposta da Ruffolo e Sylos Labini, che dovrebbe portare ad una “nuova alleanza” tra capitalismo e democrazia, fondata su un’economia mista, non possa che essere destinata al fallimento. Certo, siamo i primi a riconoscere a Ruffolo e Sylos Labini il merito di aver compreso l’importanza delle obbligazioni Mefo grazie alle quali Hjalmar Schacht «fra il 1933 e il 1936 realizzò uno dei più grandi miracoli economici della storia moderna, persino più significativo del tanto celebrato “New Deal” di Franklin D. Roosevelt». (11) Tuttavia, è chiaro che nuovi strumenti finanziari e riconversione ecologica dell’economia perché non siano una mera “operazione di cosmesi” presuppongono un mutamento di “orientamento geopolitico”, che nessuna amministrazione statunitense né alcun centro di potere euroatlantista potranno mai promuovere. La riforma del sistema finanziario mondiale, ancora basato sull’egemonia del complesso “politico-militare-industriale-finanziario-culturale” degli Stati Uniti e di quei centri di potere che da questo “complesso” dipendono, sembra quindi presupporre quello che tale riforma dovrebbe ottenere, ovverosia la fine della potenza statunitense come “centro regolatore” del sistema capitalistico occidentale. D’altra parte, la lezione che si deve trarre dal fallimento del progetto di Olof Palme, che intendeva creare un “polo geopolitico socialista” nel cuore dell’Europa (e che, con ogni probabilità, avrebbe rappresentato anche una eccezionale chance per realizzare un “polo geopolitico mediterraneo”) è che la “forma Stato” liberale non può “incastonare” il mercato se non in circostanze geopolitiche particolari, derivanti dal conflitto tra “blocchi di potere” di contrapposti. Ragion per cui ogni Paese che si contrapponga alla politica capitalistica predominante dovrebbe necessariamente essere capace di difendersi dagli attacchi sferrati dai “mercati”, dai media mainstream e dalle “quinte colonne” che possono sempre contare sull’appoggio di gruppi di potere e organizzazioni “internazionali”.

Ciò non significa che l’Europa non abbia altra scelta che seguire i diktat dei “mercati”, ma se è necessario ridefinire l’architettura politica dell’Unione europea per sottrarre l’Europa alla morsa dei “mercati”, come sostengono gli stessi autori del Film della crisi, bisognerebbe ridefinire anche il sistema politico occidentale (pur dovendo evitare gli errori e gli orrori dei regimi totalitari; il problema, si badi, non è la democrazia, intesa come partecipazione del popolo alla vita politica – partecipazione però che può essere garantita in modi assai diversi – , bensì come sia possibile restituire lo scettro al “principe”, come sia cioè possibile interpretare e difendere l’interesse della collettività evitando che “sovrani” siano i “mercati”). (12) Né ciò sarebbe sufficiente, poiché, in ogni caso, sarebbe necessario mutare l’”orientamento geopolitico” dell’Europa, perlomeno intensificando le relazioni politiche ed economiche con le potenze dell’Eurasia (senza le quali ogni riforma del sistema finanziario internazionale è pura fantasia), di modo da poter indebolire la “presa” statunitense e dei “mercati” sulla politica europea. Peraltro, è scontato che una “economia mista” raggiungerebbe appieno il proprio scopo – quello di porre l’economico (il mercato) al servizio dell’intera società e non viceversa come accade in una “società di mercato” – se (secondo la nota tesi di Karl Polanyi) lavoro, terra e moneta non venissero più considerati merci. Il che però sarebbe possibile solo se si creassero anche le condizioni geopolitiche e culturali per un definitivo superamento (ed era ciò cui mirava anche il progetto di Olof Palme) di un sistema internazionale basato sulla crescita illimitata della volontà di potenza economica del centro di potere predominante. Una “dismisura” che concerne l’essenza stessa del capitalismo, in quanto “ideologia e prassi” dell’homo oeconmicus. Facile dunque concludere che, rebus sic stantibus, è assai difficile che vi possa essere una Unione Europea realmente capace di sfidare o almeno di contrastare l’egemonia statunitense.

 

 

 

1) Giorgio Ruffolo e Sylos Labini, Il film della crisi, Einaudi, Torino, 2012.

2) Luciano Gallino, Finanazcapitalismo, Einaudi, Torino, 2011.

3) Giorgio Ruffolo e Sylos Labini, op. cit., p. 117. Per un’analisi geopolitica della controffensiva statunitense, a partire dall’inizio degli anni Settanta (esattamente dal 15 agosto 1971, ossia dalla dichiarazione di Nixon sullo sganciamento del dollaro dall’oro, che segna la fine del sistema internazionale cui si era dato inizio con gli accordi di Bretton Woods) fino ai nostri giorni, si veda Giacomo Gabellini, Shock, Anteo Edizioni, 2013.

4) Si veda Giuseppe Mammarella, Storia d’Europa dal 1945 a oggi, Laterza, Roma-Bari, 1980, pp. 53-62.

5) Bruno Amoroso, L’apartheid globale, Lavoro, Roma, 1999, citato in Giacomo Gabellini, op. cit., p. 42.

6) Harold Bloom, La religione americana, Milano, Garzanti, 1994, p. 52

7) Si pensi che cosa sarebbe stata l’Olivetti se avesse potuto contare su tali finanziamenti allorquando, alla fine degli Sessanta, era all’avanguardia nel settore dell’informatica (su questo tema si veda l’intervista a Giorgio Panattoni di Giuseppe Germinario http: //www. Conflittiestrategie. it/lolivetti-vista-da-un-suo-protagonista-giorgio-panattoni-2 ).

8) Su questo argomento è veramente prezioso il già citato libro di Gabellini. Per quanto concerne il mondo dell’informazione, mai come oggi sarebbe necessario distinguere tra libertà della stampa e libertà di stampa e di espressione (garantita soprattutto da Internet e dalla piccola editoria e minacciata invece dal potere dei media mainstream).

9) Ovviamente, qui non intendiamo tentare alcuna ricostruzione storica di eventi estremamente complessi, ma cercare solo di comprendere l’attuale fase storica sotto l’aspetto geopolitico, nonché, in un certo  senso, sotto quello “metapolitico”.

10) Gianfranco La Grassa, Oltre l’orizzonte, Besa, Lecce, 2011, pp. 62 e 109.

11) Gorgio Ruffolo e Stefano Sylos Labini, op. cit., pp. 78-79. Per la strategia alternativa proposta di Ruffolo e Sylos Labini si veda Ivi, pp. 85-111.

12) Che il sistema politico liberale sia sempre più dipendente da altri centri di potere, crediamo che non possa essere messo seriamente in discussione da nessuno. Perfino il pluralismo della società occidentale è in larga misura in funzione della struttura dell’apparato tecnico-produttivo.

 

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RIVOLUZIONE NAZIONALE O “PRIMAVERA” TURCA ?

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Il n. 2/2013 di “Eurasia. Rivista di studi geopolitici” (in distribuzione a partire dalla metà di giugno) è dedicato alla Turchia. Il direttore della rivista, Claudio Mutti, è stato intervistato sugli avvenimenti turchi da Natella Speranskaja (Mosca) per il sito www.granews.info

 

D. – In Turchia è cominciata la rivoluzione nazionale. Che forze ci sono dietro di essa? Chi combatte e contro chi?

R. – Le giaculatorie sui “diritti umani” e la “democrazia”, l’esibizione delle Femen, la solidarietà di Madonna e di alter celebrità di Hollywood, la stucchevole retorica antifa con tanto di “Bella ciao” mi sembrano più I sintomi di una “rivoluzione colorata” o di una “primavera turca”, che non una rivoluzione nazionale. Per il momento non è possibile sapere se le proteste siano scoppiate in maniera spontanea o se davvero siano state provocate da agenti stranieri, come pretende Erdogan. Dobbiamo però tener presente che l’ambasciatore statunitense ad Ankara, Francis Ricciardone, ha ripetuto due volte in due giorni il suo messaggio in favore dei manifestanti e che John Kerry ha rilasciato una dichiarazione sul diritto di protestare.  Certo, fra i manifestanti vi sono anche gli attivisti di gruppi e movimenti non atlantisti ed anche filoeurasiatisti (come ad esempio il Partito dei Lavoratori, İşçi Partisi); tuttavia non mi sembra che questi militanti siano in grado di dirigere una massa così eterogenea sui binari di una rivoluzione nazionale.

 

 

D. – In che modo la rivoluzione turca si colloca nei confronti dell’opposizione geopolitica eurasiatica (Russia, Iran, Siria) e dell’atlantismo (NATO, USA, UE)?

R. – È vero che in Turchia molta gente si preoccupa per il coinvolgimento del Paese nel conflitto siriano. Ma quando i dimostranti proclamano “Siamo i figli di Ataturk”, essi esprimono la loro adesione ai principi del secolarismo e del laicismo, non una posizione eurasiatista. Purtroppo non riesco a vedere nella rivolta una significativa tendenza antiatlantica.

 

 

D. – Qual è la Sua prognosi circa lo sviluppo degli eventi in Turchia e quali saranno gli effetti sulla situazione siriana? 

R. – È probabile che la rivolta induca Erdogan a riflettere sulla saggezza del proverbio “Chi semina vento, raccoglie tempesta” e ad occuparsi più degli affari turchi che non di quelli siriani; probabilmente si renderà conto del fatto che gli Statunitensi sono sempre pronto a licenziare i loro collaboratori, dopo averne fatto uso. Due mesi fa il suo Ministro degli Esteri, Ahmet Davutoglu, ha firmato un protocollo d’intesa che fa della Turchia un “membro dialogante” dell’Organizzazione per la Collaborazione di Shanghai. Se il governo turco vuole essere coerente con questo passo, deve archiviare quella sorta di “neoottomanismo” che maschera una funzione sub imperialista funzionale agl’interessi egemonici occidentali. Anzi, se la Turchia vuole essere davvero un punto di riferimento per i popoli musulmani del Mediterraneo e del Vicino Oriente, è necessario che essa rescinda i legami con la NATO e col regime sionista. È da schizofrenici destabilizzare la Siria e allo stesso tempo accusare il sionismo di essere (parole di Erdogan) “un crimine contro l’umanità” e l’entità sionista di rappresentare “una minaccia per la pace della regione”.

 

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LA RIVOLTA IN TURCHIA

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Intervista rilasciata il 3 giugno da Aldo Braccio, redattore di “Eurasia. Rivista di studi geopolitici”, a Radio Città Futura

 

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LA PIRATERIA AL LARGO DELLE COSTE SOMALE: L’OPERAZIONE ATALANTA

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La pirateria marittima, dopo aver conosciuto un grande periodo d’oro tra il XVII e il XVIII secolo, subì un netto declino già dalla fine dell’800, apparendo pressoché scomparsa nel ‘900. Nel corso dell’ultimo decennio, però, tale fenomeno è tornato d’attualità: a partire dal 2003, infatti, gli attacchi da parte dei pirati sono andati moltiplicandosi anno dopo anno, esplodendo a cavallo tra il 2008 e il 2009, segnando un incremento del 75% in un solo anno. Un problema diffuso a livello mondiale, che anche a causa dell’enorme crescita e importanza dei collegamenti marittimi impone agli Stati il compito di trovare una soluzione. Da un lato ONU e NATO hanno messo in piedi task force speciali con il compito di prevenire eventuali attacchi, dall’altro lato anche l’Unione Europea si è mossa, avviando l’operazione Atalanta, il cui raggio d’azione copre il golfo di Aden e le coste al largo della Somalia fino alle isole Seychelles.

 

 

La pirateria marittima è un fenomeno tornato drammaticamente d’attualità. Nell’ultimo decennio, gli attacchi dei pirati si sono moltiplicati, causando non pochi fastidi alla comunità internazionale. Il fenomeno è stato a lungo studiato alla luce dell’articolo 15 della Convenzione di Ginevra e degli articoli 100 al 107 della Convenzione sul Diritto del Mare di Montego Bay del 1982. In particolare, secondo l’articolo 101 di quest’ultima, con atto di pirateria si intende qualsiasi atto illecito di violenza o sequestro commesso dall’equipaggio o da passeggeri di una nave privata contro un altro equipaggio o altri beni trasportati da un’altra nave. Una definizione giuridica chiara che è servita a dirimere qualsiasi dubbio circa l’interpretazione di un atto di pirateria e a fornire un fondamento giuridico alle operazione di controllo e prevenzione degli attacchi in mare, quale la stessa operazione Atalanta, lanciata da parte dell’Unione Europea nel dicembre 2008. 

Le modalità di abbordaggio e gli obiettivi della pirateria moderna differiscono rispetto a pirati e corsari che agivano nei secoli scorsi. Al giorno d’oggi, infatti, essa prende di mira navi di qualsiasi bandiera e di qualsiasi natura esse siano – petroliere, da pesca, commerciali, o semplicemente da diporto. L’unica caratteristica a cui i pirati moderni badano è il fatto che esse siano particolarmente lente e quindi vulnerabili, perché poco agili nelle manovre strette e rapide.

Una volta attaccato l’obiettivo – il più delle volte l’abbordaggio avviene in maniera violenta, anche tramite l’utilizzo di lanciarazzi – i pirati sequestrano nave e equipaggio per il tempo necessario a ottenerne un riscatto da parte dell’armatore.

Geograficamente la pirateria si sviluppa in quelle porzioni di oceano in prossimità di passaggi obbligati per la navigazione, non è un caso che le regioni che oggi sono più interessate dalla recrudescenza della pirateria marittima siano stretti, golfi o zone chiuse, come il mar dei Caraibi, dove la pirateria è collegata anche al traffico di droga; il golfo di Guinea, lungo le coste di Benin, Nigeria e Togo, dove i pirati vengono mossi anche da rivendicazioni territoriali; lo stretto di Malacca, tra Malesia e Indonesia, a causa della miseria delle popolazioni locali e all’incapacità del governo indonesiano di garantire la sicurezza delle sue acque; e in particolar modo nel Golfo di Aden e al largo della Somalia, Stato in cui, a causa della mancanza di un governo dal 1991, è in corso una sanguinaria guerra.

Situazione dalla quale gli occidentali  – e gli Stati Uniti in particolare – traggono vantaggio: innanzitutto in maniera diretta, sfruttando senza limiti le risorse ittiche all’interno delle acque territoriali somale e, sempre approfittando dell’assenza di un’autorità centrale, riversando in mare rifiuti pericolosi come le scorie nucleari. A questo si deve aggiungere un interesse indiretto da parte dei nordamericani (più volte sono intervenuti in Somalia): non deve apparire strano che la situazione di anarchia nella regione sia un vantaggio per loro, dal momento che le considerevoli risorse petrolifere del Paese africano non corrono il rischio di essere vendute a Paesi rivali come la Cina. L’assenza di un governo in grado di stipulare accordi commerciali, quindi, permette di conservare le risorse per un futuro prossimo.

Quest’area geografica risulta essere un punto nevralgico del commercio marittimo internazionale, ponendosi come secondo asse mondiale come flusso di merci e transito di navi. Il golfo di Aden, all’estremità sud del Mar Rosso – la porta d’accesso del Mediterraneo dall’Asia – garantisce il collegamento commerciale marittimo tra il continente europeo e quello asiatico. Inoltre, l’intero export petrolifero dei Paesi del golfo Persico passa attraverso questo stretto per poi raggiungere i porti europei e nordamericani. L’insicurezza di questa zona, quindi, ha costretto molte compagnie a scegliere il periplo dell’Africa, con conseguente aumento dei prezzi e del tempo impiegato per il trasporto. Risulta quindi evidente che la messa in sicurezza di questa area è di fondamentale importanza proprio per evitare che si scelga ancora in futuro di circumnavigare l’Africa dal Capo di Buona Speranza, come avveniva prima dell’apertura del Canale di Suez.

Il considerevole incremento di attacchi di pirateria in questa regione, registrato a partire dal 2003, ha spinto l’Unione Europea  – su iniziativa franco-spagnola – ad agire in modo compatto e deciso per arginare questo fenomeno che danneggia fortemente i commerci marittimi non solo del naviglio europeo, ma mondiale.

L’8 dicembre 2008 è stata infatti lanciata l’operazione Atalanta, che si inserisce all’interno del quadro della Politica di Sicurezza e di Difesa comune (PSDC) e in conformità alle risoluzioni numero 1814, 1816, 1838, 1846 e 1851, adottate dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite proprio in risposta all’aggravamento della pirateria nell’Oceano Indiano Occidentale. La NATO stessa ha iniziato nel 2008 a fornire una serie di scorte alle navi che portavano aiuti umanitari alla Somalia all’interno del programma alimentare mondiale dell’ONU, che erano già state oggetto di attacchi da parte dei pirati che miravano ad ottenere un riscatto.

L’operazione Atalanta, che in origine avrebbe dovuto avere una durata di soli dodici mesi, in virtù dei suoi successi è stata di anno in anno prorogata, e nel marzo 2012 si è deciso si rinnovarla per altri due anni supplementari, fino a dicembre 2014. La forza militare collegata alla missione Atalanta –  EU NAVFOR – vede oggi la partecipazione permanente di nove membri (Belgio, Francia, Germania, Grecia, Italia, Lussemburgo, Paesi Bassi, Spagna, Svezia) più altri Paesi che partecipano in maniera ridotta, anche solo con invio di ufficiali, quali Regno Unito, Norvegia, Bulgaria, Croazia.

Gli obiettivi dell’operazione Atalanta sono essenzialmente tre: proteggere le navi che trasportano aiuti umanitari alla Somalia all’interno del programma alimentare mondiale, dissuadere e prevenire eventuali attacchi pirati contro altre navi e difenderle dagli attacchi che si verifichino all’interno della zona di competenza¹. Compiti non facili vista la notevole estensione dell’area in considerazione: dal golfo di Aden, passando al largo delle coste di Somalia, Yemen e Kenya sino a giungere alle isole Seychelles: circa 2 milioni di km². Vale a dire una superficie pari a quella del Mar Mediterraneo e circa sette volte l’estensione della Francia o della Germania. Con il rinnovo fino a dicembre 2014, inoltre, l’area di azione è stata ulteriormente ampliata andando anche a coinvolgere le coste somale, le sue acque territoriali e interne. Si evince, quindi, come l’Unione Europea sia decisa nel contrastare il fenomeno criminale della pirateria e abbia compreso che solo un’azione che vada alla base di esso possa portare risultati a lungo termine. Pattugliando anche le coste somale, infatti, si vanno a colpire le basi logistiche dei pirati stessi, togliendo loro rifugi e possibilità di sottrarsi all’arresto.

A causa della vastità della zona delle operazioni, è difficile che il controllo da parte del contingente europeo – che, a seconda dei periodi, conta non più di una ventina di navi – possa essere capillare e presente in ogni situazione di pericolo. Ciò non toglie che, nel corso di questi quattro anni e mezzo da quando è stata dispiegata per la prima volta, l’operazione Atalanta abbia raggiunto risultati soddisfacenti. A fronte di circa 50 sequestri nel 2010, l’anno successivo il numero si è drasticamente ridotto a 25, per poi attestarsi a quattro nel 2012². Oltre ad una diminuzione dei sequestri, si è registrata anche una sensibile riduzione degli attacchi stessi. Inoltre, nel corso di questi anni, l’operazione Atalanta ha registrato il 100% di successi per quanto concerne la scorta delle navi del programma alimentare mondiale.

Risultati resi possibili dalla cooperazione e dall’interazione delle varie navi europee che si trovavano ad operare nella regione a seconda dei diversi periodi da quando la missione è attiva. In particolar modo, però, l’aiuto della Francia è stato decisivo, sia perché ha offerto – e offre – il maggior numero di effettivi e mezzi, ma anche perché rende disponibile il supporto logistico della propria base militare a Gibuti.

I successi registrati dal contingente europeo NAVFOR non devono illudere circa la situazione ancora critica e pericolosa della regione: proprio per garantire un successo a lungo termine, infatti, è stato deciso il prolungamento della missione.

La perdurante assenza di un governo somalo fin dal 1991 non facilita certo le cose. In un contesto di vera e propria anarchia, in cui il Paese è sconvolto da una sanguinaria guerra (alimentata da alcuni Paesi occidentali, in primis gli Usa), non è facile garantire adeguata sicurezza e protezione alle navi di passaggio al largo dei più di 3 mila chilometri di coste somale. Per questo, è forte la convinzione che finché il problema a terra non sarà risolto e non verrà formato un governo stabile e forte in grado di mantenere ordine sul territorio somalo, la questione in mare non troverà mai soluzione, essendo lo specchio della caotica condizione che si verifica all’interno. Accanto alle operazioni in mare e lungo la costa, per debellare definitivamente la pirateria da questa zona africana è necessario agire sul continente in maniera coordinata e decisa come fatto con l’operazione Atalanta. L’importanza geo-strategica dell’intera regione e delle relazioni che i Paesi europei intrattengono con gli omologhi africani, impone all’Unione Europea la necessità di agire tramite un approccio globale, in modo da porsi come un sicuro interlocutore e garante della sicurezza regionale.

L’UE, grazie a questa missione e ai suoi successi, deve prendere atto della sua forza, derivante dall’aver agito in maniera compatta, e della consapevolezza di potersi sottrarre alla dipendenza militare statunitense. Nella sua prima operazione militare al di fuori dei confini continentali, l’Unione ha dato una buona prova delle sue competenze e della professionalità delle forze armate del contingente.

In assenza di uno stato di diritto somalo, l’Unione Europea, per perseguire i pirati della regione, ha dovuto trovare assistenza giuridica in Paesi terzi: è così che nel 2009 sono stati siglati due accordi di trasferimento di persone che abbiano commesso – o siano sospettate di aver commesso – atti di pirateria: il primo, a marzo, con il Kenya, e il secondo, a novembre, con la Repubblica delle Seychelles. In base a questi accordi, i contraenti africani accettano il trasferimento di persone detenute – e beni sequestrati – da parte dell’EU NAVFOR a sua richiesta, con l’impegno a portare innanzi all’autorità giudiziaria competente i sospettati. Questo tipo di collaborazione, però, nonostante gli sforzi compiuti da questi due Paesi, incontra non poche difficoltà, dal momento che le loro giurisdizioni penali sono ingolfate e la sovrappopolazione carceraria è un problema non indifferente, tanto che ha spinto il Kenya a voler revocare il suo consenso concesso all’Unione Europea in seguito al peggioramento della situazione delle proprie carceri. Questa defezione costringe l’Unione Europa a dover cercare altri Paesi partner nella regione, ben sapendo che per contenere la minaccia della pirateria dovrà fare cercare di fare più affidamento sulle loro capacità e risorse.

 

 

*Carlomaria Bottacini ha conseguito la laurea triennale in Scienze Internazionali e Istituzioni Europee presso l’Università degli Studi di Milano ed è attualmente studente in Relazioni Internazionali presso il medesimo ateneo.

 

 

 

 

Note Bibliografiche e Riferimenti Multimediali

1 -http://eur-lex.europa.eu/LexUriServ/%20LexUriServ.douri=OJ:L:2008:301:0033:0037:EN:PDF, ultimo accesso maggio 2013

2 -http://eunavfor.eu, ultimo accesso maggio 2013

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GLI USA INTRODUCONO UN NUOVO PACCHETTO DI SANZIONI CONTRO L’IRAN

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Secondo quanto riferisce l’ufficio stampa della Casa Bianca, il Presidente Barack Obama ha approvato l’imposizione di sanzioni aggiuntive contro l’Iran in relazione alla moneta nazionale iraniana e all’industria automobilistica.

 

“In data odierna il Presidente ha approvato un nuovo regolamento per inasprire le sanzioni contro l’Iran per l’isolamento del governo iraniano dovuto alla non ottemperanza dei suoi doveri internazionali” è quanto riportato in un comunicato sul sito della Casa Bianca.

Si tratta di sanzioni contro le istituzioni finanziarie straniere che realizzano transizioni con la moneta nazionale iraniana, il Riyal. Gli USA sottolineano che “è la prima volta che vengono introdotte sanzioni contro il commercio in Riyal”.

Verranno sottoposti a sanzioni anche le aziende o le persone che forniscono all’Iran beni e servizi relazionati con la produzione iraniana di veicoli a motore come automobili, camion, autobus, furgoncini, camioncini e motocicli.

La Casa Bianca fa sapere che nel frattempo, non saranno applicate sanzioni alle istituzioni finanziarie iraniane coinvolte nel progetto della fornitura di gas azerbaigiano all’Europa.

Gli USA non permetteranno che l’Iran si doti di armi nucleari

Gli USA non permetteranno che il programma nucleare iraniano diventi realtà. Questa la dichiarazione del segretario di stato americano John Kerry, durante una riunione con la comunità ebraica americana a Washington.

Kerry ha altresì aggiunto: “I timori di Israele per la propria sicurezza devono sparire”; riferendosi in particolare alla minaccia del gruppo islamista libanese Hezbollah, che è “la marionetta nelle mani dell’Iran che attacca Israele”. Secondo il segretario di stato americano “L’Iran è coinvolto in tutto ciò”.

(Traduzione di: Marco Nocera)   

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STEFANO VERNOLE A RADIO ITALIA IRIB: POLITICA ITALIANA SU SIRIA TOTALMENTE SBAGLIATA

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“Il Governo Letta non cambierà le sue direttive nella politica estera e nelle operazioni Nato perchè mancano i mezzi di discontinuita’ tra questo governo e quello precedente, in particolare il ministro degli Esteri Bonino sulla cui fedelta’ alle direttive che provengono da Washington non ci sono dubbi”. Sono le parole di Stefano Vernole, redattore della rivista Eurasia.
 
L’intervista integrale è disponibile al link sottostante:

http://italian.irib.ir/analisi/tavola-rotonda/item/126501-antonella-ricciardi-e-stefano-vernole-all’irib-politica-italiana-sulla-siria-totalmente-sbagliata-e-irrevocabile

 

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