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TURKISH REVOLUTION ?

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Claudio Mutti interviewed by Natella Speranskaya (Moscow, June 4th, 2013)

http://www.granews.info/content/turkish-revolution-interview-claudio-mutti

 

Q.- The national revolution has started in Turkey. What are the forces behind it? Who is fighting whom?

R. – The slogans about “human rights” and “democracy”, the Femen’s performances, the solidarity expressed by Madonna and other hollywoodian stars, the antifa rhetoric peppered with “Bella ciao” as its soundtrack are the symptoms of an “orange revolution” or a “Turkish spring”, rather than of a national revolution. At present it is impossible to know if the troubles have broken out in a spontaneous way, or if really foreign agents have provoked the troubles, as pretended by Erdogan. But we must consider that US Ambassador Francis Ricciardone has repeated twice in two days his message in favour of protesters and that John Kerry has made a declaration about the right of protesting. Certainly, among the protesters there are also militants and activists of national, anti-Atlantist and also pro-Eurasian movements (as, for example, the Workers’ Party, İşçi Partisi); but I don’t think that they are in the position to direct a so heterogeneous mass towards the goal of a national revolution.

 

 

Q. – How is the Turkish revolution related to the geopolitical opposition of Eurasianism (Russia, Iran, Syria) and atlantism (NATO, USA, EU)?

R. – It is true that many people have been troubled by Turkey’s envolvement in the Syrian conflict. Nevertheless, when the protesters claim “We are the children of Ataturk”, they express a concern related to secularistic and laicistic beliefs, not to a Eurasianistic position. Unfortunately I don’t see a significant anti-Atlantic trend in the present revolt.

 

 

Q. – Your prognosis of the development of events in Turkey and how it will effect the situation in Syria?

R. – It is probable that the Turkish revolt will induce Erdogan to think about the saying “sow the wind and reap the whirlwind” and to devote himself more to Turkish affairs than to Syrian ones; probably he will take note of the fact that Americans are always ready to oust their collaborators, after making use of them. Two months ago his Foreign Minister Ahmet Davutoglu has signed a protocol of agreement with the SCO. If the Turkish government wants to be consistent with this decision, it must drop that kind of “neo-Ottomanism” which conceals a subimperialistic role, useful to North American interests. Even better, if Turkey really wants to be a point of reference for muslim peoples of Mediterranean Sea and Middle East, it must break off its ties with NATO and with the Zionist regime. It is schizofrenic to destabilize Syria and at the same time to accuse Zionism and Israel of being, according Erdogan’s words, “a crime against humanity” and “a threat to regional peace”.

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Il lupo grigio al bivio

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SOMMARIO

 

Editoriale 

C. Mutti, Il lupo grigio al bivio

Geofilosofia

Aristotele, Popolazione e territorio della polis ideale

Dossario – Il lupo grigio al bivio

Aldo Braccio, La Repubblica turca a dieci anni dal centenario
Tancrède Josseran, È duro essere turchi
Davide Ragnolini, Il pensiero geopolitico del Giano turco
Mahdi Darius Nazemroaya, Neoottomanismo e teoria del sistema mondiale
Francesca Manenti, Turchia e Stati Uniti: evoluzione di un’alleanza
Alessandro Lattanzio, Le Forze Armate turche
Federico Donelli, La strategia energetica turca guarda verso il Kurdistan
Giuseppe Cappelluti, La Turchia e il Kazakhstan
Augusto Sinagra, La Repubblica Turca di Cipro del Nord
Lorenzo Salimbeni, Il grande malato
Emanuela Locci Atatürk, e la massoneria

Continenti
Carlo Fanti, Air Sea Battle
Ye Feng, L’esercito cinese: una forza di pace
Andrea Fais, Il ruolo della Bielorussia nel mondo multipolare
Giacomo Gabellini, L’offensiva di Tel Aviv

Documenti
La “Rivoluzione Democratica Nazionale” del Partito dei Lavoratori di Turchia
Jean Thiriart, Criminale nocività del piccolo nazionalismo: Sud Tirolo e Cipro

Interviste
La Turchia vista da Budapest. Intervista a Gábor Vona
Intervista all’ambasciatore tedesco in Italia

Recensioni
Nilüfer Göle, L’Islam e l’Europa. Interpenetrazioni (C. Mutti)
Carlo Frappi, Azerbaigian. Crocevia del Caucaso (C. Mutti)
Giovanni Bensi, Le religioni dell’Azerbaigian (C. Mutti)
Gamal Abd el-Nasser, La filosofia della rivoluzione (D. Ragnolini)
Imam ‘Alî ibn Abî Tâlib, Lettera a Mâlik al-Ashtar. Il governo dal punto di vista islamico (E. Galoppini)
Marco Di Branco, Storie arabe di Greci e di Romani. La Grecia e Roma nella storiografia arabo-islamica medievale (C. Mutti)
Fabio Vender, Kant, Schmitt e la guerra preventiva (D. Ragnolini)

 
 
 
Ecco di seguito l’elenco degli articoli presenti in questo numero, con un breve riassunto per ciascuno di essi.

 

 

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IL LUPO GRIGIO AL BIVIO

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È uscito il numero XXX (2-2013) della rivista di studi geopolitici “Eurasia” intitolato:

 

IL LUPO GRIGIO AL BIVIO

 

Ecco di seguito l’elenco degli articoli presenti in questo numero, con un breve riassunto di ciascuno di essi.

 

EDITORIALE

IL LUPO GRIGIO AL BIVIO di Claudio Mutti

 

 

GEOFILOSOFIA

POPOLAZIONE E TERRITORIO DELLA POLIS IDEALE di Aristotele

Considerando i dati fondamentali per l’esistenza della polis, Aristotele premette che la grandezza di uno Stato dipende più dalla potenza che non dal numero degli abitanti, nel quale sono compresi anche schiavi, meteci e stranieri; quindi bisogna evitare la sovrappopolazione, che è ostacolo al buon governo, e osservare il criterio del  giusto limite, poiché ogni cosa ha una misura che è determinata dalla sua funzione. La polis, nella fattispecie, trova la propria norma allorché la sua grandezza consente una visione sinottica della popolazione ed è compatibile con l’autarchia. Quanto al territorio della polis, la configurazione geografica migliore è quella che, corrispondendo alle prescrizioni strategiche, rende ardue le invasioni nemiche e agevola l’eventuale evacuazione. La città propriamente detta dovrà avere facile accesso al mare e a tutte le vie di terra, per poter ricevere tutto ciò che è necessario per la sua industria e per il suo consumo. Aristotele non ignora i pericoli ai quali si trova esposta una polis troppo vicina al mare, ma vede anche i vantaggi militari ed economici di una tale ubicazione ed assume una posizione realisticamente mediana. Quanto alla flotta, la sua importanza dipende dal ruolo politico che la polis intende svolgere nelle relazioni con gli altri Stati.

 

 

DOSSARIO: IL LUPO GRIGIO AL BIVIO

LA REPUBBLICA TURCA A DIECI ANNI DAL CENTENARIO di Aldo Braccio

Il 29 ottobre 2013 la Repubblica turca compirà 90 anni. Nata dalla dissoluzione dell’ecumene imperiale ottomana, essa si è subito caratterizzata per l’assunzione di postulati ideologici e culturali importati dall’Occidente per poi progressivamente allinearsi anche sul piano strategico e militare. La  storia della Repubblica tuttavia presenta una complessità meritevole di attenzione e anche fasi storiche in controtendenza, come per molti versi quella del primo decennio del nostro secolo. In previsione della celebrazione del Centenario, è molto avvertita l’aspirazione a recuperare il senso complessivo di un’esperienza pluridecennale da vivere non più in opposizione ad altre epoche storiche,  ma come parte di un tutto. Rendere effettiva la sovranità nazionale in un contesto geopolitico che sta mutando appare la principale sfida che la Türkiye Cumhuriyeti deve affrontare, in uno spirito di rinnovamento scevro da vecchie incrostazioni ideologiche e da subordinazioni atlantiche.

 

È DURO ESSERE TURCHI di Tancrède Josseran

Dalla fine degli anni Ottanta, in Turchia è emersa una corrente sovranista (ulusalci). Tutta l’originalità di questo movimento risiede nel suo apparente superamento del dualismo destra-sinistra. Esso è il frutto della convergenza di diverse tradizioni politiche. Così, una parte della sinistra kemalista si è avvicinata, grazie alla mediazione dei circoli militari, alla destra radicale. Gli esponenti di questa sintesi coniugano il rifiuto dell’imperialismo occidentale con l’affermazione di un’identità nazionale e statale forte. Ostile al processo di adesione all’Unione Europea, favorevole all’instaurazione di un asse continentale eurasiatico con Mosca, avversaria della mondializzazione liberale, questa corrente fa inoltre appello ai grandi canoni del kemalismo classico: rifiuto delle alleanze militari asimmetriche, insistenza sull’idea di una via specifica del mondo turco. Suat Ilhan è oggi uno dei rappresentanti più noti di questa corrente sovranista. In un libro-manifesto, Ilhan disegna un panorama della storia dei Turchi e delle grandi sfide che essi devono affrontare.

 

IL PENSIERO GEOPOLITICO DEL GIANO TURCO di Davide Ragnolini

Il pensiero geopolitico dell’attuale ministro degli Esteri turco ha svolto un ruolo essenziale per il fenomeno di “rinascita” della nazione anatolica. La sua teoria contiene i lineamenti di una politica estera in cui la storia e il topos del Paese sono elementi essenziali per quella che Schmitt definirebbe una “coscienza della struttura spaziale dell’ordinamento” assunta da un attore geopolitico. Il volto dell’attore geopolitico turco appare duplice come quello di Giano, tra passato prekemalista e futuro, tra Oriente e Occidente; esso contiene la possibilità teorica di una crescita della sovranità geopolitica turca nel Vicino Oriente e sul piano globale, ma anche la genesi delle ambiguità della prassi geopolitica del governo Erdoğan-Davutoğlu. L’apertura geopolitica turca, realizzatasi in modo crescente a partire dalla fine del mondo bipolare, sembra condurre il Paese verso un’egemonia regionale, ma in uno scenario in cui le mosse dell’attore turco appaiono ricche di conseguenze e al contempo imprevedibili.

 

NEOOTTOMANISMO E TEORIA DEL SISTEMA MONDIALE di Mahdi Darius Nazemroaya

Il “neoottomanismo” è il nucleo della politica di “zero problemi coi vicini” del Primo Ministro Recep Tayyip Erdoğan e del Ministro degli Esteri Ahmet Davutoğlu. Questa politica è, in sostanza, un espedientecapitalista finalizzato a sostenere il potere economico turco. In origine, essa mirava a preparare la Turchia per la trasformazione del sistema capitalista mondiale e per lo spostamento del suo centro egemonico. Ma gli Stati Uniti, nel loro declino in quanto centro di accumulazione del sistema capitalista mondiale, sono stati costretti ad attribuire le loro funzioni e il loro potere ad alcuni Paesi legati all’imperialismo americano. Ciò ha indotto la Turchia ad iniziare una competizione per il potere regionale nel quadro di un sistema mondiale che ha Washington nel proprio centro egemonico. Ecco perché Ankara si è orientata verso gli Stati Uniti durante la cosiddetta “Primavera araba”. Ma in questo processo la Turchia ha assunto una posizione inflessibile nei riguardi della crisi della Siria, perché vorrebbe che a Damasco si installasse un regime filoturco.

 

TURCHIA E STATI UNITI: EVOLUZIONE DI UN’ALLEANZA di Francesca Manenti

L’ascesa al governo del Partito della Giustizia e dello Sviluppo ha segnato un momento di grande cambiamento per la politica turca interna e internazionale. La forte assertività che ha da subito contraddistinto le scelte del governo dell’AKP ha indotto molti studiosi ad interrogarsi su un possibile spostamento dell’asse di alleanze della Turchia verso il Vicino Oriente a discapito delle sue alleanze occidentali. In realtà nel decennio appena trascorso si è assistito ad una trasformazione del rapporto tra Ankara e Washington..  

 

LE FORZE ARMATE TURCHE di Alessandro Lattanzio

L’esercito turco, coi suoi quattrocentomila effettivi, è il più numeroso della NATO dopo quello statunitense, mentre l’aviazione militare turca è la terza per dimensioni dopo l’United States Air Force e la Royal Air Force; la marina militare dispone comprende un congruo numero di fregate, corvette, sottomarini, motovedette lanciamissili, cacciamine, navi d’assalto anfibie ecc. L’articolo è una sintetica presentazione dello stato delle Forze Armate turche, sulla base dei dati resi pubblici nel 2010.

 

LA STRATEGIA ENERGETICA TURCA GUARDA VERSO IL KURDISTAN di Federico Donelli

Le risorse che la Turchia ha a disposizione non sono sufficienti a coprire l’aumento del fabbisogno energetico nazionale, che segna una costante crescita parallela all’incessante sviluppo dell’economia. Ciò ha portato il tasso di dipendenza energetica turco dal 51% dei primi anni Novanta all’attuale 71%. L’alto costo dell’importazione di energia rischia però di intaccare la competitività del Paese sul mercato, frenando e frustrando l’aspirazione di un intero popolo e del Primo Ministro Recep Tayyip Erdoğan, desideroso di fare della Turchia un protagonista politico ed economico su scala globale. Per queste ragioni il futuro degli immensi giacimenti delle province curde dell’Iraq settentrionale rappresenta per la Turchia una potenziale soluzione delle sue esigenze energetiche.

 

LA TURCHIA E IL KAZAKHSTAN di Giuseppe Cappelluti

Dopo la fine dell’Unione Sovietica, le nuove Repubbliche turche dell’Asia centrale hanno dato vita ad una fruttuosa cooperazione con la repubblica turca dell’Anatolia, sia nell’ambito culturale sia in quello più strettamente economico e geostrategico. Sotto quest’aspetto, importante è il ruolo assunto dal Kazakhstan, in particolare negli ultimi anni. Nello stesso periodo, però, anche i rapporti tra Russia e Turchia hanno vissuto una forte crescita, malgrado le divergenze su alcune tematiche, mentre il progetto di integrazione eurasiatica sotto egida russa si sta tramutando in realtà.

 

LA REPUBBLICA TURCA DI CIPRO DEL NORD di Augusto Sinagra

A Cipro esistono due Stati: la Repubblica Turca di Cipro del Nord e la Repubblica greco-cipriota. La Turchia svolge fin dal 1960 una funzione di garanzia e protezione militare della comunità turco-cipriota con la presenza di suoi contingenti (e così pure la Grecia per la comunità greco-cipriota). Della effettività e legittimità internazionale dello Stato turco-cipriota non può dubitarsi. Le relazioni politiche, economiche e commerciali di questo con la Turchia non possono essere legittima circostanza per condizionare l’eventuale adesione della Turchia alla Unione Europea come Stato membro a pieno titolo.

 

IL GRANDE MALATO di Lorenzo Salimbeni

Tra il 1804 ed il 1912, i possedimenti dell’Impero Ottomano nella penisola balcanica vennero attraversati da una serie di rivolte, insurrezioni e rivendicazioni di carattere nazionale, sovente sostenute da potenze interessate a sostituire l’area di influenza della Sublime Porta nell’Europa orientale (Russia e Austria in primis, Francia e Inghilterra in secundis). Durante questo secolo di sconvolgimenti, la compagine imperiale andò dissolvendosi e comparvero stati nazionali che avrebbero ben presto iniziato a combattersi per definire i propri confini, con conseguenze che ancor oggi si fanno sentire. Contemporaneamente, un processo di riforme capaci di modernizzare “il grande malato” ottomano compì solo che false partenze sino all’ascesa al potere dei Giovani Turchi, i quali, però, in sostanza, proposero una forma di nazionalismo che non riuscì a salvare il secolare impero.

 

ATATÜRK E LA MASSONERIA di Emanuela Locci

Mustafa Kemal Atatürk era un massone? Se non lo era, quali relazioni lo legavano alla massoneria e per quanto tempo ha coltivato rapporti con questa organizzazione segreta? A cosa si deve l’ordine di scioglimento che egli diede nel 1935? Queste sono soltanto alcune fra le domande che hanno animato il dibattito storico sulla figura del fondatore della Turchia moderna, interrogativi cui questo breve saggio si propone di dare una risposta fondata sulle ultime acquisizioni storiografiche e su testimonianze dirette interne alla massoneria stessa. 

 

 

CONTINENTI

AIR SEA BATTLE di Carlo Fanti

Il presidente Obama non aveva mai dato ad intendere di considerare i Cinesi come potenziali nemici, come una minaccia per la sicurezza e per gli interessi nazionali americani, almeno fino al 6 gennaio 2012. In quell’occasione, con il documento Sustaining US Global Leadership: Priorities for 21st Century Defense, egli probabilmente è andato contro le sue convinzioni personali, azionando meccanismi che forse non credeva così automatici e spostando chiaramente il focus strategico americano sull’Asia orientale a discapito delle altre macroaree geostrategiche. 

 

L’ESERCITO CINESE: UNA FORZA DI PACE di Ye Feng

Il Col. Sup. Ye Feng, Addetto Militare navale ed aeronautico dell’Ambasciata della Repubblica Popolare Cinese a Roma, espone i motivi dai quali trae la certezza che l’Esercito di Liberazione Popolare, erede della antica tradizione di buon vicinato, rimarrà per sempre un’importante forza di pace nel mondo. 

 

IL RUOLO DELLA BIELORUSSIA NEL MONDO MULTIPOLARE di Andrea Fais

Dopo il crollo dell’URSS, la Bielorussia ha visto da vicino il dramma della deflagrazione e della guerra civile, piombando nella crisi sociale e nell’incertezza più totale. L’ascesa al potere del presidente Aleksandr Lukašenko nel 1994 ha risollevato le sorti dell’economia e della cultura nazionale a partire dall’eredità del periodo sovietico, e ripristinato quel legame storico, politico e spirituale con Mosca che la stragrande maggioranza della popolazione rivendicava e rivendica a gran voce, confermando in massa la fiducia alla linea politica che da quasi venti anni determina l’indirizzo di governo del Paese.

 

L’OFFENSIVA DI TEL AVIV di Giacomo Gabellini

Unitamente alle pressioni esercitate costantemente sul Congresso e sulla presidenza statunitense (anche per mezzo della potente lobby ebraica) affinché Washington radicalizzasse l’atteggiamento ostile nei confronti dell’Iran, Tel Aviv non ha esitato ad attuare una strategia particolarmente aggressiva, che rischia di minare i fragili e precari equilibri su cui si reggono il Vicino e il Medio Oriente.

 

 

DOCUMENTI

LA “RIVOLUZIONE DEMOCRATICA NAZIONALE” DEL PARTITO DEI LAVORATORI DI TURCHIA 

Il Partito dei Lavoratori (İşçi Partisi), guidato da Doğu Perinçek, è l’erede del Partito dei Lavoratori e dei Contadini di Turchia e del Partito Socialista. Il partito si autodefinisce “socialista scientifico” e difende i valori della Rivoluzione kemalista del 1923. La sua strategia è quella della “Rivoluzione Democratica Nazionale”, che richiama la “Rivoluzione di Nuova Democrazia” formulata molti anni fa in Cina da Mao Zedong. Ultimamente il partito ha combinato le teorie del socialismo di mercato, elaborate in Cina alla fine degli anni ‘70, con l’esperienza kemalista, al fine di delineare un nuovo modello economico adeguato alle condizioni sociali in Turchia. 

 

CRIMINALE NOCIVITÀ DEL PICCOLO NAZIONALISMO: SUD TIROLO E CIPRO di Jean Thiriart

Jean Thiriart, Criminelle nocivité du petit-nationalisme: Sud-Tyrol et Chypre, “Jeune Europe”, 6 mars 1964, p. 173. Il tema della Turchia vienne successivamente ripreso da Thiriart nella lunga intervista (inedita) Les 106 reponses à Mugarza: “il Bosforo costituisce il centro di gravità di un Impero che in un senso va da Vladivostok alle Azzorre e nell’altro dall’Islanda al Pakistan” (p. 37); “le campagne di stampa antiturche sono non solo di pessimo gusto, ma sono idiozie politiche. (…) L’Europa conterrà dei Turchi, dei Maltesi, dei Siciliani, degli Andalusi, dei Kazaki, dei Tartari di Crimea – se ne rimangono ancora – e degli Afgani” (p. 141). Un ulteriore sviluppo dell’argomento è costituito da un articolo del 1987, La Turquie, la Méditerranée et l’Europe, reperibile in rete: http://www.voxnr.com/cc/d_thiriart/EEEkyFlVkFewHhVibX.shtml

 

 

INTERVISTE

LA TURCHIA VISTA DA BUDAPEST. INTERVISTA A GÁBOR VONA, a cura di Claudio Mutti 
Gábor Vona, deputato al Parlamento ungherese, è segretario del “Movimento per un’Ungheria migliore” (Jobbik).

 

INTERVISTA A REINHARD SCHÄFERS, AMBASCIATORE TEDESCO IN ITALIA, a cura di Stefano Vernole
Reinhard Schäfers è un diplomatico tedesco. Dal 2012 è ambasciatore della Repubblica Federale Tedesca accreditato in Italia.

 

 

RECENSIONI

Nilüfer Göle, L’Islam e l’Europa. Interpenetrazioni (Claudio Mutti)

Carlo Frappi, Azerbaigian. Crocevia del Caucaso (Claudio Mutti)

Giovanni Bensi, Le religioni dell’Azerbaigian (Claudio Mutti)

Gamal Abd el-Nasser, La filosofia della religione (Davide Ragnolini)

Imam ‘Alî ibn Abî Tâlib, Lettera a Mâlik al-Ashtar. Il governo dal punto di vista islamico (Enrico Galoppini)

Marco Di Branco, Storie arabe di Greci e di Romani. La Grecia e Roma nella storiografia arabo-islamica medievale (Claudio Mutti)

Fabio Vender, Kant, Schmitt e la guerra preventiva (Davide Ragnolini)

 

 

 

 

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IL LUPO GRIGIO AL BIVIO

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Sommario del numero XXX (2-2013)

 

La Turchia è Europa

La regione chiamata con termine greco-bizantino Anatolia (“terra di levante”) nell’antichità fu considerata parte integrante dell’Europa: Erodoto1 fissa infatti il confine orientale dell’Europa sul fiume Fasi, nei pressi degli odierni porti georgiani di Poti e Batumi. Nel Medioevo Dante colloca “lo stremo d’Europa”2 vicino ai monti dell’Asia Minore, dai quali, dopo la distruzione di Troia, l’Aquila imperiale spiccò il volo verso l’Italia. Per la geografia moderna, la penisola anatolica è la propaggine più occidentale dell’Asia; tuttavia alcuni geografi la considerano più che altro la quarta penisola del Mediterraneo, data la sua posizione analoga a quella delle penisole iberica, italiana e greca.

Sotto il profilo etnico, il popolo turco stanziato nella penisola anatolica costituisce il risultato di una sintesi che ha coinvolto popoli di diversa origine. Fin dall’antichità, l’Anatolia è stata abitata da popolazioni di lingua indoeuropea: Ittiti, Frigi, Lidi, Lici, Panfili, Armeni, Celti ecc. Con l’arrivo dei Turchi Selgiuchidi e poi dei Turchi Ottomani, ebbe luogo una fusione dell’elemento autoctono con quello turanico, sicché oggi si ha in Turchia “un tipo medio, che va considerato più di fattezze europee che asiatiche”3. In altre parole, i Turchi dell’Anatolia “sono in maggioranza europidi purissimi, passati nel tempo all’uso di una lingua turca a opera dei loro conquistatori centro-asiatici”4.

La lingua ufficiale della Turchia, il turco ottomano (osmanli), come tutte le lingue turco-tatare appartiene al gruppo altaico. Si tratta perciò di una lingua non indoeuropea, così come non sono indoeuropee altre lingue parlate da secoli in Europa: le lingue turco-tatare della Russia, le lingue caucasiche, il basco, le lingue ugrofinniche (ungherese, finlandese, estone, careliano, lappone, mordvino, ceremisso, sirieno, votiaco ecc.).

La religione professata dalla quasi totalità del popolo turco è l’Islam, presente in Europa fin dall’VIII secolo d.C. La Turchia è musulmana così come lo sono state la Spagna, la Francia meridionale e la Sicilia; come lo sono alcune regioni della Russia, del Caucaso e dei Balcani; come lo è oggi una parte della popolazione dell’Europa, dove il numero complessivo dei musulmani supera ormai i dieci milioni di anime.

La dinastia che resse l’Impero ottomano fino alla sua caduta fu in sostanza una dinastia europea, nella quale il tasso di sangue turco diminuiva ad ogni generazione, poiché la validé (la madre del Sultano) era o greca, o slava o circassa o anche italiana. In un certo senso, si potrebbe dunque dire che i Sultani ottomani erano “più europei” che non i re ungheresi della dinastia di Arpád, turanici per parte di padre e di madre. Quanto alla classe dirigente ottomana, furono innumerevoli i visir, i funzionari politici e gli ufficiali dell’esercito appartenenti ai popoli balcanici. Gli stessi giannizzeri, l’élite militare dell’Impero, non erano d’origine turca.

Il pontefice Pio II, nella lettera da lui inviata nel 1469 a Mehmed il Conquistatore, riconobbe il Sultano come “imperatore dei Greci” de facto, in quanto successore dei basileis di Bisanzio e degli imperatori di Roma: “Fuerunt Itali rerum domini, nunc Turchorum inchoatur imperium”. Papa Enea Silvio Piccolomini proponeva quindi al Conquistatore di trasformare la situazione de facto in stato de jure, facendosi nominare da lui “imperatore dei Greci e dell’Oriente” mediante… “un pochino d’acqua (aquae pauxillum)”. Ma, mentre un altro principe “pagano”, il magiaro Vajk, si era fatto battezzare col nome di Stefano e aveva ricevuto da Papa Silvestro II la corona regale, Mehmed invece rimase Mehmed e trasmise ai suoi successori quell’autorità imperiale che, toccatagli per effetto dell’ordalia del maggio1453, era stata ben presto riconosciuta dall’Europa in maniera esplicita e ufficiale. Secondo la Repubblica di Venezia, infatti, Mehmed II era imperatore di Costantinopoli, cosicché gli spettavano di diritto tutti i territori dell’impero bizantino, comprese le vecchie colonie greche della Puglia (Brindisi, Taranto e Otranto). Per quanto riguarda Firenze, Lorenzo il Magnifico fece coniare una medaglia sulla quale, accanto all’immagine del Conquistatore, si poteva leggere: “Mahumet, Asie ac Trapesunzis Magneque Gretie Imperat(or)”; dove per Magna Gretia si doveva intendere Bisanzio col suo vasto retroterra europeo. Altre due medaglie, che parlavano anch’esse un linguaggio inequivocabile circa il carattere rivestito dall’imperium ottomano, furono fatte coniare nel 1481 da Ferrante d’Aragona; le iscrizioni qualificavano Mehmed II come “Asie et Gretie imperator” e “Bizantii imperator”.

“Fatto come i Romani per reggere i popoli, secondo l’affermazione dell’antico poeta, [il Turco] ha governato vecchi popoli civili nel rispetto delle loro tradizioni e delle loro ambizioni millenarie”5. Così l’Impero ottomano, subentrando all’Impero Romano d’Oriente, fu “l’ultima ipostasi di Roma (…) la Roma musulmana dei Turchi”6, ovvero “un Impero romano turco-musulmano”7. La Turchia ottomana fu perciò una potenza europea, come venne d’altronde ufficialmente riconosciuto dagli stessi rappresentanti degli Stati europei nel congresso di Parigi del 1856, quando la Turchia era diventata “il grande malato d’Europa”.

Un secolo e mezzo più tardi lo Stato turco non è più il grande malato d’Europa, ma, al contrario, gode di uno stato di salute migliore di quello di molti Paesi europei. Tuttavia, pur essendo candidata dal 1999 all’ingresso nell’Unione Europea, la Turchia viene tenuta in quarantena a tempo indeterminato. La sua adesione all’Unione, fissata per il 2015, è tutt’altro che scontata.

 

 

La Turchia è Asia

Il primo insediamento di un popolo turco sul territorio anatolico ebbe luogo in seguito alla battaglia di Melashgert, avvenuta il 26 agosto 1071, nella quale le truppe comandate da Romano Diogene furono sbaragliate dai guerrieri selgiuchidi di Alp Arslan. Con questi primi invasori turchi erano arrivati in Anatolia anche i Turchi ottomani, ai quali fu inizialmente assegnata una marca di confine fra i territori selgiuchidi della Frigia e della Galazia e la provincia di Bitinia, ancora sotto controllo bizantino; l’indebolimento della potenza selgiuchide favorì la nascita dell’impero ottomano.

Ma già prima che Selgiuchidi e Ottomani giungessero in Anatolia, tra i secoli VI e IX diversi gruppi turchi si erano stanziati in Europa. I Cazari avevano fondato un impero che dalle rive nordoccidentali del Caspio si estendeva fino alla Crimea; i Bulgari avevano costituito due distinti khanati, nei bacini della Volga e del Danubio; gli Avari erano dilagati fino ad occidente del Tibisco; i Peceneghi avevano occupato le foci del Danubio; i Qipciaq e i Cumani si erano stabiliti a nord e a nordest del Mar Nero. Prima ancora, nel IV secolo, nei territori dell’Impero romano erano apparsi gli Unni, che sotto la guida di Attila (m. 453) sarebbero poi assurti a grande potenza creando un impero; essi erano i probabili discendenti di quegli Hsiung-nu che per qualche secolo avevano minacciato l’Impero cinese.

Selgiuchidi e Ottomani, antenati dei Turchi d’Anatolia e degli Azeri, costituiscono una delle tre parti in cui si divise, tra i secoli X e XII, la massa di tribù turche nota come gruppo oguzo. La seconda, costituita inizialmente da Uzi e Peceneghi, è rappresentata oggi dai Gagauzi (sparsi tra Ucraina, Repubblica di Moldavia, Romania e Bulgaria) nonché da varie comunità turche dei Balcani. La terza parte del gruppo oguzo è quella che, rimasta rimasta nei pressi dell’Aral, diede origine al popolo dei Turkmeni.

Premesso che  i vari sistemi di classificazione delle lingue e dei dialetti turchi proposti dai turcologi “sono tutti necessariamente artificiosi nel tentativo di raggruppare concrezioni linguistiche di età differente”8, è comunque possibile collocare il gruppo oguzo nel ramo occidentale della famiglia turca, al quale appartengono anche i gruppi bulgaro, kipciak e karluk.

Il gruppo bulgaro, che nell’Alto Medioevo comprendeva la lingua parlata dai Bulgari della Volga e della Kama, nonché la lingua cazara, è rappresentato attualmente dal ciuvascio, parlato sui territori di tre repubbliche autonome della Federazione Russa.

Il gruppo kipciak viene ripartito in tre sottogruppi, al primo dei quali appartenne la lingua di quei Cumani che, apparsi nell’Est europeo nel sec. XI, in parte si stanziarono in territorio ungherese; le lingue vive di questo sottogruppo sono parlate da circa cinque milioni di anime tra Lituania, Ucraina, Caucaso, Kirghizistan e Uzbekistan. Il secondo sottogruppo è costituito da Tatari e Baskiri. Fra le tre lingue del terzo sottogruppo, la più importante è quella kazaka, lingua ufficiale del Kazakhstan.

Il gruppo karluk comprende, oltre ad alcune lingue antiche e letterarie, due lingue parlate in vari territori dell’Asia centrale: l’usbeco (ufficiale in Uzbekistan) e l’uiguro moderno (ufficiale nella Regione Autonoma dello Hsinkiang).

Per quanto riguarda il ramo orientale della famiglia turca, esso comprende il gruppo uiguro-oguzo e quello kirghiso-kipciak. Nel primo gruppo rientrano, assieme ad altri idiomi, il tuvino, parlato nell’omonima repubblica della Federazione Russa, e lo jacuto, che corrisponde alle zone più settentrionali ed orientali dell’area turcofona (Repubblica Jacuta e isola di Sachalin). Nel secondo gruppo, la lingua più diffusa è il chirghiso, che è parlata in Kirghizistan, Tagikistan, Uzbekistan, Hsinkiang, Afghanistan e Pakistan.

Fatta eccezione per la lingua parlata anticamente dai Bulgari, per lo jacuto e per il ciuvascio, le lingue turche antiche e moderne non differiscono molto tra loro, sicché risulta evidente il rapporto di affinità linguistica che lega i Turchi dell’Anatolia agli altri popoli turchi che vivono nel continente eurasiatico.

 

 

Prospettive eurasiatiche

Non è facile stabilire dove gli antenati della grande famiglia turca abbiano avuto la loro primitiva dimora, dalla quale ondate successive di orde nomadi partirono per invadere i territori della Cina, dell’India, della Persia e dell’Europa. Secondo le ipotesi formulate dagli studiosi, la sede originaria dei Turchi dovrebbe coincidere con la zona dei monti Altai o con la regione compresa tra gli Altai, gli Urali e l’Ural, mentre altri ritengono che essa si sarebbe trovata a nord della Cina, nell’odierna Jacuzia; altri ancora indicano la vasta area che va dal deserto del Gobi fino al corso della Volga.

L’identificazione dell’Urheimat turco con la regione designata dal termine persiano Turan, a nord dell’Iran, costituisce il mito d’origine del movimento politico-culturale noto come panturanismo, che preconizza l’unità dei popoli turchi. Della tesi panturanista, nata nel quarto decennio del XX secolo in ambiente tataro, si appropriò Ármin Vámbéry9, il quale la propose alla Gran Bretagna come uno strumento ideologico da utilizzare nel “Grande Gioco”: una grande entità politica compresa tra i Monti Altai e il Bosforo avrebbe potuto sbarrare per sempre la strada all’espansione russa verso la Persia e i Dardanelli. Ben diverso fu il significato che l’ideale panturanico assunse nei primi anni del Novecento, quando fu la Germania guglielmina, alleata della Turchia, a sostenere il panturanismo e il panislamismo nel quadro geostrategico di un asse Berlino-Vienna-Istanbul-Bagdad che metteva a rischio l’egemonia coloniale britannica.

Anche Samuel Huntington ha preso in seria considerazione l’eventualità che, ponendosi “a capo di una comunità di nazioni turche”10, la Turchia “si ridefinisca come paese leader del mondo islamico”11 e persegua “sempre più intensamente i propri interessi particolari nei Balcani, nel mondo arabo e in Asia centrale”12. Il teorico dello “scontro delle civiltà” ha riassunto nei termini seguenti le iniziative intraprese da Ankara in direzione turanica subito dopo il crollo dell’URSS: “Il presidente Özal e altri leader turchi cominciarono a vagheggiare la creazione di una comunità di popoli turchi e dedicarono grandi sforzi per sviluppare legami con i ‘turchi esterni’ dell’ex impero ‘dall’Adriatico ai confini con la Cina’. Particolare attenzione venne prestata all’Azerbaigian e alle quattro repubbliche centroasiatiche di lingua turca: Uzbekistan, Turkmenistan, Kazakistan e Kirghizistan. Nel 1991 e 1992 la Turchia avviò un’ampia gamma di iniziative volte a rinsaldare i legami e ad accrescere la propria influenza in queste nuove repubbliche: prestiti a lungo termine e a interesse agevolato (…) assistenza umanitaria (…) televisione via satellite (…) reti telefoniche, servizi aerei, migliaia di borse di studio e corsi di formazione in Turchia per banchieri, imprenditori, diplomatici e ufficiali centroasiatici e azeri. Furono inviati insegnanti di lingua turca e sono nate circa duemila imprese miste. La comunanza culturale ha certamente aiutato i rapporti economici”13.

Nell’elaborazione geopolitica di Ahmet Davutoğlu14, consigliere diplomatico di Erdoğan diventato ministro degli Esteri nel 2009, la comunità dei popoli turchi occupa un posto fondamentale: “L’impero delle steppe, l’Orda d’Oro, dal Mar d’Aral all’Anatolia è un punto fermo del suo pensiero. La Turchia ha ogni interesse a rivivificare questa vocazione continentale e ad avvicinarsi al gruppo di Shanghai sotto la bacchetta della Cina e della Russia”15. La lentezza con cui procedono i negoziati per l’adesione all’Unione Europea è stata determinante per spingere Ankara nella direzione teorizzata da Ahmet Davutoğlu, il quale ha firmato nell’aprile 2013 un protocollo d’intesa che fa della Turchia un “membro dialogante” dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai. “Ora, con questa scelta, – ha dichiarato Dmitrij Mezencev, segretario generale dell’Organizzazione – la Turchia afferma che il nostro destino è il medesimo dei Paesi dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai”. E Davutoğlu: “La Turchia farà parte di una famiglia composta di paesi che hanno vissuto insieme non per secoli, ma per millenni”.

La decisione turca di aggregarsi all’Organizzazione di Shanghai, nucleo di un potenziale blocco di alleanza eurasiatica, potrebbe essere gravida di importanti sviluppi. Infatti la politica di avvicinamento a Mosca, Pechino e Teheran, se coerentemente perseguita, si rivelerebbe incompatibile con un “neoottomanismo” che malamente nasconde un ruolo subimperialista, funzionale agl’interessi egemonici statunitensi. Non solo, ma prima o poi la Turchia potrebbe porre seriamente in discussione il proprio inserimento nell’Alleanza Atlantica e rescindere i vincoli col regime sionista, qualora intendesse credibilmente proporsi come punto di riferimento per i Paesi musulmani del Mediterraneo e del Vicino Oriente. E non è nemmeno da escludere che uno scenario di tal genere possa indurre l’Europa stessa ad un’assunzione di responsabilità, incoraggiandola a riannodare quell’alleanza con la Turchia che la Germania e l’Austria-Ungheria avevano stabilita all’inizio del secolo scorso…

Börteçine,il lupo grigio che guidò i Turchi verso l’Anatolia, oggi si trova ad un bivio. Non si tratta di scegliere tra l’Europa e l’Asia, ma tra l’Occidente e l’Eurasia.

 

 

Claudio Mutti, direttore di “Eurasia”.

 

 

1. Erodoto, IV, 45.

2. Dante, Par. VI, 5.

3. R. Biasutti, Le razze e i popoli della terra, Utet, Torino 1967, vol. II, p. 526.

4. S. Salvi, La mezzaluna con la stella rossa, Marietti, Genova 1993, p. 60.

5. R. Grousset, L’empire des steppes, Payot, Paris 1939, p. 28.

6. N. Iorga, cit. in I. Buga, Calea Regelui, Bucarest 1998, p. 138.

7. A. Toynbee, A Study of History, London – New York – Toronto 1948, vol. XII, p. 158).

8. A. Bombaci, La letteratura turca, Sansoni-Accademia, Firenze-Milano 1969, p. 17.

9. Ármin Vámbéry (pseud. di Hermann Bamberger) nacque il 19 marzo 1832 da una famiglia ebraica che si era stabilita a Szentgyörgy, nei pressi dell’attuale Bratislava. Dopo avere studiato il turco, nel 1857 andò a Istanbul, dove rimase fino al 1861. Partito per l’Asia centrale, si spacciò per derviscio ed arrivò a Khiva, Bukhara e Samarcanda. Rientrato a Pest, si recò successivamente a Londra, dove, per i servigi resi alla Gran Bretagna, fu nominato membro onorario della Royal Geographical Society e ricevuto dalla corte reale inglese. Nel 2005 gli Archivi nazionali di Kiev hanno rivelato che Vámbéry lavorò per il British Foreign Office come agente e spia nel “grande gioco” in Asia centrale. Nel 1900-1901 si adoprò per procurare a Theodor Herzl un’udienza presso il Sultano Abdülhamid II. Morì il 15 settembre 1913.

10. S. P. Huntington, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Garzanti, Milano 2001, p. 211.

11. S. P. Huntington, op. cit., p. 234.

12. S. P. Huntington, op. cit., ibidem.

13. S. P. Huntington, op. cit., p. 210.

14. A. Davutoglu, Strategik derinlik [Profondità strategica], Kure yayinlari, Istanbul 2008.

15. T. Josseran, La nouvelle puissance turque. L’adieu à Mustapha Kemal, Ellipses, Paris 2010, pp. 42-43.

 

 

 

 

 

 

 

 

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GIUSTIZIA E SPIRITUALITÀ

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Sottotitolo: Il pensiero politico di Mahmoud Ahmadinejad
 
Autore: Alì Reza Jalali; Sepehr Hekmat


 
 
Descrizione: Il presidente Mahmoud Ahmadinejad è stato senza ombra di dubbio l’uomo politico iraniano più famoso del mondo in questa prima parte del XXI secolo. Grazie all’impegno del suo governo l’Iran si è rafforzato sia all’interno, che a livello internazionale. I suoi discorsi, le sue esternazioni e le sue parole hanno fatto il giro del mondo e hanno causato reazioni diverse in tutti i continenti. Le idee di questo uomo politico musulmano derivano sicuramente dalla scuola islamica sciita, e i concetti di “Giustizia” e “Spiritualità” sono la base dell’azione sociale di Ahmadinejad, sia in patria che all’estero. Egli è un seguace autentico della linea rivoluzionaria islamica tracciata dall’Imam Khomeini, guida del movimento che rovesciò la monarchia filoamericana dell’Iran nel 1979.
 
 

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UNA FORTEZZA IDEOLOGICA

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Sottotitolo: Enver Hoxha e il comunismo albanese

Autore: Marco Costa

Descrizione: Nonostante i numerosi anni trascorsi dalla sua morte, Enver Hoxha continua a rimanere una figura di primo piano nella storia del socialismo. Con il suo rigido e onnicomprensivo impianto ideologico, questo particolare uomo politico è riuscito a mettere in piedi un sistema profondamente originale, e a fare dell’Albania un’interlocutrice di rilievo dei principali Paesi socialisti (Unione Sovietica e Cina). Questo libro indaga gli aspetti fondamentali che hanno caratterizzato il regime edificato da Enver Hoxha, ripercorrendo le tappe cruciali che hanno segnato storia, cultura, economia e politica albanese.

 

Price: € 25,00

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VASILE LOVINESCU, REX ABSCONDITUS , EDIZIONI ALL’INSEGNA DEL VELTRO, PARMA 2012, PP. 52, € 12,00

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È nota l’esistenza di leggende che in tutta l’Eurasia parlano di sovrani ed eroi i quali, ritenuti morti, vivrebbero invece nascosti in qualche luogo recondito, destinati a manifestarsi alla fine dell’attuale ciclo d’umanità per restaurare un ordine di giustizia. Artù, Carlo Magno, Federico I di Svevia, Gesar de Ling, il Mahdi sono solo le figure più celebri di questo archetipo.

A questa serie di sovrani e di eroi appartiene anche Stefano il Grande, voivoda di Moldavia. Secondo Vasile Lovinescu, sarebbe proprio lui il personaggio raffigurato in un’icona del XVII secolo ai piedi dell’Arcangelo Michele “che fa il gesto dell’androgine ermetico” (come osservò René Guénon commentando la foto dell’icona).

 

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A DOMANDA…RISPONDE


EL CRIMEN ORGANIZADO TRANSNACIONAL EN AMÉRICA LATINA. HACIA UN NUEVA FORMA DE GUERRA

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Siguiendo el pensamiento de Raymond Aron, tomado de Clausewitz, que dice “la guerra es un camaleón”, afirmamos que la misma se encuentra en constante evolución y modificación. Mutando su naturaleza, contenidos, procedimientos y alcance. Y cuando creemos que se ha agotado en sus manifestaciones, se revela con mayor fuerza en otros aspectos, muchos más agresivos, morbosos e imprevistos.

La pregunta estratégica por definición no es aquella que se refiere al “qué hacer”, sino la que pregunta “de qué se trata”, cual es el eje del problema, lo medular, lo sustancial, lo conceptual. Si no se tiene el concepto de lo que ocurre, no se puede operar sobre la realidad. La misma se torna caótica, ingobernable.

  

Lo que es verdaderamente relevante, desde el punto de vista estratégico, es lo nuevo, no lo que se repite. El cambio y el conflicto derivado, no la continuidad y la estabilidad. La novedad, en el caso de la Guerra Fría, fue la ausencia de la derrota militar clásica, en batalla. Hubo un colapso estratégico, no militar, en el ámbito de esta confrontación mundial nuclear.

 

En efecto, durante el primer decenio la  “posguerra fría” (1991/2001) se registraron 108 conflictos armados, en 73 lugares diferentes del planeta, cubriendo todas las gradaciones de intensidad:

  • menores, en los cuales el número de bajas registradas durante su transcurso es superior a 25, pero menor a 1000;
  • intermedios, con más de 1000 bajas durante su transcurso pero, en cualquiera de los años considerados, menos de esa cantidad y más de 25; y
  • mayores (o literalmente guerras “de la primera especie”), con más de 1000 bajas fatales en cualquiera de sus años de desarrollo.

 

De los mencionados 108 conflictos, 92 de ellos fueron intraestatales, sin intervención de terceras partes externas; otros 9 fueron intraestatales, aunque con algún tipo de participación extranjera; finalmente, los 7 restantes fueron interestatales.

 

La guerra fría se caracterizó por la determinación y la identificación concreta de los adversarios en disputa. A través de la disuasión nuclear, se materializó la “pax nuclear”, los únicos 40 años de paz consecutivos en Europa, desde hace cinco siglos. La crisis actual es la repentina irrupción de lo novedoso, que cambia los datos del problema y provoca como efecto la obsolescencia de las categorías conocidas para resolver el conflicto. Estos, en vez de constituir hechos excepcionales, tienden a transformarse en acontecimientos permanentes.

 

El cambio tecnológico es la fuerza que impulsa el proceso de globalización de la economía mundial y en particular del sistema financiero, mientras desde el punto de vista político las culturas intentan su reafirmación, dentro de la integración o continentalismo.

 

Una de las características de la revolución tecnológica es el procesamiento de una masa de información que permite tomar decisiones estratégicas en tiempo real y a escala planetaria. Ello ha cambiado el ritmo de los acontecimientos en las culturas desarrolladas. Contrariamente, en las culturas subdesarrolladas han irrumpido las crisis generalizadas, abarcando a todos los sistemas institucionales: políticos, económicos o sociales.

 

Surge la percepción de una extraordinaria incertidumbre en regiones deprimidas, ante los cambios cualitativos que no pueden ser incorporados. Las categorías del pensamiento, propio de épocas pasadas, no están en condiciones de abarcar y conceptualizar lo que está pasando hoy. La clave del presente, ante lo expuesto es: limitar la incertidumbre, reconociendo el carácter inexorable del avance tecnológico, y  al mismo tiempo estar en condiciones de dar una respuesta, siempre tentativa, a la pregunta crucial: ¿Qué tenemos frente a nuestros ojos?, ¿Porqué ocurre?; y transformar esa incertidumbre en riesgo, a través del planeamiento. Acotar la irrupción de lo nuevo, sus condiciones y características: sus esencias. La tarea clave es ver lo que los ojos no ven, evitar bucear en la dualidad. Abarcar y focalizar lo nuevo, para concentrar las energías.

 

Ante una situación de irrupción de lo nuevo, la tarea fundamental está en el campo de la Inteligencia Estratégica. Pero por encima de la Inteligencia Estratégica está la Sabiduría Política, que consiste en dirigir los esfuerzos institucionales según la naturaleza del conflicto que tenemos por delante.

 

Ante un conflicto nuevo, que emerge, la responsabilidad de la seguridad estratégica del Estado, consiste en nunca dar por seguro lo peor, como decía Churchill. Pero, como complemento de esta afirmación, la responsabilidad político-estratégica–militar, consiste siempre en prever la peor hipótesis. Decía De Gaulle: “el Ejército es una Institución que de nada sirve, salvo cuando todo depende de ella”.

 

La confluencia entre el pensamiento estratégico y el político-diplomático, que nunca da por seguro lo peor, debe enfrentar hoy a los novísimos conflictos post-Guerra Fría. En éste mundo en constante cambio, de acelerado ritmo, las crisis constantes así lo exigen.

 

Hoy toda organización política estatal que no sea estructuralmente flexible y capaz de adaptarse dinámicamente al medio, a través del acceso directo e instantáneo a la información procesada, de alcance mundial, estará buscando inconscientemente su propia inmolación.

 

En nuestra opinión la versión contemporánea de la guerra civil está asociada a la ruptura del Estado. Podríamos conceptualizarla de  la siguiente forma: “Una parte de la comunidad rechaza los procedimientos establecidos para la resolución de conflictos y opta por recurrir a la fuerza armada para imponer sus criterios sobre la organización política, económica o territorial de la colectividad. Si la violencia entre los dos bandos se extiende en términos temporales y alcanza un cierto umbral de intensidad medido en perdidas humanas y materiales, se puede hablar de guerra civil. Durante el enfrentamiento, los rebeldes construyen un aparato paraestatal alternativo que oponen a la administración oficial. Durante un cierto tiempo, dos o más autoridades se enfrentan hasta que una destruye a la otra y monopoliza el control sobre población y territorio. Bajo esta definición se pueden englobar muchos de los enfrentamientos domésticos en el área Sur durante la última Guerra Mundial, comúnmente llamada “Guerra Fría”.[1]

 

La guerra, como cualquier otro fenómeno de la civilización en curso, está sometido a los cambios y vaivenes que experimenta la propia sociedad, ya sea por razones políticas, económicas, tecnológicas o de cualquier otra índole. La evolución de la guerra se ha caracterizado por una amplitud progresiva en todas sus magnitudes. La guerra hasta la revolución francesa llevaba una vida separada del conjunto de la sociedad. Según Leo Hamon[2], la guerra moderna se ha transformado en un fenómeno de masas, donde retaguardia y vanguardia tienden a confundirse. Donde las pérdidas en vidas humanas no discriminan entre combatientes y no combatientes. Y donde el respaldo técnico, industrial y económico, son aspectos claves en el desarrollo de este fenómeno. Por eso la guerra moderna, afirma el citado autor: “Exige una movilización psicológica que persuada a la Nación entera de la necesidad vital de aceptar estos sacrificios para evitar males mayores. Nadie ha de ignorar que concierne a todos”.

 

El carácter de los enfrentamientos civiles se puede entender con más precisión si se aplica el concepto de “guerras de tercera clase”, tal como lo desarrolla Kart Holsti[3]. Para dicho autor, este tipo de conflictos son una forma distinta de guerra, que se desarrolla en el interior de los Estados en lugar de hacerlo en la esfera internacional: “Los asuntos en juego no son intereses de política exterior, sino pugnas de raíz ideológica o problemas sobre la definición de la comunidad política que pueden conducir a UNA SECESIÓN O UNA UNIFICACION. En este contexto, las hostilidades tienden a prolongarse sin un acto formal que marque su inicio (declaración de guerra) ni su final (armisticio). No existen frentes, ni uniformes, ni respeto a los límites territoriales y la división entre combatientes y civiles se diluye, convirtiendo a todos por igual en objetivos. Estos rasgos hacen distintas a las “guerras de tercera clase”. No son conflictos sobre intereses, sino sobre hombres, en tanto que unidades básicas de la sociedad política.”

 

La historia demuestra que los grandes cambios sociales han influido decisivamente en la forma de relación social a través del enfrentamiento violento, conocido como guerra. La transición en curso desde la sociedad de la Revolución Industrial a la que resulta de la Revolución de la Información, nos anuncia otro cambio en los modos de hacer la guerra, cuyo alcance trataremos de definir.

 

Algunos autores como Lind, Schmitt y Wilson[4], brindaron una visión prospectiva de cómo podrá evolucionar el arte bélico hacia un estado que denominan la “Cuarta Generación de la Guerra”. Identifican las tres generaciones anteriores como aquellasbasadas, respectivamente, en el empleo masivo de hombres, del fuego y de la maniobra. En la actualidad se estaría entrando en la “cuarta generación” que, a pesar de los enormes adelantos tecnológicos, se basaría fundamentalmente en la fuerza de las ideas.

 

Se concretaría en un complejo enfrentamiento que abarcaría todos los aspectos de la actividad humana: cultural, social, política, económica y militar, empleando profusamente los medios de comunicación social y las redes informáticas para difundir mensajes.

 

A principios de los ’90, Martín Van Cleveld, profesor de la Universidad Hebrea de Jerusalén, en su obra “La Transformación de la Guerra”[5] anunciaba importantes cambios en los motivos por los que se hace la guerra, los actores que participan en ella, las finalidades que persigue y los modos que emplea. Su análisis parte de una premisa básica: “El paradigma que ha presidido la guerra moderna, en la que los Estados se ven abocados al conflicto bélico por razones de estado, empleando organizaciones militares permanentes para enfrentarse a otras parecidas, donde sus actores adquieren el carácter de combatientes, con las poblaciones apoyándolas pero separadas de ellos, en definitiva, lo que se conoce como la “trinidad clausewitziana” de pueblo, ejército y gobierno, ha sido históricamente, una excepción.

 

A lo largo de los tiempos, la guerra ha sido practicada por familias, clanes, tribus, ciudades, órdenes religiosas e incluso por empresas, como la Compañía de Indias Orientales británica. Los motivos por los que se iba a la guerra también han sido diversos: tierras de cultivo, mujeres, botín, esclavos, pureza de la raza. Normalmente se ha empleando a la población, en forma de milicia, como instrumento para hacer la guerra. La razón de estado como causa de guerra y las grandes burocracias militares como medio para llevarla  a cabo son rasgos de la modernidad, que se han desarrollado paralelamente con el auge del Estado-Nación moderno.

 

La conversión de los individuos a una determinada creencia o conciencia, ha sido uno de los objetivos clave de la guerra. Paralelamente, rasgos étnicos, culturales, sociales o ideológicos identifican a miembros de otra comunidad como adversarios, al margen de que empuñen o no un arma. La consecuencia inevitable es que, en estos casos, guerra y política dejan de ser la continuación una de la otra, para fusionarse en una única actividad.

 

El papel clave del Estado, como única fuente legitima de empleo de la fuerza, se fragmenta en esos casos en una serie de grupos facciosos que se arrogan ese derecho, sobre un palmo de territorio y población. Desde luego, es propio de los conflictos domésticos un cierto grado de caos y los combatientes de las “guerras de tercera clase” no son ejércitos bien organizados, atados al derecho de la guerra, sino bandas o grupos irregulares coordinados de una forma más o menos vaga, operando fuera de toda “convención”.

 

Sin embargo las nuevas guerras internas, en la posguerra fría, van más allá: desarrollan  enfrentamientos entre un número indefinido de núcleos de poder independientes que actuando en red y con agenda propia de intereses, poseen recursos militares y económicos suficientes para impulsar desafíos hasta hoy desconocidos. La multiplicación de las bandas criminales organizadas provoca una multiplicidad de delitos que agravian la supervivencia del Estado, impulsan al delito común e inducen a los ciudadanos a asumir la responsabilidad por su propia seguridad y perseguir sus objetivos por el único medio posible, en ese clima social, el uso de las armas.

 

Es este escenario, de generalización conflictiva, lo que se puede definirse como “expansión y descentralización de la violencia”. Un proceso cuya fase final parece conducir a un retorno al estado de naturaleza, en el sentido “hobbesiano” del término. La descentralización y expansión de la violencia implica necesariamente una fusión de la violencia política y el delito común.

 

Una serie de factores contribuyen a este proceso. Para empezar, la debilidad institucional del aparato estatal y el consecuente caos, propio de los conflictos civiles, crea las condiciones para una creciente impunidad, que retroalimenta su explosiva expansión. Pero además, la separación entre organizaciones criminales y organizaciones políticas violentas, tiende a difuminarse. Delincuentes e insurgentes se distinguen por sus fines. Los primeros buscando el beneficio económico y los segundos centrados en sus objetivos políticos. Sin embargo, esta separación ideal tiende a borrarse. Para empezar, terroristas y guerrilleros politizados se involucran en actividades criminales para financiarse. El caso de la guerrilla colombiana y el tráfico de narcóticos resultan muy ilustrativos. Es muy común la práctica de otras acciones delictivas, como el secuestro y la extorsión, hasta el punto de que muchas veces resulta difícil identificar cuando una acción ha sido cometida por una organización de raíz política o puramente criminal.

 

Además, es posible encontrar a grupos del crimen organizado que tienden a politizarse en la medida en que sus intereses crecen, hasta convertirse en un problema de Estado. La infiltración del Crimen Organizado Transnacional en las estructuras políticas latinoamericanas, en la actualidad, es un ejemplo acabado de esta afirmación.

 

Un factor que ayuda a explicar la proliferación de los procesos de descentralización de la violencia en el contexto de la Posguerra Fría es la creciente debilidad de los aparatos estatales, particularmente en los países del antiguo bloque soviético y del mundo subdesarrollado. En el caso de los antiguos Estados socialistas, la ineficacia y corrupción de la antigua burocracia totalitaria, el hundimiento de la economía centralizada y la crisis de legitimidad del poder político, unidos al surgimiento de nacionalismos disgregadores, han hundido al Estado en una crisis de supervivencia.

 

En lo que a Latinoamérica respecta, desde el comienzo de la Guerra Fría en 1947, conjuntamente con algunas regiones de África y del sudeste asiático, ha sido el espacio de confrontación indirecta de ambos bloques imperiales, con consecuencias catastróficas para la Región. La violencia revolucionaria se montó sobre la hereditaria debilidad de los Estados regionales y sobre los odios sociales. Su resultado fue la malversación de las Instituciones, el consiguiente debilitamiento  de las estructuras de poder, la transculturación y su consecuente “discordia social”. El caldo de cultivo ideal para transformarse en asiento natural del Crimen Organizado Transnacional y el germen propicio para las guerras civiles fraticidas.

 

Un segundo aspecto, estrechamente asociado a la debilidad del Estado, ha sido la reaparición de fuertes solidaridades subnacionales o transnacionales. Estos lazos no son nuevos pero han permanecido ocultos durante décadas bajo el peso de estructuras burocráticas más o menos artificiales. Sin embargo, el debilitamiento de los aparatos gubernamentales y su creciente crisis de legitimidad, han hecho emerger al clan, la tribu, la etnia o la religión, como principales ejes de movilización política, capaces de fracturar a los Estados. Al mismo tiempo el Crimen Organizado Transnacional, cuyos componentes centrales en la Región son el narcotráfico y el terrorismo, le otorgan a dichas estructuras la capacidad financiera y los aparatos de violencia sin los cuales la viabilidad de esas estructuras sería nula. Son dos andamiajes de distinto origen, pero que se alimentan mutuamente.

 

La difusión de las innovaciones tecnológicas ha tendido a potenciar las capacidades de actores independientes, de pequeño tamaño. Un buen ejemplo de esta tendencia puede verse en el impacto de los cambios tecnológicos en el tráfico de narcóticos. A principios de los años 70, el contrabando de cocaína se realizaba al por menor, con correos (“mulas”) que llevaban consigo pequeñas cantidades de droga. Una década más tarde, la introducción de avionetas permitió transportar cargamentos mucho mayores, de forma más rápida y difícil de controlar. A medida que se introdujeron aviones de mayor tamaño y sistemas más sofisticados de comunicaciones y ocultamiento, la cantidad de estupefacientes y los beneficios obtenidos se multiplicaron. Paralelamente, la informatización y globalización del sistema financiero internacional facilitaron los canales para blanquear una cantidad creciente de dinero sucio. Como consecuencia, grupos relativamente pequeños han tendido a incrementar su importancia dentro del negocio de los narcóticos. El desarrollo del armamento portátil, los explosivos y los sistemas de detección y comunicaciones han multiplicado el poder de destrucción de organizaciones pequeñas de la delincuencia común como del terrorismo político. La capacidad militar del combatiente individual nunca ha sido tan elevada como en la actualidad.

 

Según dos prestigiosos autores norteamericanos, Robin Wright y Doyle MacManus[6], las guerras del futuro presentarán los siguientes cambios cualitativos:

  • Los factores que contribuirán a los conflictos serán más variados en origen, tácticas y objetivos, por lo tanto tendrán efectos desestabilizadores sobre todo el mundo en su conjunto.
  • La adquisición de armas por parte de países del Tercer Mundo, especialmente las de destrucción masiva, harán más probable la guerra y, además, una vez iniciado los enfrentamientos se requerirá la acumulación de importantes recursos materiales y humanos.
  • Mientras en los países desarrollados se está teniendo éxito en llegar a acuerdos de control de armamentos, nuclear y convencional, estos intentos están fracasando en los países en vías de desarrollo, que sumado a la disminución de la capacidad de influencia política de las grandes potencias en estos países, lleva a pensar que los conflictos serán más probables en el siglo XXI.
  • Las guerras en las décadas futuras serán mayoritariamente conflictos de “baja intensidad” entre milicias y bandas equipadas con armas convencionales, cada vez más circunscriptas al interior de los Estados y las causas fundamentales serán pugnas por alcanzar el poder, la redefinición del Estado-Nación y rivalidades étnicas o religiosas.
  • Predominará lo que otros autores llaman el “efecto libanización”, es decir, la disgregación de los Estados.
  • La falta de armonía social en la nueva Era, provocará el aumento del terrorismo. Éste obtiene la mayor parte de los objetivos que se propone conseguir, dada la iniciativa estratégica que asume, frente a la lentitud de los perimidos sistemas de Defensa actuales.

 

Para Alvin y Heidi Toffler[7], los cambios revolucionarios que se han producido en el mundo y que han dado origen a “una tercera ola”, van a modelar la nueva guerra de acuerdo a esa civilización y, por lo tanto, no podemos pretender sostener ese conflicto con procedimientos de la “segunda ola”. Es necesario adoptar acciones revolucionarias en búsqueda de la paz. Para ello, hay que comprender que las transformaciones que experimentan el poder militar y la tecnología bélica, corren de manera paralela a las transformaciones económicas y sociales. Para evitar el conflicto, será necesario adoptar una estrategia actualizada de “antiguerra”, es decir, un cúmulo de acciones que garanticen la vida en paz.

 

Según estos autores el verdadero esfuerzo se sitúa en la correcta conceptualización de la guerra y de la “antiguerra”. Los conceptos que tenemos hoy en día están totalmente obsoletos y anticuados. Hemos analizado los conflictos pasados y pretendemos proyectar sus soluciones a las que tendremos en el futuro. Según Toffler, con la Tercera Ola alcanzan límites extremos tres parámetros distintos de la evolución del poder militar:

 

  • El alcance.
  • La velocidad.
  • La letalidad.

 

Se producen así profundas transformaciones en la naturaleza y formas de la guerra y la prevención de los conflictos. Estas requieren significativos cambios cualitativos en el campo de la  estrategia, de la táctica, de las organizaciones, las doctrinas y el adiestramiento.

 

Una cuarta dimensión que puede agregarse a esta matriz es el concepto actual de “tiempo”.

 

Una de las principales debilidades de nuestro Sistema de Defensa y de Inteligencia derivado, consiste en que durante largos períodos se desarrollaron capacidades, identificación de amenazas y previsión de operaciones, sin considerar el tiempo real como factor decisivo. Mantener dicha categoría de pensamiento en la actualidad, es suicida. Hoy el enemigo puede ser anónimo, puede emplear capacidades no convencionales, tales como ataques electromagnéticos o electrónicos contra comunicaciones esenciales y nodos informáticos y puede hacerlo de la noche a la mañana, sin advertencia previa.

 

Para las comunidades de Defensa y de Inteligencia Estratégica, el mayor desafío del siglo XXI es el factor “Tiempo Real”. Al tratar con la crisis y el “caos”, como el que a diario nos toca vivir, en medio de la incertidumbre, sin Planeamiento Estratégico, sin conceptualización y sin acotamiento de riesgos, los conflictos sangrientos surgen “espontáneamente” y siempre de manera “imprevista”.

 

La habilidad para crear en la contingencia, “justo a tiempo”; para responder de manera decisiva, “justo a tiempo”; va a ser el único camino crítico de una Política de Defensa y de una Inteligencia Estratégica exitosa en el siglo XXI.

 

Las guerras del siglo XXI reflejan y reflejarán, como no puede ser de otra manera, la etapa de la civilización que transitamos. El método de crear riqueza de esa civilización se caracteriza por los siguientes factores:

 

  • El conocimiento como factor esencial en la producción.
  • La desmasificación de la producción en serie.
  • La necesidad de mayor calificación para acceder a los puestos de trabajo, lo que imposibilita el intercambio laboral.
  • La continua innovación para poder competir.
  • El tamaño reducido y diferenciado de los equipos laborales.
  • La desaparición de la uniformidad burocrática.
  • La aparición de nuevas formas de dirección y de “integración sistémica”.
  • La integración mediante redes electrónicas.
  • La gran velocidad y aceleración de todo tipo de transacciones.

 

Todos estos parámetros, exponentes de la forma de hacer riqueza en la era de la información y el conocimiento, son también propios de la forma de desarrollar su modo de guerrear específico, que va a tener sus propias características diferenciadoras con la actividad bélica de épocas precedentes. En las guerras actuales se presentan conceptos bélicos que combinan los modos y formas desarrollados por civilizaciones anteriores.

Entre las características que definen a las guerras de la “civilización del conocimiento”, podemos citar:

 

  • El frente no define el lugar donde se desarrolla el combate principal, porque éste se ha extendido, se ha expandido en todas sus dimensiones: naturaleza, distancia, altura y tiempo. Se encuentra tanto en la vanguardia como en la retaguardia y ésta es mucho mas profunda. En ésta se incluyen los centros de mando, control y comunicaciones del enemigo, su cadena de apoyo logístico y su sistema de defensa aérea.
  • El conocimiento es el recurso crucial de la capacidad de destrucción.
  • La iniciativa, la información, la preparación y la motivación en los soldados es más importante que su puro número.
  • Los daños serán selectivos, disminuyendo los colaterales.
  • Las armas inteligentes van a requerir soldados inteligentes.
  • Los nuevos sistemas bélicos necesitan menos dotación de personal y disponen de mucha más potencia de fuego.
  • La gran complejidad militar necesita de la integración de los sistemas.
  • Las operaciones se llevarán a cabo con extraordinaria velocidad y aceleración.
  • Los combates se desarrollarán tanto en los campos de batalla como en los medios de comunicación.
  • Las políticas y estrategias relativas a la manipulación de los medios de comunicación constituyen un elemento esencial para el logro del objetivo propuesto.
  • Las nuevas operaciones deberán ser capaces de proyectar potencia y fuerzas a gran distancia y a través de operaciones conjuntas y combinadas, así como la realización de ataques simultáneos sincronizados y controlados, en tiempo real.

 

Para Toffler “El antiguo orden mundial, construido a través de dos siglos de industrialización, ha quedado hecho añicos. La aparición de un nuevo sistema de creación de riquezas y de una nueva forma de guerra exigen una nueva forma de paz pero, a menos que ésta refleje con precisión las realidades del siglos XXI, resultará quizás no sólo irrelevante,  sino además peligrosa”.

 

El destacado autor italiano Carlo Jean, en su obra “Guerra, Estrategia y Seguridad”[8] nos aporta elementos interesantes, muy importantes al respecto:

 

  • Las nuevas tecnologías militares han erosionado una de las principales funciones del Estado territorial que es la defensa de sus fronteras “naturales”, garantizando a sus ciudadanos protección y seguridad. Si éstas ya no son defendibles, la única defensa posible es el ataque estratégico. Lo cual es válido también en el campo geoeconómico.
  • La cultura de cualquier pueblo, consecuencia de su experiencia histórica, de sus valores y de su religión, es esencial para cualquier formulación estratégica, ya que influye sobre su percepción y su representación geopolítica.
  • Antes se combatía por el poder mediante la agresión, hoy se busca la seguridad mediante el orden.

 

Según éste autor, los conflictos modernos tienen las siguientes características:

 

  • La absoluta imprevisibilidad del fenómeno guerra, su carácter mutable y su inestabilidad estructural.
  • Carecen de un carácter lineal (causa-efecto).
  • Existe una adecuación racional entre objetivos, costes y riesgos.
  • La secuencia de la decisión comporta una interacción político-militar.
  • El proceso estratégico debe ser considerado en su globalidad.

 

Consecuentemente la guerra, superada la Guerra Fría, se presenta como un fenómeno complejo, donde la estrategia se ha politizado y la política y la diplomacia se han militarizado. En Occidente se busca un sistema de guerra “a cero muertos”, que Luttwak ha denominado “guerra post-heroica”[9].

 

La guerra se compone de dos elementos básicos, la lucha de voluntades y la prueba de fuerza. La primera es de naturaleza psicológica. El objetivo ideal es conquistar sin combatir. El enfrentamiento puede ser directo o mediante la disuasión: la amenaza entendida en su conjunto como “diplomacia de la violencia”. Las voluntades pueden ser minadas indirectamente, a través de la destrucción parcial de la fuerza. La segunda es propiamente el combate. Aún así, existe una dialéctica entre ambas. Cada ataque es, a la vez, una amenaza de ataque sucesivo y, al mismo tiempo, un gesto implícito que invita a la negociación.

 

En los conflictos contemporáneos entender la verdadera naturaleza conceptual de los hechos y amenazas “en acto” y su proyección futura, es el primer paso hacia una verdadera resolución de los mismos. En la naturaleza estratégica coexisten factores racionales (la lógica), irracionales (la emoción, el miedo y la violencia) y arracionales (la fricción o el choque de voluntades), siendo la comprensión del ritmo del tiempo el factor esencial para cualquier conceptualización estratégica. Al respecto dice Carlo Jean: “La sorpresa puede ser conseguida sólo con una extrema compresión del tiempo… La nueva Revolución en los Asuntos Militares está basada en la reducción de los tiempos informativos y decisionales, más que en la extensión de los ataques desde el inicio sobre toda la profundidad del teatro de operaciones”.

 

Y retomando el tema cultural, el autor dice con claridad meridiana: “Sólo recientemente se ha reconocido la importancia de la cultura estratégica en la concepción de las doctrinas militares y sobre el modo de hacer la guerraLa cultura estratégica, en fin, influye en el modo en que son conducidas las operaciones militares… La estrategia, como la política, no se elabora en el vacío, sino que es el reflejo de la cultura de cualquier pueblo… Sólo la comprensión de la cultura estratégica puede hacer comprensible las razones de determinadas elecciones o preferencias…”

 

En éste sentido afirma que en los conflictos contemporáneos se ha pasado de una concepción de fuerza de último recurso, a una de fuerza en presencia, esto es, de la fuerza entendida como un instrumento orgánico de la diplomacia, tal como lo fue en el tiempo de la Pax Británica. Dice el autor: “Un éxito militar no determina la solución de un conflicto interno, más bien crea una gama de opciones, desbloqueando una situación sin salida”

 

Para Alain Minc[10], no hay nada que nos acerque más a la Edad Media que el analizar la estructura de los conflictos contemporáneos, caracterizados por extensas zonas sin autoridad legal. Él los denomina: “el triunfo de las sociedades grises”. En la actualidad la amenaza es el retorno a la ley de la selva. La ilegalidad se ha instalado en el seno de las democracias. Por todas partes progresa lo gris, la diferencia entre lo prohibido y lo permitido se estrecha, hasta casi desaparecer. Ante esta situación, las Instituciones y Organizaciones estáticas e incapaces de reaccionar, van perdiendo el control de la sociedad y, cada vez una menor parte de esa sociedad obedece al principio del orden. Es una situación en que todo está permitido, sin más limitaciones que la fuerza que a esos deseos presenta el oponente. ¿Como se explican esos nuevos comportamientos? Las razones son variadas y complejas:

 

  • La liberación de los mercados y la explosión financiera.
  • El individualismo egoísta.
  • El hundimiento de las grandes Instituciones, a través de la feudalización de las mismas.
  • La adoración del dinero y la pérdida de los contrapesos morales y religiosos.
  • El sentimiento de impunidad.
  • Un sentimiento de caos y disgregación social.
  • El auge del narcotráfico y el terrorismo internacional.
  • La corrupción generalizada de los organismos estatales.

 

Para el autor citado, estos riesgos en acto, mucho más peligrosos que los del medioevo por la globalización de nuestra sociedad, no deberían llegar a ocasionar un estado de caos, salvo que se produzcan en forma simultánea.

 

Aporta elementos interesantes, que guardan una relación estrecha con la actual realidad Latinoamericana. Expresa Minc: “El concepto de Revolución toma nuevas formas con el resurgir de nuevos Estados. Los llamados micro Estados. En una economía global, donde las transacciones económicas y monetarias se resuelven a escala mundial, ¿Tiene importancia el tamaño o la población mayor o menor de un Estado? Ciertamente la soberanía parece al alcance de cualquier tribu.”

 

El retorno a las Revoluciones aporta varias lecciones:

 

  • Ningún Estado puede estar seguro indefinidamente de sus fronteras.
  • No hay estructura social, por sólida o antigua que fuere, que tenga carácter permanente.
  • En la actualidad, revolución no es sinónimo de subversión, sino de descomposición.
  • La fuerza revolucionaria ya no pertenece a las minorías comprometidas, sino a la opinión pública, los medios de comunicación social y la justicia.
  • La revolución sigue siendo una invención europea.

 

No puede haber previsión estratégica sin la debida reflexión, sin el manejo conceptual y esencial de la realidad sobre la que debemos actuar, pero tampoco sin el respaldo del instrumento militar necesario. Sin la “adecuada” fuerza militar y su voluntad política de empleo, la prevención será una utopía. El problema Latinoamericano es que ningún Estado-Nación posee esa fuerza adecuada a éste tiempo y circunstancia. Carecemos de voluntad política para lograr un Acuerdo de Seguridad Común, ante los hechos estratégicos en curso en la región. No hemos sido capaces de contener, “en conjunto”, el mayor y más antiguo conflicto de la región, el colombiano.

 

Frente a la nueva modalidad de los conflictos presentes en América del Sur, entre los cuales el narcoterrorismo es su máxima expresión, se pone de manifiesto dramáticamente la incapacidad de los Estados, actuando por separado, para poder adoptar medidas eficaces.

 

Como dice Minc: “Se necesita siempre lo mismo: un marco internacional, reglas homogéneas y mecanismos de vigilancia y control. Pero tales instituciones no existen. Nos acercamos al cero ideológico. Las ideas tradicionales han desaparecido y con ellas el mundo del orden. La caída del comunismo arrastró al socialismo como al liberalismo. Esta se ve afectado al haberse desarrollado como reacción al comunismo, con lo que ha perdido su estímulo, apoyo y referencia. Paradójicamente, su punto débil se sitúa en el monopolio ideológico, al ser chivo expiatorio de todos los males que afligen a la humanidad”.

 

Propone lo que llama “Caja de Herramientas Conceptuales”:

 

  • Racionalizar el Mercado.
  • Conocer conceptualmente las constantes que produce la Historia para poder prevenirlas.
  • Las elites deben asumir y afrontar las nuevas áreas que se salen de su marco de acción.
  • Adoptar políticas proactivas, pues las crisis y las situaciones inestables que desembocan en los conflictos, tienden a degenerar por naturaleza en hechos más graves.
  • No buscar apoyo en principios sólidos de cohesión, que la sociedad actual no posee.
  • Rescatar los principios culturales de cada sociedad, como pilar esencial de la recuperación.
  • La autoridad debe cambiar su forma de actuación basada en el consenso.
  • Debe tener en cuenta los efectos múltiples, actuar a la más mínima señal de riesgo.
  • Debe hacerlo con flexibilidad, para poder reconducir trayectorias equivocadas.

 

“Lo que resulta es, pues, un arte extraño hecho de firmeza y de flexibilidad, de rigidez y movilidad, en perpetuo movimiento y, al mismo tiempo, inflexible sobre algunos puntos fundamentales. Tiene que hacer suyo un doble imperativo… imaginación y riesgo”.

 

 

Nuestros sistemas de defensa están orientados para una guerra equivocada, fuera de tiempo y espacio.

 

Nuestro “Sistema de Defensa”, estructurado a través de las Leyes de Defensa y de Seguridad Interior, contradice abiertamente la naturaleza del conflicto que tratamos de describir en el presente trabajo. Impide la previsión por razones ideológicas y extrapola las funciones del factor militar fuera de los límites geográficos del Estado. Y expresa lo que Gaston Bouthuol denomina “ilusionismo jurídico”[11]. Este nos crea el espejismo de concebir la esperanza de controlar el conflicto mediante la norma jurídica. No se trata de negar el papel de freno o límite que impone el Derecho Internacional en el desarrollo de la guerra, sino que resulta ilusorio pensar que, mediante normas jurídicas la sociedad pueda hacer frente y eliminar un fenómeno que el autor califica de “patológico”.

 

Para la sociedad latinoamericana, el estudio científico y objetivo de la guerra, no admite demoras. El poder de destrucción, la capacidad de movilización y en definitiva la posibilidad del hombre de desarrollar una guerra civil generalizada, en el seno de nuestras sociedades, exige adoptar medidas para contar con una nueva oportunidad.

 

Del análisis de los 366 conflictos mayores ocurridos entre 1740 y 1974, realizado por el polemólogo francés para estudiar la conflictividad en el mundo, se desprende la primacía de los motivos estructurales. Por lo tanto recomienda tratar de profundizar y buscar las razones de la guerra, más allá de las causas ocasionales, que son la manifestación visible, perceptible por nuestros sentidos. Es necesario llegar a las causas estructurales, conceptuales, donde encontraremos las verdaderas fuerzas en oposición, en forma abstracta, que conducen a engendrar la violencia colectiva.

 

Como expresa Barry Buzan[12]: “Hasta ahora el fin del estamento militar era ganar guerras, de ahora en adelante será evitarlas. Casi no existe otro fin útil”.

 

En ésta nueva tipología de las guerras, el Crimen Organizado Transanacional, adquieren un rol de actor principal.

Una definición del mismo que está usando Interpol es: “Cualquier grupo que tiene una estructura corporativa cuya el objetivo primario es obtener dinero a través de las actividades ilegales y sobrevive a menudo en el miedo y corrupción.”

El Comité Especial de las Naciones Unidas para elaborar la Convención Contra la Delincuencia Organizada Transnacional, que se reuniría en el próximo mes de diciembre, propone la siguiente definición: “Se entiende por grupo delictivo organizado, un grupo estructurado, existente durante un período de tiempo y que tenga por fin la comisión de un delito transnacional grave, mediante la acción concertada, utilizando la intimidación, la violencia, la corrupción u otros medios, para obtener, directa o indirectamente, un beneficio económico u otro beneficio de orden material”.
Cualquier intento por definir este fenómeno, encuentra diferencias entre los estados parte en cuanto a la dimensión subjetiva de la noción del crimen (por ejemplo, el contrabando de opio en China por comerciantes británicos durante los primeros años del siglo XIX, en violación de las leyes chinas, se definió como comercio esencial para Gran Bretaña. En el mundo de hoy, estas contradicciones todavía persisten.

 

Existen hechos que facilitan en desarrollo del Crimen Organizado Transnacional, como fenómeno globalizado:

La debilidad de las instituciones fundamentales de los estados.
La marginación de importantes sectores en los diferentes grupos sociales.
Modificación de sistemas de comercio tradicionales.
Flexibilización de las voluntades políticas para combatir este fenómeno.
Incremento de los movimientos migratorios.
Aparición de áreas de libre comercio en diversos lugares del mundo.
Facilidades para ejecutar las operaciones financieras.
Falta de equidad social y económica entre países desarrollados y en desarrollo
La permeabilidad de las fronteras internacionales.
La apertura de las economías nacionales.
La velocidad de las transacciones comerciales internacionales.
La corrosión de los valores morales.
La falta de coordinación cooperativa globalizada entre los estados para combatirlo.
La falta de armonía en la legislación específica nacional e internacional para combatir este fenómeno.
La falta de organismos supranacionales para la aplicación de las leyes.

Los fines que en general, se le atribuyen a las diferentes organizaciones criminales transnacionales son:

Obtener, en el menor tiempo posible, la mayor cantidad de dinero, a través de las actividades lícitas e ilícitas.
Corromper las estructuras gubernamentales.
Destruir los sistemas económicos nacionales.
Constituir factores de poder
Establecer alianzas
Ejercer el poder utilizando cualquier medio.

 

 

CONCLUSIÓN

 

Bajo circunstancias normales, la represión del narcoterrorismo es una tarea que corresponde única y exclusivamente a las autoridades civiles responsables de imponer la ley, pero, ¿deberíamos aceptar las circunstancias actuales como normales? El profundo daño causado por el narcotráfico en Colombia y en México, es evidencia de la naturaleza devastadora de esta amenaza. Ya es hora de reconocer la magnitud de los problemas creados por el Crimen Organizado Transnacional en nuestro territorio y ya es hora de controlar esta situación.

Ante el alto grado de vulnerabilidad y de disfuncionalidad en que se encuentran los sistemas de Defensa de los países miembros del MERCOSUR, considerando las particularidades descriptas, es indispensable encontrar un camino hacia un sistema de Seguridad Estratégica Regional, que preserve un futuro político en Paz, frente a los actuales, nuevos y poderosos riesgos y amenazas internacionales en presencia. Salvaguardar al Estado, como instrumento de Seguridad, Justicia y Equidad Social, es el desafío estratégico primordial en la posguerra fría.

 

La sinergia que se produce entre terror y crimen, contribuye sin duda a debilitar las alianzas internacionales, a licuar el poder político de los Estados y a minar  progresivamente la efectividad de las fuerzas armadas, de seguridad y policiales, en particular en aquellos países cuyas dirigencias están comprometidas con el nuevo fenómeno o se encuentran estratificadas en su conceptualización estratégica.

 

El Sub-Continente queda así fuertemente relacionado con los complejos y ocultos actores del eventual Califato Euro-Asiático, desarrollando a Ibero América como “espacio sin ley”, organizado con entidades sociales horizontales, autogestionadas, desde la anarquía anti-institucional en plena experiencia en los suburbios de Caracas, en los últimos años. Los despliegues de las veinte bases militares “bolivarianas” en las fronteras bolivianas con Brasil, Paraguay, Argentina, Chile y Perú, así parecen confirmarlo.

 

Las acciones conjuntas, que tienen como eje en Colombia al narcoterrorismo encabezado por las Fuerzas Armadas Revolucionarias de Colombia (FARC), con los carteles de la droga ligados también a otras formaciones políticas, como la anticomunista Fuerzas de Autodefensa de Colombia y a sociedades criminales como la mafia rusa, deben encontrar una respuesta definitiva que no puede terminar sino en la derrota, rendición incondicional y erradicación definitiva de esos flagelos mundiales en nuestra región.

 

En el caso de la Argentina, al desafío global y regional  la encuentra en un estado generalizado de inseguridad nacional, sin previsiones, sin estructuras orgánicas actualizadas y sin voluntad de defensa. La sociedad anómica, también está anestesiada. Subsiste bajo una conducción inconscientemente irresponsable.

 

Esta exigencia conduce indefectiblemente al MERCOSUR POLÍTICO y éste tendrá entidad cuando se logre una Política de Defensa Común, a través de un Acuerdo de Seguridad Colectivo. La naturaleza de los principales hechos y amenazas estratégicas del continente, el narcotráfico y el terrorismo, operando sobre sociedades empobrecidas y Estados Nacionales débiles, con sus instituciones malversadas y sus sistemas políticos no consolidados, no ha encontrado una respuesta combinada y unificada, que tenga en cuenta las características internacionalizadas y flexibles de una agresión estratégica diluida, no militar.  Allí encontramos el verdadero desafío que debemos afrontar.

 

 

 

 

 

BILIOGRAFIA

 

Beaufré, André. “Introducción a la Estrategia”, Editorial Struhart & Cia, Buenos Aires, 1982.

 

Corrado, Jorge. “Defensa, Guerra y Seguridad Estratégica en el siglo XXI”, Anales Universidad Católica de La Plata, Facultad de Ciencias Sociales, año 2006.

 

Corrado, Jorge. “Una Segunda Argentina es Posible”. Anales de la Universidad Católica de La Plata, Facultad de Ciencias Sociales, año 2007.

 

Cosidó, Ignacio y otros. “El final de la disuasión”, Grupo de Estudios de Estrategia de España, Política Exterior. Noviembre-Diciembre de 2001. www.gees.org

 

Dobriansky, Paula.El crecimiento explosivo del Crimen Organizado Transnacional”, Subsecretaria de EEUU para Asuntos Mundiales. Departamento de Estado de EEUU, 20 de Agosto de 2001.

 

Auel, Heriberto y otros. “Geopolítica Tridimensional Argentina”, Editorial Eudeba, Bs. As. 1999

 

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Pagina de Instituto de Estudios Estratégicos de Buenos Aires: www.ieeba.com.ar

 

 

El Dr. Jorge Corrado es Abogado, recibido en la Universidad de Buenos Aires. Ha cursado estudios de posgrado en Inteligencia Estratégica, Geopolítica y Estrategia en la Escuela Superior de Guerra del Ejército Argentino. Es Vicepresidente del Instituto de Estudios Estratégicos de Buenos Aires y Profesor Titular y Coordinador General Académico en la Facultad de Derecho y Ciencias Políticas de la Universidad Católica de La Plata, Buenos Aires, Argentina.



[1] Corrado Jorge. “Las Guerras de la Tercera Especie”. Instituto de Estudios Estratégicos de Buenos Aires. Buenos Aires 2001.

[2] Hamon, Leo. “Estrategia contra la Guerra”, Ediciones Guadamarra, Madrid, 1966.

[3] Holsti, Kalevi. “The State, War and the State of War”. Cambridge University Press. 1999.

[4] Lind, Samuel, Schmitt, John y Wilson, Gary. “The Changing Face of War. Into the Fourth Generation”. Marine Corps Gazette, Octubre 1989.

[5] Van Cleveld, Martín. “The Transformation of War”. The Free Press, Nueva York, 1991.

 

[6] Wright, Robin y MacManus, Doyle. “Futuro Imperfecto”. Ediciones Giralbo, Barcelona, 1992.

 

[7] Toffler, Alvin y Heidi. “Las Guerras del Futuro”.Ediciones Plaza & Janes, 1994.

[8] Jean, Carlo. “Guerra, Estrategia y Seguridad”.Editorial Laterza, Roma, 1997.                              

[9] Luttwak, Edward. “Estrategia, la lógica de la guerra y la paz”.Instituto de Publicaciones Navales, Buenos Aires, 1992.

[10] Minc, Alain. “La Nueva Edad Media. El gran vacío ideológico”. Ediciones Temas de Hoy, Madrid, 1994.

[11] Bouthuol, Gaston. “Las Guerras. Elementos de Polemología”.Editorial Payot, París, 1951.

[12] Buzan, Barry. “Introducción a los Estudios Estratégicos: tecnología militar y relaciones internacionales”. Ediciones Ejército, Madrid, 1987.

 

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INFLUENZE OCCIDENTALI E AUTONOMIA IDEOLOGICA NEL PANORAMA POLITICO ARABO: UNA PROPOSTA DI LETTURA NEL CONTESTO GEOPOLITICO

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Tentare di comprendere l’attuale crisi del Vicino Oriente anche nei suoi riflessi della guerra civile siriana – e irachena – nonché nelle perenni tensioni che tengono l’Egitto sull’orlo del caos non è possibile se non si tengono presenti gli intrecci strategici nell’area. Le grandi potenze hanno di rado concesso ai popoli del Vicino Oriente di tessere la propria storia in autonomia. Le ingerenze straniere nelle vicende storiche del Mashreq e del Maghreb hanno comportato l’estendersi delle ideologie di matrice occidentale ad aree di antica cultura islamica e cristiana. Limitare la nostra spiegazione alle influenze di una matrice esterna sarebbe però sbagliato: il mondo arabo si è spesso appropriato delle ideologie politiche occidentali adattandole e declinandole secondo le proprie necessità storiche.

 

 

Il neoislamismo come “ideologia occidentale”.

La più geopoliticamente occidentale, la più “importata” ed innaturale ideologia presente oggi nel mondo arabo risulta essere paradossalmente il neoislamismo radicale wahabita di matrice saudita, esportato dalle petromonarchie del Golfo a sostegno ideologico della propria penetrazione politica. Il supporto proveniente dal regno saudita e dal Qatar ai predicatori, alle associazioni caritatevoli e alle reti politiche ispirate alla Fratellanza Musulmana egiziana e al mondo salafita sono alla radice del successo economico e politico di tali correnti. L’espansione dell’influenza culturale e geopolitica delle monarchie del golfo nel mondo islamico avviene a suon di petroldollari e con la tacita approvazione USA, che sa essere questo il bacino culturale e finanziario in cui Al Qaeda si nutre ma vede nell’espansione dell’influenza delle monarchie del Golfo nel mondo arabo la stabilità della tutela dei propri interessi in funzione anti cinese, anti iraniana e anti russa.

È il gioco americano nell’Afghanistan degli anni ’80 che si rinnova nel contesto medio orientale.

Lasciamo da parte Pakistan, Afghanistan, Iran e tutta Asia Centrale con il mondo turco – centri di ulteriori complessità, ingerenze e complotti – per concentrarci sul solo mondo arabo.

Il wahhabismo è un’ideologia culturalmente e politicamente reazionaria, populista e demagogica che nasce da una interpretazione eterodossa dell’Islam.

Dal canto suo, la prassi di governo dei Fratelli Musulmani è avversa all’ispirarsi al sindacalismo occidentale delle organizzazioni sindacali egiziane o tunisine – i paesi arabi più avanzati da questo punto di vista. La Fratellanza e i partiti che da essa derivano, pur richiamandosi al moderatismo dell’AKP del centro-destra turco, rimandano ad una “dottrina sociale islamica” che ricorda certi aspetti di quella cattolica di fine ‘800 e inizio ‘900. Questa elaborazione nasce però nel periodo della lotta anticoloniale araba e dal desiderio di una rinascita autonoma del pensiero sociale islamico.

La contraddizione di fondo rimane questa: si tratta di ideologie avverse o comunque non certo allineate ai cosiddetti “valori democratici occidentali”, anche se l’Occidente ne accetta e ne sostiene le espressioni per motivi geopolitici. Sono e restano ideologie che potremmo classificare, secondo categorie occidentali e nei limiti in cui ciò sia utile, “di destra”.

 

 

Mondo arabo e interconfessionalità: forme di prassi politica. 

Il mondo arabo ha una “sinistra” e una “destra” che si richiamano all’Islam come fonte di identità culturale. Sono ideologie importate dall’Occidente per via degli orientamenti rivoluzionari arabi o sono nate come rielaborazioni autonome del pensiero e della prassi politica occidentale. Il loro carattere interconfessionale le ha portate ad essere avversarie della monarchia saudita, così come il loro anticolonialismo e nazionalismo le ha spinte ad essere antisraeliane e contigue al mondo sovietico. L’Occidente ha dichiarato loro una guerra che spesso ha favorito l’integralismo e il fondamentalismo.

 

 

Declinazioni arabe del fascismo.

La tendenza filofascista dello schieramento politico arabo è quella che ha subito gli influssi europei più marcati, specie nel passato. Le speranze riposte dagli Arabi nelle potenze dell’Asse furono determinate per lo più, ma non solo, dalla necessità della lotta antibritannica. Tali aspettative produssero le simpatie mussoliniane dei primi movimenti nazionalisti egiziani, in particolare del Partito del Giovane Egitto, nel quale militò il giovane Nasser. Il Partito assunse più tardi il nome di Partito Nazionalista Islamico, quindi nel dopoguerra il nome di Partito Socialista d’Egitto. Come sappiamo, Nasser divenne uno dei principali elaboratori del pensiero anticolonialista arabo. Altro centro di incubazione fu l’Iraq, dove durante la guerra le forze militari vicine all’Asse tentarono un golpe antibritannico, nonché l’area del Levante, dalla quale proveniva il Gran Muftì di Gerusalemme Al Husayni; amico personale del Fuehrer Al Husayni fu la guida spirituale delle SS musulmane, destinate ad essere punta di lancia dell’Asse nel Vicino Oriente nella lotta contro il nascente sionismo. Movimenti ispirati al nazionalsocialismo si diffusero anche in Siria, dove l’ostilità al colonialismo inglese si saldava con l’inquietudine prodotta dalla penetrazione di immigrati ebrei in Palestina, cosicché il legame tattico diventò ideologico. Nel Levante moderno, richiami quanto meno estetici al fascismo e al nazionalsocialismo permangono nel partito sciita Hezbollah, mentre sono sostanziali nel Partito Nazionale Sociale Siriano.

 

 

Una sinistra araba non decodificabile secondo categorie occidentali

Terminata la guerra, le tendenze politiche ispirate più marcatamente filofasciste, anticoloniali ed antiebraiche vennero riassorbite quasi totalmente dal nazionalismo arabo, che assumeva sempre più caratteri filosovietici, dato l’appoggio russo alle lotte anticoloniali e alla causa araba e palestinese. Nasser divenne l’ispiratore di queste correnti, che univano l’aspirazione all’unità panaraba ad una visione socialista e dirigista dei sistemi economici, in un quadro di rafforzamento delle neonate repubbliche arabe che si andavano scrollando di dosso le vecchie monarchie d’origine coloniale.

I giovani ufficiali arabi, ispirati in vari momenti storici da Nasser, da Bourghiba, o da Gheddafi, vedevano nel socialismo il paradigma per la ricostruzione e il rafforzamento dei nuovi Stati arabi, più che una summa di principi ideologici occidentali o addirittura marxisti: tutto era funzionale ad un’ottica nazionalista e spesso panaraba. Non è possibile leggere il socialismo nazionale arabo solo con le classiche categorie occidentali di “sinistra”. Le nazioni arabe erano nazioni giovani, multietniche, multireligiose, in cui ancora forti erano i legami tribali alla base di società tradizionali, in cui il senso di appartenenza nel senso moderno e patriottico andava costruito. Le linee di frontiera tracciate in punta di matita dall’imperialismo inglese e francese – e ribadite da quello americano – dividevano tribù affini e univano etnie differenti (arabi e curdi in Siria e Iraq, per esempio), facendo parti eguali per diversi e parti diverse per eguali e gettando dunque le basi per le attuali guerre civili siriana ed irachena. Scrollatesi di dosso il dominio coloniale, le nuove classi dirigenti proposero un socialismo patriottico esente da esclusivismi confessionali e finalizzato a superare se non proprio a scardinare il tribalismo, nonché a rilanciare l’ideale panarabo. Non sempre tentativi sinceri, furono comunque i più riusciti esperimenti di modernizzazione attuati nel mondo arabo, di pari passo coi progressi nella scolarizzazione.

 

 

Per comprendere un’autonoma “ideologia araba”: ritorno alla geopolitica. 

La geopolitica avvicina il mondo arabo e i suoi patrioti e nazionalisti prima all’Asse e poi all’URSS. Eppure l’unico regime comunista del mondo arabo fu quello dello Yemen del Sud, mentre il marxismo ebbe forza soprattutto nei partiti comunisti egiziani, iracheni e siriani, nonché tra i Palestinesi. Nella lotta nazionale palestinese si distinsero tra gli altri partiti di sinistra due movimenti comunisti, nei quali i cristiani erano ben rappresentati: il Fronte Popolare ed il Fronte Democratico per la Liberazione della Palestina. In questi movimenti la lotta politica e rivoluzionaria andava però di pari passo con la lotta nazionale di liberazione, esattamente come nel socialista Al Fatah, movimento laico cardine dell’OLP. È interessante ricordare che il padre dell’FPLP fu quel George Habash già fondatore del Movimento Nazionalista Arabo, importante e diffuso partito panarabista.

Questi apparenti paradossi si spiegano con l’analisi di contesto prima operata e si riassumono nell’ideologia del Partito Baath, il partito socialista e nazionalista arabo, fondato da un cristiano e da un mussulmano (guarda caso, il simbolo del patriottismo egiziano è una Croce unita ad una Mezzaluna) proprio mentre univa elementi ideologici di “destra” e di “sinistra”. Dirigista nella sua visione economica, in Iraq il Baath fu sempre ostile ai comunisti, in uno scontro che aveva come posta in gioco la guida della rivoluzione nazionale dopo il superamento del neutralismo di Qasim, il generale che aveva abbattuto la monarchia. Il Baath fu un movimento transnazionale; la sua anima siriana, giunta al potere, ruppe con quella irachena. Oggi in Siria il Baath governa il paese in coalizione con i partiti socialisti e comunisti più ideologicamente espliciti ed identitari, e gode dell’appoggio esterno del movimento nazionalsocialista. Considerato un punto di vista condizionato dai dogmi ideologici e dai clichés di destra e di sinistra, il Baath potrebbe apparire contraddittorio e difficilmente comprensibile. Partito di “sinistra” perché socialista o di “destra” perché nazionalista e legato anche alle piccole borghesie urbane, il Baath ha comunque svolto un ruolo chiave nella storia dell’irredentismo arabo, nella formazione di governi legati al blocco sovietico da interessi geostrategici e nel tentativo di costruzione di una cultura araba non sottoposta al settarismo confessionale.

 

 

Per concludere: un profilo ideologico del mondo arabo per comprenderne le tematiche geopolitiche attuali.

Il mondo arabo non è monolitico. Non lo è ideologicamente, culturalmente, socialmente e religiosamente. Solo la disonestà intellettuale degli araldi ideologici delle potenze esterne ha interesse a rappresentarlo come un unico amalgama di fondamentalismo sunnita, ora nascostamente utile alla Gran Bretagna e poi agli USA in chiave di tutela dei loro interessi petroliferi, ora invece nemico mediatico a pretesto degli interventi militari americani e israeliani ma sempre in tacito accordo con l’autonomo alleato turco e il fedele alleato saudita.

Vi è un mondo arabo fatto di minoranze, come quelle in lotta nella Siria in fiamme. Vi è un mondo arabo fatto di movimenti secolarizzati, che hanno contribuito alle rivolte egiziane contro Mubarak ma sono stati messi da parte dai petrodollari a sostegno della Fratellanza. Vi è un mondo arabo-cristiano che ha sempre guardato con ovvio interesse agli orientamenti laici e progressisti, sin dai tempi del partito egiziano Wafd, il primo partito liberale e modernista egiziano, oggi minoritario. Il contributo dei cristiani alla causa nazionale araba – e al socialismo arabo – fu forte in Palestina, in Siria, in Iraq, in Egitto e in tutti i paesi dove i cristiani sono in minoranza. In Libano, paese dove il ruolo giocato dai cristiani è stato di prim’ordine, restano storiche le divisioni tra i greco-ortodossi e greco-cattolici vicini alle sinistre e ai governi siriani da un lato e i maroniti riuniti in gran numero nelle Falangi Libanesi, che almeno nelle prime fasi storiche del conflitto nel Paese dei Cedri si schierarono con Israele.

Questo veloce inquadramento vuol cercare di comprendere quanto di genuinamente arabo vi è nella cultura politica di quest’area multiforme e quanto invece proviene da Occidente, quanto il mondo arabo abbia sempre cercato almeno con le proprie avanguardie di elaborare un’autonomia di pensiero che potesse farsi autonomia storica e politica, e quanto invece gli attori esterni abbiano lavorato e lavorino per favorire il proprio interesse di breve respiro tramite l’ausilio alle forze integraliste dell’area islamica.

 

 

 

 

Bibliografia

–       Jean Sellier, André Sellier, Atlante dei popoli d’Oriente, Il Ponte, 2010.

–       Benny Morris, Vittime : storia del conflitto arabo sionista, Rizzoli, 2001.

–       Enrico Galoppini,  Il Fascismo e l’Islam, Edizioni all’insegna del Veltro, 2001.

–       Giovanni Filoramo, Islam, Laterza 1999

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I DISORDINI IN TURCHIA: AL DI LA’ DEL FENOMENO MEDIATICO

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Un primo bilancio della situazione turca dopo i ripetuti disordini dei giorni scorsi non può prescindere dalla valutazione del fenomeno mediatico sorto in parallelo.

La realtà sul campo è certamente complessa, ma l’interpretazione  riduttiva e faziosa fatta dai grandi media occidentali la riconduce a un tema ricorrente di propaganda: vale a dire lo scontro dei laicisti, progressisti e libertari contro i fondamentalisti che cercano subdolamente di islamizzare lo Stato e la società.

A parte il fatto che risulta difficile credere all’imperativo di una islamizzazione forzata di un Paese in cui l’Islam è già largamente e pacificamente presente, si dimentica al proposito la storia stessa della Turchia: dalla fine della Seconda Guerra Mondiale e per oltre 50 anni, infatti – per non parlare dei decenni precedenti – è stato il cosiddetto laicismo (il kemalismo) a perseguitare l’Islam, e non viceversa. Un laicismo spesso eterodiretto, occidentale e atlantico, che si è manifestato con colpi di Stato direttamente o indirettamente gestiti dalla NATO (inizio anni Sessanta, Settanta, Ottanta del secolo scorso) e con pronunciamenti militari ratificati dall’intervento della magistratura (metà anni Novanta, con la messa al bando del partito di maggioranza relativo, di ispirazione islamica).

Venendo all’attualità di questi giorni, si può sottolineare che la dinamica delle uccisioni e la localizzazione delle tre vittime fin qui (5 giugno) segnalate – e riunite apoditticamente nella categoria “vittime della repressione” – è piuttosto significativa.

Un uomo è stato travolto da un taxi a Istanbul, altri due sono stati colpiti  – non si sa da chi e in quale circostanza – da armi da fuoco ad Ankara e nell’Hatay (la regione al confine fra Turchia e Siria). Il richiamo a questo ulteriore tragico accadimento in questa regione – a pochi giorni dalla strage di Reyhanlı  – riconduce al gravissimo stato di tensione legato alla situazione siriana, dove una vasta area è abbandonata all’arbitrio delle milizie antiAssad (in cui figurano massicciamente mercenari occidentali e i tagliagole già distintisi nella campagna libica), il caos è totale e si susseguono manifestazioni e proteste della popolazione locale che giustamente vorrebbe essere tutelata.

Tutto ciò ha ormai ripercussioni in tutto il Paese e rappresenta – ben più dei  limiti alla vendita degli alcolici fra le 22 e le 6 di mattina, o della ridicola storia dei baci in metropolitana – il problema vero della Turchia odierna, avvertito con preoccupazione anche dall’opinione pubblica.

In questo scenario possono poi innestarsi rivendicazioni marginali come quelle ambientali, la guerra di certi ambienti kemalisti contro l’Islam e magari qualche palpabile difficoltà legata alla riduzione – per via della crisi economica europea – delle esportazioni; insomma, come spesso accade, si possono ritrovare in piazza motivazioni diverse, talune profonde e meritevoli di attenzione, altre molto meno.

La Turchia, come è noto, ha grande importanza strategica e geopolitica; in particolare, essa è imprescindibile per la Russia e per il fronte occidentale e atlantista. Il governo AKP non è mai stato visto con benevolenza da quest’ultimo, perché, pur continuando a far parte della NATO, Ankara aveva compiuto nel decennio scorso passi importanti verso un concetto compiuto di sovranità.

Inoltre – fatto che viene spesso trascurato –  la Turchia è un Paese poco indebitato, che ha rifiutato anche recentemente i prestiti del FMI, progettando invece di triplicare entro il 2023 la presenza di istituzioni finanziarie conformi alla legge islamica (ciò anche per banche a controllo pubblico come la Halkbank e la Ziraat Bank): è insomma poco in linea con le linee guida della “globalizzazione”.

Con la sua posizione sulla crisi siriana – foriera di gravissime conseguenze e in controtendenza nei confronti della sua passata politica di “zero problemi con i vicini”, ormai diventata “zero vicini senza problemi” –  il governo Erdoğan si è illuso di (ri)conquistare la fiducia degli ambienti occidentali; ma così probabilmente non è, almeno a giudicare dai commenti di questi giorni dei mass media occidentali, che plaudono alla “rivolta” contro il nuovo sultano e contro l’intolleranza islamica …

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LA PARABOLA DISCENDENTE DEL BOLIVARISMO

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Le elezioni venezuelane dello scorso 15 aprile hanno sancito la vittoria “dimezzata” di Nicolas Maduro e riportato prepotentemente alla ribalta la figura di Henrique Capriles, sempre più capo indiscusso del partito d’opposizione PJ(1). L’incapacità dell’establishment al potere di tenere a debita distanza il rivale dopo la morte del leader Hugo Chavez, ha rimesso in discussione tutto il percorso del sistema politico bolivariano. Dopo circa quindici anni dalla sua sistematizzazione ideologica, il bolivarismo vede già i primi segni della dissoluzione nel paese “pivot”, mentre in quelli satellite resta saldo ma in continuo divenire e comunque legato ad altrettante figure carismatiche che ne hanno fatto un valore fondativo della proprie politiche. La via al socialismo del XXI secolo dunque, è legata indissolubilmente al suo paese fondatore o potrà essere sviluppata in modo autonomo dagli altri stati latinoamericani che l’hanno abbracciata? In Venezuela il crepuscolo del bolivarismo può essere rischiarato solo dopo un’analisi accurata che abbia come oggetto sia l’attuale e futura leadership, che la nuova distribuzione geografica dei voti (importante per capirne l’evoluzione economica del paese).

 

Maduro: una scelta di convenienza?

A dicembre, prima dell’operazione a L’Avana, Hugo Chavez designò come suo erede quello che allora era il ministro degli esteri, Nicolas Maduro. Una scelta interpretabile sia come di pura convenienza politica sia come approccio ortodosso. La convenienza nasce dal fatto che Maduro è il più filo cubano del partito ed era deputato a tenere – dopo Chavez – le relazioni con i fratelli Castro. L’approccio ortodosso si basa sul fatto che  Maduro è stato un bolivariano fin dalle prime battute,ossia al fianco di Chavez fin dall’arresto a seguito del fallito colpo di stato del  1992. Ad oggi la scelta può intendersi anche – e soprattutto – come di opportunità rispetto allo sfidante Capriles. Prima delle presidenziali Maduro era l’unico del vertice del PSUV(2) a non essersi scontrato direttamente con il leader dell’opposizione e a non venirne sconfitto. L’alto profilo istituzionale di Diosdado Cabello (attuale presidente dell’Assemblea nazionale) prima e di Elias Jaua (ora ministro degli esteri) dopo, non hanno impedito a Capriles di prevalere nelle elezioni regionali del 2008 e del 2012 per la carica di governatore nello stato di Miranda. Chavez – sempre attento alla comunicazione politica – ha di conseguenza deciso a livello nazionale di non opporre a Capriles un avversario “perdente”. Scelta che si è rivelata lungimirante anche se per poco. Maduro – nonostante il trasporto emotivo per la morte di Chavez e poco più di una settimana di campagna elettorale lasciata agli sfidanti – ha ottenuto solo 254 mila voti idi vantaggio (l’1,73% dei votanti) azzerando di fatto il milione e 600 mila voti lasciati in eredità da Chavez sei mesi prima, nelle elezioni presidenziali del novembre 2012. Ma a legger più approfonditamente i dati delle elezioni presidenziali degli ultimi 15 anni si può vedere che con l’affermarsi del bolivarismo a livello internazionale (mediatico) e regionale (organizzazione Alba), l’opposizione interna ha progressivamente ripreso vigore. Dal 2000 l’opposizione (2 milioni e 359 mila voti) ha guadagnato fino al 2012 (6 milioni e 591 mila voti circa) il 300% degli elettori crescendo maggiormente in proporzione rispetto al partito di Chavez  che invece li ha solo raddoppiati(3). Il bolivarismo dunque non è mai divenuta ideologia di stato poiché non ha mai strappato un consenso plebiscitario alle elezioni. La più grande vittoria di Chavez è stata infatti quella del 2006 in cui ottenne il 62,85% dei voti contro l’allora sfidante Manuel Rosales che si attestò su un mediocre 36,91%. Tuttavia c’è da segnalare che degli oltre 15 milioni di votanti solo poco più di 7 milioni aveva espresso il suo favore nel bolivarismo: l’alta astensione (25,31%) relegava il socialismo di Chavez a verbo per meno della metà della popolazione. Distorsioni dei numeri – simili ai paesi con regimi democratici maturi – che impedivano sul nascere al bolivarismo di diffondersi e strutturarsi lungamente nel paese nonostante la propagazione ideologica nei paesi limitrofi che ne è seguita.

 

Geografia economica del paese

Il risultato attuale dell’opposizione non si manifesta solo nell’assottigliamento della distanza di elettori rispetto al 2000, ma dal numero delle regioni nella quale Capriles ha vinto, ossia ben 7: Zulia, Lara, Merida, Tachira, Miranda, Anzoategui e Bolivar. A livello geografico il Movimento Primero Justicia cinge le 13 regioni restanti di Maduro a est e nel centro ovest. Tuttavia l’opposizione ha semplicemente consolidato il proprio consenso in quelle zone del paese là dove esisteva già ancor prima dell’avvento di Chavez.  Nel 1998, l’allora sfidante Henrique Salas, conquistò diverse regioni di confine ad est(4) e perfino nel periodo del bolivarismo rampante l’allora opposizione seppe mantenere (fino al 2005) l’enclave elettorale di Zulia.

Oltre alla regione più a sud confinante con il Brasile, Capriles ha praticamente conquistato tutti gli stati federati confinati con le più strutturare vie di comunicazione con la Colombia e quindi snodo fondamentale per le esportazioni in Centro e Sud America. Le regioni dove ha prevalso Capriles però hanno altri punti in comune, specialmente di carattere demografico ed economico. Il numero degli abitanti e la densità della popolazione è tra le più alte: si spiega così il numero quasi identico degli elettori nonostante Maduro abbia conquistato il doppio delle regioni. Si tratta inoltre di stati mediamente piccoli e affollati nei quali l’economia non è solo agricola: seppur queste 9 regioni abbiano la gran parte del proprio territorio adibito a coltivazione (soprattutto canna da zucchero) e allevamento, si evidenzia un rapido sviluppo industriale e dei servizi con punte di eccellenza. Zulia ospita il secondo complesso petrolchimico del paese; Merida è la terza regione per la zootecnia; Tachira con la capitale San Cristobal è il maggiore snodo andino; Miranda è la seconda regione più importante per capacità industriali soprattutto nel settore manifatturiero e rappresenta la spina dorsale del Venezuela insieme al distretto federale di Caracas. La condizione di rapida ascesa economica di queste regioni, traina una proporzionalmente la crescita delle aspettative di una classe media urbanizzata che fatica a trovare spazio e rappresentanza politica.

 

Bolivarismo e posizione mediana del Venezuela

Il modello economico che Capriles vorrebbe importare in Venezuela appartiene a quello più riformistico-liberale dell’America Latina che vede come suoi esempi più importanti il Brasile, il Cile, la Colombia, il Perù e il Messico. Questi paesi hanno affrontato la crisi economica con una crescita cauta volta soprattutto a rafforzare la stabilizzazione dei prezzi, ridurre il debito pubblico e la conclusione di programmi di stimolo: tutto l’opposto del modello centralista e dirigista di Chavez (e anche dell’Argentina). Il PSUV ha spinto per una crescita guidata dall’alto con politiche espansive fiscali e monetarie impedendo un equilibrio dei prezzi dei beni ottenendo una inflazione attestatasi al 27%. La crescita forzosa è stata possibile grazie alle rendite petrolifere e si dimostrava necessaria per Chavez al fine di rinsaldare il proprio elettorato. Ad oggi però l’alta inflazione non è mitigata da nessuna misura economica efficace vista l’incapacità del Venezuela di affrancarsi dalla dipendenza dal mercato petrolifero. Le differenze tra questi blocchi di paesi (riformisti e dirigisti) porta alla divisione in campo di politiche macroeconomiche divise per area e in seno ad organismi economici regionali dai confini porosi. Ad oggi l’Alleanza Bolivariana per le Americhe è geograficamente la più dispersa e quella più in difficoltà: il capolavoro diplomatico di Chavez in funzione anticapitalista è di fatto acefalo viste le difficoltà interne di Maduro; lo stesso Morales in Bolivia è in caduta di consensi per una politica del lavoro che provoca scioperi consistenti dei minatori. Escludendo la capacità trainante di Cuba e degli stati caraibici, l’unico leader forte che possa prendere le veci di Chavez è il presidente ecuadoriano Rafael Correa. In questo momento però l’Ecuador è impegnato nella ricerca di una integrazione economica regionale più realistica e produttiva e geograficamente più compatta rispetto all’Alba. Già membro associato del Mercosur, il più piccolo stato che affaccia sul Pacifico, ha deciso di entrare come osservatore proprio nell’Alleanza del Pacifico (AP) che annovera Cile, Colombia, Messico, Perù e Costa Rica. L’AP è contrapposta ideologicamente all’Alba e si pone in parallelo al Mercosur al quale vorrebbe portare via sia il Paraguay che l’Uruguay (oggi osservatori esterni). L’Alba – e dunque il Venezuela – sta per essere schiacciata tra i due organismi nel quale non ha voce autorevole in capitolo ed inoltre, i giganti della regione, Brasile e Messico, stanno affrontando una partita economica egemonica nella quale il Venezuela non è protagonista. A Caracas resta solo l’importante influenza esercitata sui paesi caraibici finanziati da Petrocaribe, ma la capacità di assistenza energetica toglie introiti aggiuntivi necessari oggi all’economia interna. Il bolivarismo è certamente nato con Chavez, ma potrebbe essere destinato alla dissoluzione anche per motivi esterni alla morte del caudillo. A pesare in maniera determinante sono solo  Brasile e Messico e le loro emanazioni regionali non permettono  spazio nel futuro ad un’integrazione su principi socialisti. Qualora in Venezuela il potere tornasse nelle mani di un centro-destra liberista, verrebbe di certo a perdersi il ruolo del paese come “stato alternativo” alle politiche riformiste e capitaliste ora presenti sul continente e verrebbe reintegrato nella sfera di influenza nordamericana. In tal modo si accelererebbe la dissoluzione dell’Alba – di fatto già in via di disfacimento – con conseguenze nefaste soprattutto per un paese che non può riposizionarsi: Cuba. Ad oggi l’unica garanzia per i fratelli Castro nel dirigere lentamente le riforme verso una timida apertura, è data dai fondamentali aiuti venezuelani che  riducono l’ esposizione economica di L’Avana. Il Venezuela, come architrave socialista in America Latina, è in una parabola vertiginosamente discendente dalla quale non può altro che risorgere per evitare il declino del sogno bolivariano.

 

 

* Salvatore Rizzi, dottore in Scienze della Politica

 

 

(1)    Movimento Primero Justicia

(2)    Partido Socialista Unido de Venezuela

(3)    Il trend dei dati elettorali degli ultimi 15 anni è da leggere tenendo conto dell’alto numero di astenuti che non ha partecipato alle elezioni presidenziali del 1998, quelle della prima vittoria di Chavez. Nell’occasione per il 48% degli aventi diritto al voto non l’ha esercitato: un dato notevole che poi si è assestato in media intorno al 20%. Il bacino di voti riacquistati dalla differenza di astenuti ha permesso le crescite elettorali sia dell’opposizione che di Chavez.

(4)    http://www.eluniversal.com/nacional-y-politica/mapa-de-resultados-electorales/ . Sul sito del quotidiano sono visibili tutti i dati elettorali riportati nel pezzo e la cartografia della distribuzione del potere

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UNA DELEGAZIONE NORDCOREANA A TRIESTE

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Intervista al prof. Colleoni, console onorario della Corea del Nord

A cura di Marco Bagozzi

 

 

Professor Colleoni, sappiamo che ieri le ha fatto visita a Trieste una importante delegazione proveniente da Pyongyang. Ci può aggiornare sulla attuale situazione ?

La RPDK ha ancora una volta dimostrato al mondo la determinazione con la quale il popolo, l’esercito e il partito dei lavoratori hanno respinto la provocazione posta in atto dagli USA per cercare di aprire un nuovo fronte teso a distogliere l’opinione pubblica americana e mondiale dai fallimenti registrati con la guerra in Iraq e Afganistan. La determinazione dell’Armata Popolare guidata da Kim Jong Un ha bloccato le manovre militari contro la Repubblica Popolare di Corea, ha costretto le Nazioni Unite ancora una volta a dimostrare l’asservimento agli USA inasprendo le inique sanzioni e ha provocato l’immediato avvio di trattative indirette a Pechino, dove è volato dagli USA un rappresentante della Casa Bianca. Anche il Giappone ha capito che non può più nell’area asiatica svolgere il ruolo geopolitico che vorrebbe, senza accettare la riunificazione pacifica delle due Coree, che stanno collaborando con profitto in campo economico. Il lancio del satellite e il successo riscontrato attestano il buon livello di preparazione tecnico-militare della RPDK, pronta a respingere ogni sorta di provocazione che tenda a limitarne la sovranità.

Ci dica Professore la sua opinione sulla situazione interna recente della RPDK

Ho avuto anche ieri conferma dalla Delegazione ma non solo, che la risposta del popolo a tutti i suoi livelli è stata monolitica attorno al Partito dei Lavoratori e al Comandante supremo Kim Jong Un, che si è dimostrato degno nipote del grande Kim Il Sung. La mobilitazione della Armata dei Commissari Politici uomini e donne è stata esemplare e ha convinto gli USA ad un ripensamento e a ricordare le cocenti sconfitte subite durante la guerra di aggressione del 1953.
In campo economico la continuità nelle esportazioni dalla RPDK verso la Cina Popolare e altri Stati sta a dimostrare che l’apparato produttivo funziona a pieno regime, come pure le infrastrutture indispensabili per garantire il flusso delle merci e materie prime verso l’export, fonte indispensabile di valuta.

 
Scopo della missione a Trieste della delegazione?

La delegazione guidata dal responsabile del Partito per le relazioni con l’Europa, mio amico da trenta anni, ha fatto solo una tappa a Trieste per poterci incontrare e valutare alcune possibilità di sviluppo delle relazioni anche con questa Regione, ma non solo. Infatti i membri della Missione provenienti dalla Spagna continueranno nei prossimi giorni a visitare altri Stati della Unione Europea per incrementare scambi culturali, economici, di amicizia e comprensione tra gli Stati e la RPDK in un clima di reciproco rispetto, solidarietà e fratellanza, per rafforzare nel mondo il processo di consolidamento della pace nel rispetto reciproco.

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LA “GAZZETTA DEL MEZZOGIORNO” RECENSISCE “EURASIA”

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Le analisi della rivista “Eurasia”. Imperialismo, impero e globalizzazione. La “Gazzetta del Mezzogiorno” di martedì 11 giugno 2013

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IL PROBLEMA UCRAINO

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I

Le riforme di Pietro il Grande costituiscono una frontiera netta tra due epoche della storia della cultura russa. A prima vista sembrerebbe che, sotto il regno di Pietro il Grande, abbia avuto luogo una rottura radicale della tradizione, che la cultura della Russia postpetrina non abbia nulla in comune con quella della Russia precedente e che nessun legame  esista tra le due culture. Ma le impressioni di questo tipo sono generalmente errate. Là dove si percepiscono di primo acchito rotture brusche della tradizione nella storia di un popolo, un attento esame permette di stabilire, per lo più, il carattere illusorio di tale rottura, e rivela la presenza di legami inizialmente impercettibili tra due epoche. Così è per la cultura russa prima e dopo l’epoca di Pietro il Grande. È noto che gli storici della cultura russa mettono sempre in evidenza tutta una serie di fenomeni che legano il periodo postpetrino a quello precedente, e che permettono di affermare che le riforme di quest’ultimo sono state preparate da certe correnti della cultura prepetrina. Se si dà uno sguardo complessivo a tutti questi collegamenti tra le due culture identificate dagli storici, si ottiene il seguente quadro: è possibile parlare di una rottura completa della tradizione solo se si restringe il significato del termine “cultura russa” alla sua variante “grande-russa”. Ma nessuna rottura brusca della tradizione ha avuto luogo nella cultura russo-occidentale (in particolare nella cultura ucraina) all’epoca di Pietro il Grande. E, nella misura in cui questa cultura ucraina aveva cominciato a penetrare nella Russia moscovita ben prima di Pietro il Grande, dando origine ad alcune correnti con essa simpatizzanti, si può considerare che le riforme culturali di Pietro il Grande hanno trovato un terreno propizio nella Grande Russia.

Dal XV secolo fino alla metà del XVII, la cultura della Russia occidentale e quella della Russia moscovita si sono evolute secondo percorsi talmente differenti, che lo scarto che le separava era diventato estremamente importante. Ma, nello stesso tempo, la viva coscienza dell’unità panrussa e dell’eredità culturale bizantina che esse avevano in comune non permetteva di considerarle completamente indipendenti l’una dall’altra, e faceva vedere in esse due “varianti”, due diverse modalità di una sola e medesima cultura panrussa. Dopo l’annessione dell’Ucraina (1) venne posta la questione della fusione di queste due varianti in una sola realtà. Tale questione, tuttavia, si poneva in modo offensivo, tanto per l’amor proprio nazionale grande-russo quanto per quello piccolo-russo (2) non si trattava tanto di fondere le due varianti  della cultura russa, quanto di eliminare una delle due come variante “pervertita”, e di conservare l’altra come l’unica variante “corretta” e autentica. Gli Ucraini ritenevano che la variante moscovita della cultura russa fosse stata corrotta dall’analfabetismo dei moscoviti, ai quali essi rimproveravano l’assenza delle scuole e davanti ai quali si vantavano delle loro realizzazioni in materia di istruzione. Quanto ai Moscoviti, questi giudicavano corrotta la variante ucraina (ed in generale quella russo-occidentale), a causa dell’influenza eretica del cattolicesimo polacco. Le persone ragionevoli comprendevano che entrambe le parti avevano al contempo ragione e torto, che i Grandi Russi avrebbero fatto bene ad aprire scuole e gli Ucraini a sbarazzarsi di molte caratteristiche prese in prestito dai Polacchi. Ma le persone ragionevoli erano poco numerose e le maggioranze dei due campi erano attestate su posizioni inconciliabili. Perciò, in pratica, il problema si riduceva a sapere quale delle due varianti della cultura russa dovesse essere o totalmente adottata o totalmente respinta. Spettava al governo, cioè in ultima istanza allo Zar, decidere. Il governo si schierò con il partito degli ucraini, il che era perfettamente corretto dal punto di vista politico: l’inevitabile scontento dei Grandi Russi poteva sfociare tutt’al più in rivolte a carattere locale, mentre quello degli Ucraini poteva rendere molto difficile, o addirittura impossibile, l’annessione dell’Ucraina, che era in corso di realizzazione. Ora, una volta schieratosi con gli Ucraini, il governo moscovita aveva fatto il primo passo per riconoscere il carattere “corretto” della variante ucraina della cultura russa. È vero che c’erano passi più importanti, che consistevano nel “correggere” i testi della liturgia (ossia nel rimpiazzarne la versione moscovita con quella ucraina); si trattava delle riforme del Patriarca Nikon (3). In tale ambito l’unificazione fu totale, nel senso che tutto quello che era grande-russo venne sostituito con ciò che era ucraino. Ma negli altri ambiti della cultura e della vita, l’unificazione non venne realizzata prima di Pietro il Grande. In Ucraina regnava una variante puramente occidentale della cultura russa, senza nessuna aggiunta grande–russa; nella Grande Russia c’era una mescolanza di cultura moscovita e russo-occidentale. Del resto, alcuni rappresentanti della classe superiore (gli “occidentalisti” dell’epoca) andavano alquanto lontano nell’adozione di elementi russo-occidentali da parte della cultura grande-russa, mentre altri (i nazionalisti moscoviti di allora) cercavano di mantenere la purezza della tradizione grande-russa.

Lo Zar Pietro si era proposto di europeizzare la cultura russa. È chiaro che soltanto la variante russo-occidentale, ucraina, della cultura russa poteva essere utilizzata a questo fine, dal momento che essa  aveva già assorbito alcuni elementi della cultura europea (nella sua variante polacca) e manifestava una tendenza ad evolvere in tale direzione. Al contrario, la variante grande-russa della cultura russa, a causa della sua eurofobia molto pronunciata e della sua tendenza all’autarchia, non soltanto era inadatta agli scopi fissati da Pietro il Grande, ma costituiva un ostacolo alla realizzazione degli stessi. Fu per tali motivi che Pietro il Grande cercò di sradicare ed annientare la variante grande-russa della cultura russa e fece della variante ucraina la sola variante di essa, fissandola come punto di partenza della sua evoluzione futura.

Fu in questo modo che morì la vecchia cultura grande-russa, moscovita, sotto il regno di Pietro il Grande. La cultura che a partire da quest’epoca vive e si sviluppa in Russia è il prolungamento organico e diretto non della cultura moscovita, ma della cultura kieviana, ucraina. Lo si può osservare in tutti i campi. Prendiamo, per esempio, quello della letteratura. La lingua normativa [litteraturnyj jazyk] utilizzata nelle belle lettere come nella letteratura religiosa e scientifica tanto nella Russia occidentale quanto in quella moscovita era lo slavone della Chiesa (4). Ma le varianti di questa lingua a Kiev e a Mosca prima del XVII secolo differivano un po’, tanto nel lessico quanto nella sintassi e nello stile. Dal patriarcato di Nikon, la variante kievana soppiantò la variante moscovita nei testi liturgici. Si può osservare più tardi lo stesso processo negli altri ambiti letterari, tanto che lo slavone ecclesiastico che serviva di base alla lingua normativa “slavo-russa” dell’epoca di Pietro il Grande era lo slavone ecclesiastico nella sua variante kievana. Nella Russia moscovita esisteva una ricca tradizione poetica (in versi), ma questa tradizione era essenzialmente orale. Di essa ci è pervenuto soltanto un piccolo numero di opere scritte; ma, a partire da quelle che ci sono note (per esempio Povest’ o Gore-Zločastii “Racconto del rimpianto e dell’infelicità” ), ci si può fare un’idea precisa delle particolarità di tale tradizione poetica. La lingua utilizzata era quella grande-russa quasi pura, con alcuni elementi dello slavone ecclesiastico, adorna di certe convenzioni poetiche tradizionali; la versificazione non era né sillabica né tonica, ma riposava su principi identici a quelli dei canti folkloristici grande-russi. Nella Russia occidentale, invece, la  tradizione poetica che si è imposta è un’altra, puramente libresca; quest’ultima, appoggiandosi sulla tradizione polacca, si è caratterizzata per la versificazione sillabica e l’uso della rima. Nella Russia occidentale questi “versi” (virši) erano scritti nello slavone ecclesiastico o in quel gergo russo-polacco (più esattamente bielorusso-polacco) che serviva, ai ceti superiori della società russa come lingua di conversazione e lingua pratica.  La poesia russa occidentale era penetrata nella Grande Russia prima di Pietro il Grande (scritta ovviamente in slavone ecclesiastico, cioè nella lingua normativa panrussa dell’epoca). Popolari, per esempio, erano i poemi di Simeon Polockij. Si videro anche apparire, a Mosca, imitatori locali di questo genere poetico; sarà sufficiente citare Silvestr Medvedev. A partire dall’epoca di Pietro il Grande, la poesia russa dell’antico tipo grande-russo si ritirò definitivamente “presso il popolo”: negli strati superiori (in senso culturale) della società non esisteva più se non una tradizione poetica che traeva origine nei virši sillabici scritti nello slavone ecclesiastico. La prosa narrativa esisteva sia nella Moscovia sia nella Russia occidentale, ma in quest’ultimo caso la schiacciante influenza polacca non consentiva lo sviluppo di una tradizione autonoma, sicché la prosa narrativa consisteva quasi esclusivamente di traduzioni. Nella Russia moscovita, in compenso, c’era una tradizione autonoma narrativa in prosa che nel secolo XVII era diventata particolarmente forte e lasciava sperare in un’evoluzione fiorente (si veda, ad esempio, Il racconto di Savva Grudcyn). Al contempo, in tutto questo XVII secolo, la Russia moscovita era inondata di racconti tradotti che provenivano dalla Russia occidentale. È a questa tradizione russa occidentale che aderisce la prosa narrativa russa dell’epoca postpetrina: la tradizione moscovita autoctona era morta prima di aver potuto raggiungere il pieno sviluppo. È altamente probabile che nella Russia moscovita esistesse l’arte oratoria. Lo stile delle opere dell’arciprete Avvakum (5) è nettamente oratorio e, malgrado l’apparente assenza di artifici, presuppone un’antica tradizione orale di predicazione. Ma questa tradizione non ha nulla in comune con quella della retorica scolastica impiantata nella Russia occidentale dalle confraternite (6) e dall’Accademia Mohiliana (7). Mosca era stata in contatto con questa tradizione ucraina di predicazione fin da prima di Pietro il Grande. Fu durante il regno di quest’ultimo che i celebri oratori ucraini Feofan Prokopovič e Stefan Javorskij assicurarono il trionfo definitivo di questa tradizione. Tutta la tradizione retorica (sia religiosa sia secolare) del periodo post-petrino risale per l’appunto a questa tradizione ucraina, e non alla tradizione moscovita; quest’ultima si era definitivamente estinta, lasciando dietro di sé, come sole testimonianze, le poche indicazioni che si possono ricavare dalle opere di Vecchi Credenti (8) come Avvakum. Infine, solo nella Russia occidentale esisteva una letteratura drammatica prima di Pietro il Grande. In rare occasioni venivano rappresentate a corte le opere drammatiche di autori ucraini (per esempio Simeon Polockij). La letteratura drammatica russa successiva a Pietro il Grande è geneticamente legata alla scuola drammatica ucraina. Vediamo così che la letteratura russa postpetrina è il prolungamento diretto della tradizione letteraria russa occidentale, ucraina.

Si può notare la medesima situazione nelle altre forme d’arte: nella musica vocale (soprattutto religiosa) e strumentale, nella pittura (dove la tradizione grande russa si è mantenuta solo tra i vecchi credenti, mentre nella Russia postpetrina tutta la pittura d’icone e il ritratto risalgono alla tradizione russa occidentale), nell’architettura religiosa (l’unico tipo di architettura per il quale si riconoscevano certi diritti allo “stile russo”) (9). Ma questa aderenza alle tradizioni russe occidentali e il rifiuto delle tradizioni moscovite non si notano soltanto nell’arte, bensì anche in tutti gli altri aspetti della cultura spirituale della Russia postpetrina. L’atteggiamento verso la religione e l’evoluzione del pensiero ecclesiastico e teologico dovevano naturalmente fondersi nella tradizione russa occidentale, una volta che la versione russa occidentale della liturgia venne riconosciuta come la sola corretta sotto il patriarcato di Nikon e l’Accademia Mohiliana di Kiev diventò il centro panrusso da cui si irradiarono le più elevate luci spirituali, al punto che la maggior parte dei dignitari della Chiesa russa per un lungo periodo uscirono da questa Accademia. Nei confronti della tradizione russa occidentale fu debitrice anche la pedagogia successiva a Pietro il Grande (nelle scuole, nello spirito e nel contenuto dell’insegnamento). Di origine tipicamente russa occidentale, infine, fu quell’atteggiamento verso l’antica cultura grande russa che dominò nel periodo postpetrino: era un fatto convenuto (e lo è ancora) che su questa cultura si dessero i medesimi giudizi che venivano emessi dagli Ucraini “istruiti” del XVII secolo…

 

II

 

Fu così che a cavallo dei secoli XVII e XVIII ebbe luogo una ucrainizzazione della cultura spirituale grande-russa. La differenza tra la variante russa occidentale e la variante moscovita della cultura russa fu eliminata con lo sradicamento di quest’ultima. Non vi fu se non una cultura russa unica.

Questa cultura russa unica dell’epoca postpetrina era di origine russo-occidentale, ucraina, ma il sistema statale russo era d’origine grande-russa, per cui il centro della cultura si dovette spostare dall’Ucraina alla Grande Russia. Il risultato fu che questa cultura diventò né specificamente grande russa né specificamente ucraina, ma panrussa. Tutta la sua evoluzione ulteriore fu determinata in larga misura da questa passaggio da una situazione limitata e locale ad un’altra, più ampia, nazionale ad un livello seriore. La variante russa occidentale della cultura russa si era formata in un’epoca in cui l’Ucraina era una provincia polacca e la Polonia, dal punto di vista culturale, era una provincia (una provincia remota) dell’Europa romano-germanica. Ma a partire dall’epoca di Pietro il Grande, questa variante russa occidentale della cultura russa, divenuta la sola cultura panrussa, fu per questo fatto stesso la cultura della capitale, nel momento in cui la Russia cominciava ad aspirare a svolgere un ruolo in “Europa”. La cultura ucraina, in qualche modo, si spostava da una insignificante cittadina provinciale verso la capitale, sicché dovette modificare sensibilmente il proprio aspetto provinciale. Si sforzò dunque di sbarazzarsi di tutto ciò che era specificamente polacco e di sostituirvi i corrispondenti elementi delle culture romano-germaniche originarie (tedesca, francese ecc.). Così l’ucrainizzazione divenne un ponte verso l’europeizzazione. Anche la base linguistica della cultura cambiò. Esisteva nella Russia occidentale, accanto allo slavone ecclesiastico normativo, un gergo russo-polacco, che serviva come lingua di conversazione e lingua pratica per le classi superiori della società. Ma, dopo che la variante ucraina diventò panrussa, questo gergo russo-polacco, emblematico del giogo polacco e dello spirito provinciale, non poteva ovviamente più continuare ad esistere. La lingua pratica grande-russa dominante nella Grande Russia, elaborata nell’ambito delle persone istruite moscovite, subì fortemente l’influsso del gergo russo-polacco, ma finì per soppiantarlo; essa divenne così la sola lingua pratica delle classi superiori, e ciò non solo nella Grande Russia, ma anche in Ucraina. Tra questa lingua e lo slavone ecclesiastico, che continuava a svolgere il suo ruolo di lingua normativa, si instauravano rapporti di osmosi, di infiltrazione reciproca: la lingua di conversazione delle classi superiori si “slavonizzava” fortemente, mentre lo slavone da parte sua si russificava. Infine, le due lingue si fusero per diventare il russo moderno, simultaneamente lingua normativa, lingua di conversazione corrente e lingua pratica di tutti i Russi istruiti, base linguistica della cultura russa.

L’ucrainizzazione culturale della Grande Russia e la trasformazione della cultura ucraina in cultura panrussa ebbero come conseguenza naturale il fatto che questa cultura perse il suo carattere provinciale specificamente ucraino. Essa non poteva acquisire un carattere specificamente grande russo per la semplice ragione che, come abbiamo detto più sopra, la continuità della tradizione culturale specificamente grande russa era stata definitivamente e irrevocabilmente interrotta, sicché si era conservata soltanto la lingua cancelleresca delle persone colte moscovite. Di qui proviene il carattere panrusso astratto di tutta la cultura “pietroburghese” postpetrina.

Ma il predominio di questo carattere panrusso astratto portava in pratica al rifiuto di ciò che era specificamente russo, vale a dire a un’autodenigrazione nazionale. E questa autodenigrazione doveva naturalmente provocare la reazione di coloro che possedevano un sentimento nazionale sano.

Questa situazione, nella quale in nome della grandezza della Russia veniva perseguitato e sradicato tutto ciò che era autenticamente russo, era troppo assurda per non provocare una protesta. Non c’è da stupirsi se nella società russa apparvero delle tendenze che affermavano l’unicità del carattere nazionale russo e mettevano in evidenza la fisionomia nazionale russa. Tuttavia, siccome queste correnti erano dirette contro il carattere astratto della cultura panrussa e si sforzavano di sostituirlo con qualcosa di concreto, esse avevano inevitabilmente uno spiccatissimo carattere regionalista: ogni tentativo per dare alla cultura russa un’identità nazionale più concreta portava inevitabilmente a scegliere una individuazione del popolo russo (grande russa, piccolo russa o bielorussa), in quanto esistevano concretamente solo i Grandi Russi, i Piccoli Russi e i Bielorussi, mentre i “Panrussi” sono semplicemente un’astrazione. Effettivamente, si vede che le correnti impegnate in favore di una cultura russa nazionale concreta seguono due linee parallele: grande russa e piccolo russa (10). È proprio lo stretto parallelismo di queste due linee ad essere considerevole; lo si può osservare in tutte le manifestazioni delle correnti suddette. Così, nel dominio letterario si trova, fin dalla fine del XVIII secolo, tutta una serie di opere scritte volontariamente nella lingua e nello stile popolari; queste opere si collocano su due linee evolutive strettamente parallele: una grande russa e l’altra piccolo russa. Inizialmente si nota in entrambe una tendenza parodistica e umoristica (si vedano Il prode Eliseo [Bogatyr’ Elisej] di V. Majkov nella linea grande russa e l’Eneide di Kotljarevskij in quella piccolo russa), successivamente sostituita da una tendenza romantico-sentimentale che mette l’accento sulla stilistica del canto popolare (nella tradizione grande russa il culmine è segnato da Kol’cov, in quella piccolo russa da Ševčenko). Verso la metà del XIX secolo, questa tendenza è sostituita a sua volta dalla letteratura di denuncia e del “male civico” (forma specificamente russa del mal du siècle europeo). L’idealizzazione romantica dei vecchi tempi, anteriori a Pietro il Grande, che si esprimeva nella letteratura, nella storiografia e nell’archeologia e discendeva anch’essa dalla ricerca della concretezza nazionale, si manifesta simultaneamente in queste due linee parallele, grande russa e ucraina. Si può dire la stessa cosa del populismo e delle differenti varietà di “marcia verso il popolo” (11). Ogni populista, in quanto si interessava a un popolo reale e concreto, diventava inevitabilmente un “regionalista” ad un certo grado, un infiammato difensore delle caratteristiche popolari e delle forme di vita specificamente grandi russe o ucraine.

Per quanto l’attrazione verso la concretezza nazionale nell’epoca pietroburghese rivestisse forme regionaliste o di insistenza su una determinata individuazione dell’etnia russa (grande russa, ucraina ecc.), questo fenomeno era panrusso per sua natura, poiché erano panrusse le sue cause stesse. La Russia postpetrina si caratterizzava per il netto distacco tra l’intellighenzia e le concrete fondamenta popolari, distacco che provocava l’allontanamento dell’intellighenzia dal popolo e, al contempo, l’ardente desiderio di un loro ricongiungimento. Il problema della riforma della cultura o della costruzione di un nuovo edificio culturale, in cui i livelli superiori si innalzassero in maniera organica a partire da fondamenta popolari, era panrusso per sua natura. Questo problema si pone ancor oggi a tutte le componenti dell’etnia russa: ai Grandi Russi come agli Ucraini e ai Bielorussi.

 

 

III

 

In relazione alla riforma della cultura, c’è una questione che si pone: la nuova cultura deve essere panrussa oppure una tale cultura non deve esistere affatto, ma devono essere create nuove culture, una per ogni sottogruppo dell’etnia russa?

Tale questione si pone in maniera speciale per gli Ucraini. Essa è particolarmente complicata da considerazioni politiche e in genere si accompagna a quella che consiste nel chiedersi se l’Ucraina debba essere uno Stato del tutto indipendente, o il membro di una federazione russa, o un’entità che faccia parte della Russia. Tuttavia, in questo caso specifico, non è assolutamente necessario stabilire un legame tra l’aspetto politico e quello culturale della questione. Si sa che esiste una cultura pangermanica, mentre tutte le parti dell’etnia tedesca non si trovano riunite in un solo Stato; è parimenti noto che gli Indù hanno una cultura del tutto indipendente, per quanto da parecchio tempo siano privi dell’indipendenza politica. Il problema della cultura ucraina e della cultura panrussa deve essere affrontato al di fuori della questione delle relazioni politiche e giuridiche esistenti tra l’Ucraina e la Grande Russia.

Abbiamo visto più in alto che la cultura panrussa dell’epoca postpetrina soffriva di molti gravi difetti, i quali avevano fatto nascere il desiderio di riformarla in una maniera concreta e nazionale. Certi fautori del separatismo culturale ucraino si sforzano di dimostrare che la cultura che è esistita in Russia fino ad oggi è una cultura grande-russa, e non panrussa. Ma ciò è scorretto nei fatti; abbiamo visto prima come la creazione di una cultura panrussa nel periodo postpetrino abbia avuto come base l’ucrainizzazione della Grande Russia e come questa cultura panrussa abbia legami di continuità solo con la cultura russa occidentale, ucraina, anteriore a Pietro il Grande, e non con l’antica cultura grande-russa, la cui tradizione si è interrotta al termine del secolo XVII. Non si può negare l’evidenza: gli Ucraini hanno attivamente partecipato non solo alla creazione, ma anche allo sviluppo di questa cultura panrussa, e lo hanno fatto in quanto Ucraini, senza rinnegare la loro appartenenza all’etnia ucraina. Anzi, essi hanno affermato la loro identità: non si può escludere Gogol’ dalla letteratura russa, Kostomarov (12) dalla storiografia russa, Potebnja (13) dalla filologia russa eccetera. È semplicemente impossibile negare che la cultura russa d’epoca postpetrina sia una cultura panrussa, o affermare che sia una cultura straniera per gli Ucraini. Se è vero che certi Ucraini hanno visto in essa una cultura che non appartiene loro in maniera integrale e se è vero che il fossato che separa l’élite culturale dalle masse è evidente allorché si considerano i modelli di pensiero e il modo di vita della gente comune in Ucraina, è altrettanto vero che il medesimo fenomeno può essere osservato anche nella Grande Russia. Quindi le cause di tale fenomeno non debbono essere ricercate nel fatto che la cultura era grande-russa.

Ogni cultura deve avere due componenti: una orientata verso il suo fondamento etnografico concreto e radicato nel popolo, l’altra verso le altezze della vita spirituale e intellettuale. Per assicurare la stabilità e la vitalità della cultura, ci vuole innanzitutto un legame organico tra queste due componenti e poi bisogna che ciascuna compia la funzione che ad essa è inerente; vale a dire, quella che ha a che fare con le radici popolari deve riflettere le caratteristiche particolari del suo fondamento etnografico concreto, mentre quella che è orientata verso le altezze spirituali deve corrispondere alle aspirazioni spirituali dei più eminenti rappresentanti della nazione.

Nella cultura panrussa dell’epoca successiva a Pietro il Grande, queste due componenti, o questi due “livelli” non erano sviluppati allo stesso modo. Il “livello inferiore” (14), rivolto verso le fondamenta culturali radicate nel popolo, corrispondeva molto male alle caratteristiche concrete del tipo etnologico russo e quindi compiva male la propria funzione. Una persona “del popolo” poteva associarsi a questa cultura solo a patto di perdere del tutto (o quasi del tutto) la propria identità, reprimendo e perdendo certi tratti essenziali – essenziali proprio per il “popolo”. Al contrario, il “livello superiore” della cultura panrussa, orientato verso le altezze della vita spirituale e intellettuale, quanto meno permetteva di soddisfare completamente le esigenze spirituali dell’intelligencija russa.

Cerchiamo adesso di immaginare che cosa accadrebbe se in Ucraina questa cultura panrussa venisse rimpiazzata con una cultura ucraina nuova, appositamente creata, che non avesse niente in comune con la cultura panrussa precedente. La popolazione ucraina dovrebbe “optare” per l’una o per l’altra. Se la nuova cultura ucraina riuscisse ad adeguare il proprio “livello inferiore” al fondamento etnografico concreto, sicuramente gli strati popolari opterebbero per questa cultura ucraina nuova, perché, come abbiamo visto, nell’antica cultura panrussa questo orientamento verso le radici popolari era sviluppato male e mal si adattava alle caratteristiche specifiche del popolo. Se però si vuole che questa nuova cultura ucraina sia scelta non solo per le masse popolari, ma anche per le élites colte (cioè per l’intelligencija più elevata), bisogna che il “livello superiore” di tale cultura risponda alle più alte esigenze intellettuali dell’intelligencija ucraina, in misura maggiore che nel caso dell’antica cultura panrussa. In caso contrario, l’intelligencija ucraina (e più esattamente l’intelligencija colta, quella che ha più peso dal punto di vista della creazione culturale) resterà fedele, nella sua schiacciante maggioranza, alla cultura panrussa. Una cultura ucraina autonoma che fosse priva della collaborazione di questa componente, la più preziosa del popolo ucraino, sarebbe condannata alla degenerazione e alla morte.

Qualora si consideri la questione in modo imparziale, si arriva questa conclusione: se è verosimile che una nuova cultura ucraina riesca in maniera soddisfacente ad adattare alle radici popolari il “livello inferiore” dell’edificio culturale, è invece poco verosimile che tale cultura possa soddisfare, se non parziale, l’altra condizione e che possa creare un nuovo “livello superiore” in grado di rispondere alle più alte esigenze dell’intelligencija meglio di quanto non lo facesse l’antica cultura panrussa. La nuova cultura ucraina non sarà mai capace di far concorrenza alla cultura panrussa per rispondere alle esigenze spirituali più elevate. Innanzitutto, essa non possiederà la ricca tradizione culturale della tradizione panrussa. Ora, l’inserimento in questa tradizione e il ricorso ad essa come punto di partenza facilita grandemente l’opera di coloro che creano i più alti valori spirituali, anche se si tratta di creare valori del tutto originali. Inoltre, allorché si tratta di creare valori culturali elevati, la selezione qualitativa dei loro creatori riveste un’importanza essenziale. Perciò è fondamentale che si sviluppi questo aspetto della cultura: che la totalità etnica in cui la cultura si sviluppa sia la più ampia possibile. Più i portatori di una cultura sono numerosi, più grande sarà il numero degli individui geniali che nasceranno tra i portatori della cultura stessa; e più numerosi saranno gl’individui di genio, più intenso sarà lo sviluppo del “livello superiore” della cultura, e più forte sarà la gara. La gara innalza la qualità dell’edificazione culturale. Così, mentre per il resto tutte le cose sono uguali, il “livello superiore” della cultura comune di una grande unità etnologica sarà, qualitativamente più perfetto e quantitativamente più ricco che non in altre culture le quali potrebbero elaborare parti isolate della medesima unità etnologica, operando ciascuna da sola, indipendentemente dalle altre. Ogni rappresentante imparziale di questa totalità etnologica lo deve riconoscere; qualora abbia la possibilità di scegliere, opterà naturalmente per la cultura della totalità etnologica (in questo caso particolare, la cultura panrussa) e non per la cultura di una parte di questa totalità (nel caso in questione, la cultura ucraina). Ne consegue che solo dei pregiudizi o l’assenza di scelta possono indurre ad optare per la cultura ucraina. Quanto abbiamo detto concerne sia i creatori degli alti valori spirituali sia i fruitori, vale a dire coloro che li apprezzano. La natura stessa della sua attività fa sì che ogni creatore di beni culturali di alto valore (se ha davvero del genio ed è cosciente delle proprie forze) tenta di rendere le sue creazioni accessibili al più alto numero possibile di persone in grado di apprezzarle. Ogni fruitore di questi beni culturali si sforza a sua volta di godere del prodotto dell’attività creatrice del più ampio numero possibile di creatori. Ciò spiega perché gli uni e gli altri sono interessati ad ampliare, e non a restringere, il campo della cultura in questione. La limitazione di questo campo può essere auspicata solo per dei creatori privi di genio o mediocri, i quali vogliano difendersi dalla concorrenza (un genio autentico non teme la concorrenza!) o per degli sciovinisti limitati e fanatici, che non si sono mai innalzati fino a poter valutare di per se stessa un’elevata cultura e possono apprezzare un prodotto dell’attività culturale solo nella misura in cui esso si trova entro i limiti della particolare variante regionale di una cultura. Sono persone di questo tipo quelle che, in genere, opteranno non per la cultura panrussa, ma per una cultura ucraina del tutto indipendente. Costoro diventeranno i principali adepti e i dirigenti di questa nuova cultura e vi imprimeranno il loro marchio: quello della meschina vanità provinciale, della mediocrità trionfante, della banalità, dell’oscurantismo, per non parlare dell’atmosfera di costante sospetto, di eterno timore della concorrenza. Sicuramente, queste persone faranno di tutto per limitare o abolire la possibilità di scegliere liberamente tra la cultura panrussa e una cultura ucraina indipendente. Cercheranno di impedire agli ucraini di conoscere il russo normativo, di leggere i libri russi, di interessarsi alla cultura russa. Ma nemmeno questo sarà sufficiente: bisognerà anche inculcare a tutta la popolazione dell’Ucraina un odio ardente e feroce per tutto ciò che è russo e mantenere vivo quest’odio per mezzo della scuola, della stampa, della letteratura, dell’arte, anche a prezzo di menzogne e di calunnie, del rifiuto del proprio passato storico, fino a calpestare i valori nazionali più sacri. In realtà, se gli Ucraini non sono animati dall’odio per tutto ciò che è russo, ci sarà sempre la possibilità di optare per la cultura panrussa. Ora, non è difficile capire che una cultura ucraina creata in tal modo sarà di pessima qualità. Essa non rappresenterà un fine di per sé, ma sarà solo lo strumento di una politica, di una politica malvagia, aggressivamente sciovinista, parolaia e provocatrice. I motori principali di questa cultura non saranno gli autentici creatori creatori di beni culturali, bensì dei maniaci fanatici, dei politicanti ipnotizzati dalle loro opinioni ossessive. Tutti gli elementi di questa cultura (scienza, letteratura, arte, filosofia ecc.) saranno dunque tendenziosi, anziché costituire un valore di per sé. La porta sarà aperta per gli incapaci, i quali raccoglieranno allori a buon mercato inchinandosi davanti alle piattezze partigiane, mentre i geni autentici, che non si rassegneranno a portare i paraocchi, verranno ridotti al silenzio.

Ma soprattutto si può dubitare che una simile cultura possa essere veramente nazionale. Soltanto dei veri geni, mossi da una forza interiore irrazionale e non da obiettivi politici secondari, sono capaci di esprimere completamente nei beni culturali lo spirito dell’identità nazionale. Ma per tali geni non ci sarà spazio in questo malevolo ambiente sciovinista. I politici avranno in testa una cosa sola: creare al più presto la loro cultura ucraina, non importa quale, purché non somigli alla cultura russa. Ciò comporterà immancabilmente una febbrile attività di imitazione: piuttosto che creare qualcosa di nuovo, sarà più semplice importare dall’estero beni culturali già esistenti (a condizione che non provengano dalla Russia!), dopo averli battezzati all’istante con dei nomi ucraini! Una “cultura ucraina” creata in tal modo non sarà l’espressione organica della natura tipica dell’identità nazionale ucraina e non si distinguerà molto dalle “culture” che vengono create in fretta da tutti quei “popoli giovani” che svolgono il ruolo di comparse alla Società delle Nazioni. Una siffatta cultura combinerà l’esibizione demagogica di alcuni elementi isolati del tripodi vita popolare, scelti a casaccio ed inessenziali, con la sostanziale negazione delle basi più profonde di questo tripodi vita. L’ultima moda della civiltà europea (adottata meccanicamente ed assunta in maniera maldestra) si mescolerà agli aspetti più clamorosi del vecchiume provinciale e dell’arretratezza culturale. Tutto ciò, in un vuoto spirituale mascherato da un’autoglorificazione arrogante, da una pubblicità martellante e da frasi grandiloquenti sulla cultura nazionale e sui particolarismi, sarà solo un miserabile surrogato; non una cultura, ma una caricatura.

Tali sono le prospettive poco attraenti che si aprono davanti alla cultura ucraina, se essa decide di rimpiazzare la cultura panrussa o di eliminarla, o di entrare in competizione con essa. Una situazione in cui ogni Ucraino colto debba scegliere tra l’essere russo e l’essere ucraino, avrà come conseguenza una selezione di operatori culturali estremamente svantaggiosa per lo sviluppo della cultura ucraina. Ponendo la questione dei rapporti tra cultura ucraina e cultura panrussa sotto forma di dilemma (“aut aut”), gli Ucraini condannano la loro cultura futura alla poco invidiabile situazione che abbiamo descritta. Formulare la questione in un modo del genere è totalmente sfavorevole per gli Ucraini. Per evitare questo avvenire miserevole, la cultura ucraina deve essere edificata in modo tale che essa vada a completare la cultura panrussa, anziché andarsi a mettere in concorrenza con essa; in altri termini, la cultura ucraina deve diventare una individuazione della cultura panrussa.

Abbiamo già mostrato che il livello “inferiore” (ossia vicino ai fondamenti popolari) dell’edificio culturale doveva essere completamente ricostruito e che in questo edificio la cultura ucraina poteva e doveva manifestare in modo naturale la propria identità; d’altra parte abbiamo mostrato come al “livello superiore” della cultura, che include i più elevati valori culturali, fosse impossibile alla cultura ucraina far concorrenza alla cultura panrussa. Osserviamo dunque una delimitazione naturale tra il dominio della cultura panrussa e quello della cultura ucraina. Questa delimitazione non si riassume certamente in quanto è stato appena detta, poiché, oltre al livello “superiore” e a quello “inferiore”, la cultura ha anche dei livelli “intermedi”. Comunque sia, il principio di differenziazione è stato spiegato.

 

 

IV

 

Le medesime considerazioni debbono servire come punto di partenza per differenziare il dominio della cultura panrussa e quelli appartenenti alle culture bielorussa, grande russa e di altre regioni. Come è stato detto, la disarmonia tra il “livello inferiore” dell’edificio culturale e le fondamenta popolari è stato un fenomeno generale nella cultura russa dopo Pietro il Grande. Toccherà all’avvenire il compito di rimediare a questo difetto, di armonizzare la parte della cultura russa rivolta verso le radici popolari con la concreta peculiarità nazionale del popolo russo. Una migliore corrispondenza tra la cultura e il popolo garantirà la partecipazione ininterrotta dei “rappresentanti del popolo” all’edificazione culturale. E siccome questa parte della cultura deve essere adattata ai caratteri peculiari specifici del popolo russo, è naturale che questa iniziativa sia fortemente differenziata a seconda dei domini regionali ed etnici. Infatti il “popolo russo in generale” è un’astrazione, in quanto esistono concretamente solo i Grandi Russi (con le loro suddivisioni: Grandi Russi settentrionali, meridionali, Pomori, Russi del Bacino della Volga, Siberiani, Cosacchi ecc.), i Bielorussi, i Piccoli Russi o Ucraini (anch’essi con le loro suddivisioni). Il livello inferiore dell’edificio culturale si deve adattare in ogni regione alla determinata variante specifica del popolo russo (ossia alla particolarità regionale dell’identità nazionale russa). È su questa base che la cultura russa dovrà differenziarsi fortemente in futuro in funzione delle regioni e delle province; al posto dell’omogeneità astratta, impersonale e burocratica del passato, dovrà apparire un arcobaleno dalle tinte locali nettamente differenziate.

Sarebbe tuttavia un grave errore considerare lo sviluppo di queste varianti locali come l’unico o il principale obiettivo del lavoro culturale. Non bisogna dimenticare che, oltre all’aspetto rivolto verso le proprie radici popolari, ogni cultura deve anche avere un altro aspetto, orientato verso le altezze spirituali. Guai alla cultura in cui questo aspetto non è sviluppato abbastanza, al punto che l’élite culturale della nazione è obbligata a sovvenire alle esigenze spirituali più alte non coi propri beni culturali, ma con quelli d’una cultura estranea! È per questo che l’elaborazione e lo sviluppo degli aspetti della cultura orientata verso le radici popolari devono accompagnarsi ad un lavoro intenso nel dominio dei valori spirituali “superiori”. E se la natura stessa dell’attività effettuata al livello inferiore della cultura russa esige una differenziazione in funzione delle regioni e dei gruppi etnici russi, l’attività svolta al livello superiore richiede, per la sua stessa natura, la collaborazione di tutti i gruppi etnici russi. Nella misura in cui le frontiere regionali sono naturali ed essenziali al livello inferiore perché vi sia un adattamento della cultura alle specificità del suo fondamento etnografico, nella stessa misura queste frontiere sono, al livello superiore, artificiali, superflue e nefaste. L’essenza stessa di questa parte della cultura esige un diapason di attività che sia il più ampio possibile; ogni limitazione che le barriere regionali possano recare a questo diapason sarà percepita come un fastidio inutile dai creatori dei beni culturali e dai loro fruitori. Solo degli sciovinisti regionali maniaci e fanatici, solo dei creatori mediocri e timorosi di concorrenza possono desiderare che vengano elevate delle barriere regionali in questo dominio della cultura. Nel caso in cui, per compiacere i creatori mediocri di beni culturali ed i fruitori non dirozzati, sia necessario erigere delle barriere culturali non solo al livello inferiore dell’edificio culturale, ma anche al livello superiore, allora in certe regioni del paese regnerà un clima così soffocante di stagnazione provinciale e di meschinità trionfante, che quanti posseggono un vero talento e sono intellettualmente maturi fuggiranno dalla provincia per dirigersi verso la capitale. Alla fine, nelle province non resteranno più quegli operatori culturali, la cui attività è indispensabile al lavoro nei livelli inferiori dell’edificio culturale.

Così, la differenziazione etnica e regionale della cultura russa non deve riguardare il culmine dell’edificio culturale, non deve attentare ai valori d’ordine superiore. Non devono esistere frontiere etniche e regionali al “livello superiore” della futura cultura russa. Diversamente, al “livello inferiore” le barriere etniche e regionali devono essere fortemente sviluppate e chiaramente delimitate. Certo, una frontiera netta tra questi due livelli non può esistere; essi devono fondersi l’uno nell’altro in maniera graduale e impercettibile. Altrimenti la cultura non sarebbe un sistema unico, non sarebbe una cultura nel vero senso del termine. Le frontiere regionali, nettamente disegnate nella parte inferiore dell’edificio culturale, sfumeranno gradualmente a mano a mano che ci si innalza e ci si allontana dalle fondamenta popolari; al sommo dell’edificio, questi limiti non saranno più evidenti. È importante che vi sia un’interazione costante tra l’alto e il basso dell’edificio culturale. I beni culturali nuovamente creati al livello superiore devono indicare la direzione che prenderanno i beni culturali creati al livello inferiore e differenziati regione per regione. Inversamente, le creazioni culturali delle individuazioni regionali della Russia, una volta messe insieme, devono neutralizzare le caratteristiche locali e particolari e dare risalto a quelle comuni, definendo in tal modo lo spirito del lavoro culturale del livello superiore. La funzione, la forma e le dimensioni delle barriere regionali devono essere determinate dalla necessità di assicurare una costante interazione tra l’alto e il basso dell’edificio culturale: queste barriere devono garantire una corretta individuazione regionale della cultura, ma non devono in alcun caso ostacolare l’interazione tra l’alto e il basso. Evidentemente è impossibile regolamentare tutto ciò in maniera precisa. Le barriere regionali possono essere importanti per una data questione, meno importanti per un’altra. L’importante è solo capire correttamente il senso di queste barriere e non farne dei fini in sé.

Perché la cultura russa sia un sistema unico, malgrado la differenziazione regionale ed etnica della sua parte inferiore, deve essere soddisfatta una condizione: un solo e medesimo principio organizzatore deve sostenere sia la parte più alta dell’edificio culturale russo sia le varianti regionali del livello inferiore. Questo principio è la fede ortodossa. Essa appartiene in proprio ad ogni individuazione etnica del popolo russo, è profondamente radicata nell’anima del popolo ed allo stesso tempo è capace di diventare il fondamento dei valori culturali superiori destinati ai rappresentanti qualificati della più alta cultura russa. Una volta era questo principio a costituire il nerbo vitale di tutta la cultura russa ed è stato grazie ad esso che l’individuazione russa occidentale e l’individuazione moscovita della cultura russa sono state capaci di riunirsi. In seguito, quella cieca infatuazione per la cultura europea, secolarizzata, atea e anticristiana (15), che caratterizzò l’epoca post-petrina, ha corroso e distrutto nell’élite culturale della nazione questo antico pilastro della vita russa, che era un retaggio avito, senza sostituirlo con nient’altro. Nella misura in cui l’atteggiamento di questa élite culturale è penetrato nelle masse popolari col suo rifiuto dei principi ortodossi, esso vi ha prodotto una vera e propria devastazione culturale. Ma i migliori rappresentanti della gente semplice, così come quelli dell’intelligencija, risentivano dolorosamente di questo vuoto spirituale; è una delle ragioni per cui la ricerca religiosa, assumendo talvolta le forme più paradossali, è una caratteristica della vita del popolo russo e dell’intelligencija di tutta l’epoca postpetrina. Questa ricerca non poteva essere soddisfatta finché la cultura russa rimaneva al di fuori della religione e finché la Chiesa, messa dal governo in una posizione subordinata (16), si trovava al di fuori della cultura (o, in ogni caso, al di fuori della corrente principale della cultura panrussa). Così, coloro che erano impegnati in una ricerca religiosa procedevano in disordine, e solo alcuni di loro “scoprivano” accidentalmente l’Ortodossia nel corso di tale ricerca. Adesso, dopo il periodo del dominio comunista, il vuoto spirituale della cultura secolare (dunque antireligiosa) è apparso nella luce più cruda ed ha raggiunto il culmine; è quindi necessario che abbia luogo una reazione decisiva, con l’aiuto di Dio. La futura cultura russa deve diventare religiosa, in maniera totale. L’Ortodossia deve penetrare non solo la vita del popolo, ma anche tutte le parti dell’edificio della cultura russa, fino ai fastigi più alti. Solo a quel punto ogni Russo troverà nella cultura russa una perfetta serenità e il soddisfacimento delle sue più profonde esigenze spirituali; solo a quel punto la cultura russa costituirà dall’alto al basso un sistema unico, nonostante la sua diversificazione esterna in etnie e regioni.

 

 

V

 

Attualmente noi assistiamo a una notevole diversificazione regionale della cultura russa. In Ucraina, in particolare, domina l’aspirazione a un totale separatismo culturale. Ciò può essere spiegato, in ampia misura, con la politica sovietica, la quale dà prova d’indulgenza verso il separatismo culturale, al fine di meglio disarmare il separatismo politico. Bisogna anche tener conto del fatto che alla maggior parte degli intellettuali ucraini più qualificati è stato impedito di svolgere un ruolo decisivo nel lavoro culturale; bisogna poi tener conto dell’afflusso di elementi dell’intelligencija provenienti dalla Galizia, la coscienza nazionale dei quali è stata completamente pervertita da secoli di contatto col cattolicesimo e dall’asservimento ai Polacchi e, infine, dell’atmosfera di lotta nazionale (o più esattamente linguistica) separatista e provinciale che ha sempre caratterizzato il vecchio Impero austro-ungarico (17). Per quanto concerne la popolazione ucraina, certi gruppi simpatizzano meno con le forme concrete dell’ucrainizzazione che non con la sua propensione a separarsi da Mosca, la Mosca comunista. Il separatismo culturale si nutre anche dei sentimenti anticomunisti (“piccolo borghesi” secondo la terminologia sovietica) di cerrti ambienti ucraini. Questi sentimenti non hanno legami intrinseci e logici col separatismo culturale; al contrario: sotto il vecchio regime essi avevano costituito un sostegno per il centralismo. Inoltre, l’attività creativa al livello superiore della cultura, dove l’unità russa può e deve manifestarsi nella maniera più netta, è ostacolata e artificiosamente compressa dall’egemonia politica del comunismo, il quale proibisce a chiunque non sia comunista di creare dei beni culturali, ma è esso stesso incapace di creare dei valori superiori che possano rispondere ad esigenze spirituali anche poco sviluppate.

Ma la spiegazione principale di questa infatuazione per l’ucrainizzazione è naturalmente costituita dal fascino della novità e dal fatto che gli ucrainomani, a lungo oppressi e costretti a vivere in clandestinità, hanno adesso piena libertà d’azione. Comunque sia, in questo dominio si notano attualmente delle cose mostruose. L’ucrainizzazione sta diventando un fine di per sé e dà luogo a un dispendio inutile di forze vive della nazione. È chiaro che in avvenire la vita farà le sue correzioni, purificando il movimento ucraino di quell’elemento caricaturale che è stato apportato dai maniaci fanatici del separatismo culturale. Molte cose, che sono state e sono ancora create da questi nazionalisti zelanti, sono destinate alla morte e all’oblio. Ma l’opportunità di creare una cultura ucraina particolare, distinta dalla cultura grande russa, non può più essere negata. Una coscienza nazionale correttamente sviluppata mostrerà ai futuri creatori di questa cultura i suoi limiti naturali, nonché la sua vera essenza e il suo vero compito: diventare un’individuazione particolare – ucraina – della cultura panrussa. Solo in quel momento il lavoro culturale in Ucraina acquisirà un carattere che consentirà ai migliori elementi del popolo russo di parteciparvi con una totale conoscenza di causa.

Ciò avverrà quando alla base della vita nazionale in Ucraina (come nelle altre regioni della Russia-Eurasia) la compiacenza verso gli istinti egoistici e l’affermazione nuda e cruda della natura biologica dell’uomo saranno state soppresse e rimpiazzate dal primato della cultura, nonché dalla conoscenza di sé, sia sul piano personale sia su quello nazionale. L’eurasiatismo chiama tutti i Russi (non solo i Grandi Russi, ma anche i Bielorussi e gli Ucraini) a lottare per questi ideali.

 

 

 

  1. Nel 1654, in seguito a una rivolta contro il potere polacco, lo Zar estese la sua sovranità alla riva destra del Dnepr e alla zona di Kiev (N. d. T.).
  2. Utilizziamo il termini “piccolo russo” e “ucraino”, mentre sarebbe più corretto dire “russo occidentale”. Negli strati superiori (in senso culturale) della società della Russia occidentale, nel periodo in questione non si faceva differenza tra Piccoli Russi e Russi Bianchi.
  3. Nikon (1605-1681), patriarca della Chiesa ortodossa russa dal 1652 al 1658, fu l’autore di quelle riforme liturgiche che indussero una parte dei fedeli al Grande Scisma  (N. d. T.).
  4. Viene chiamata “slavone ecclesiastico” quella lingua che, utilizzata sia nei testi teologici sia in quelli secolari, ha le proprie origini nel dialetto bulgaro-macedone elaborato da Cirillo e Metodio per evangelizzare gli Slavi dell’Europa centrale (N. d. T.).
  5. L’arciprete Avvakum (1620-1682) fu un fiero avversario delle riforme del patriarca Nikon (N. d. T.).
  6. Associazioni di laici, fondate a partire dal XVI secolo nelle città lituane con popolazione rutena, lo scopo delle quali era l’apertura di scuole e tipografie che combattessero l’influenza occidentale in Ucraina (N. d. T.).
  7. Dal nome del fondatore Pietro Mohyla si chiamò Accademia Mohiliana la scuola superiore sorta a Kiev nel 1630 (N. d. T.).
  8. Furono chiamati Vecchi Credenti quei fedeli della Chiesa ortodossa russa che non accettarono le riforme del patriarca Nikon   (N. d. T.).
  9. Sulla tradizione russo-occidentale nell’architettura, nella pittura e nella scultura russa dopo Pietro il Grande, cfr. P. N. Savickij, Velikorossija i Ucraina v russkoj kul’ture [La Grande Russia e l’Ucraina nella cultura russa], “Rodnoe Slovo”, Varsavia, 1926, n. 8.
  10. Una tendenza bielorussa è sempre esistita, ma si è sempre sviluppata più debolmente.
  11. Si chiamò “marcia verso il popolo” (khoždenie v narod) un movimento populista di giovani intellettuali che nel 1873 e nel 1874 andarono nelle campagne per sollevare le masse contadine contro il potere politico (N. d. T.).
  12. N. I. Kostomarov  (1817-1885), storico, etnografo e letterato russo-ucraino, fu fautore dell’autonomia culturale e nazionale dell’Ucraina (N. d. T.).
  13. A. A. Potebnja (1835-1891), slavista russo-ucraino, si occupò di questioni linguistiche, letterarie ed etnografiche (N. d. T.).
  14. Per evitare ogni malinteso, dobbiamo precisare che non attribuiamo alcun giudizio di valore ai termini „superiore“ e „inferiore“. Se ci si chiede quale di questi due livelli abbia più “valore”, ci rifiutiamo di rispondere; non solo, ma riteniamo che tale questione sia mal posta. L’immagine dei livelli “superiore” e “inferiore” non rimanda a gradi diversi di perfezione o di valore culturale, ma solo a due funzioni differenti della cultura. I gradi di valore e di perfezione non dipendono da queste funzioni, ma dall’attività dei singoli creatori, sia che questi operino al livello “superiore” o a quello “inferiore”. La poesia di Kol’cov ha un valore estetico maggiore di quella di Benediktov, anche se Kol’cov si trovava al livello “inferiore” e Benediktov a quello “superiore”.
  15. Non è che nel Medioevo la cultura europea sia stata cristiana (o abbia voluto esserlo): a partire dal periodo chiamato “Rinascimento”, essa ha assunto una posizione ostile rispetto al cristianesimo. È stata questa forma di cultura, avversaria della Chiesa e in fin dei conti di ogni religione, ad essere assimilata, dopo Pietro il Grande, dalla Russia europeizzata (N. d. T.).
  16. Nel 1721 Pietro il Grande mise la Chiesa sotto la tutela del potere politico, sostituendo il patriarcato di Mosca con un Santo Sinodo controllato dallo Zar.
  17. Al termine del sec. XVIII, in seguito alla spartizione della Polonia, la Galizia era andata a far parte (con la Rutenia subcarpatica e la Bucovina) dell’Impero d’Austria (N. d. T.).

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LE SCUSANTI IRANIANE

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I retroscena

Il 14 agosto 2002 il gruppo di opposizione iraniano autodenominatosi Consiglio Nazionale di Resistenza Iraniano (CNRI) denunciò l’esistenza di un impianto nucleare segreto nella città di Natanz.

Nel febbraio 2003, mentre la coalizione USA si stava mobilitando per invadere l’Iraq alla ricerca di presunti armamenti chimici, l’Iran cercò di rassicurare la “comunità internazionale” ammettendo ufficialmente l’esistenza del sito di Natanz e permettendo all’AIEA di fare delle rilevazioni per verificare l’eventuale presenza di uranio sul posto. Come prima cosa gli ispettori notarono che le centrifughe di Natanz non erano configurate in maniera tale da poter arricchire uranio per scopi militari. Infatti, la disposizione delle centrifughe in serie è importante per capire il livello di arricchimento che possono portare; ad esempio, un reattore viene solitamente alimentato con uranio arricchito al 5%, mentre una testata nucleare è costruita utilizzando uranio arricchito attorno al 95%. Il modo in cui sono disposte le centrifughe, in unità e in cascate, può fornire molte informazioni sul livello di arricchimento che possono raggiungere.

Dopo il sopraluogo, ma prima dei risultati delle rilevazioni, nel giugno 2003, la AIEA dichiarò che l’Iran non aveva rispettato gli accordi assunti con la firma del TNP. Le inadempienze iraniane, però, a differenza di quel che si pensa, non riguardavano il mancato annuncio dell’impianto di Natanz, bensì l’acquisizione di circa 2 tonnellate di uranio naturale importato dalla Cina nel 1991.  Anche se gli ispettori dell’AIEA rimasero sbigottiti nel ritrovarsi davanti un impianto per l’arricchimento di uranio in grado di contenere decine di migliaia di centrifughe, la costruzione del sito era del tutto legale. Secondo l’accordo firmato nel 1974, l’Iran avrebbe dovuto dichiarare l’esistenza di una qualsiasi struttura collegata con il suo programma almeno 180 giorni prima l’introduzione di materiale nucleare al suo interno. Anche se terminato, il sito di Natanz non era ancora in funzione. Consapevole di ciò, l’Agenzia si limitò a denunciare una violazione degli accordi avvenuta nel 1991 e spontaneamente ammessa dall’Iran dopo le rivelazioni del 2002.

Oltre ad essere alquanto datata, la trasgressione non risultava neppure così scandalosa; le due tonnellate di uranio naturale importate equivalevano a 0,13Kg di uranio potenzialmente arricchibile. Infatti, circa il 99% di uranio naturale non può essere arricchito. Solo una minima quantità del minerale (lo 0,7%), costituita dall’isotopo U-235, può essere sottoposta a fissione nucleare. Come dichiarato dall’Agenzia, una simile quantità può essere utilizzata solo nel campo della ricerca e non può portare quindi alcun beneficio nella costruzione fisica di un ordigno nucleare. Con ogni probabilità l’Iran adoperò questa quantità di uranio per proseguire le sue ricerche sul programma di arricchimento a laser. Tuttavia, per costruire una testata nucleare “media” (25Kg di uranio arricchito al 96%) sono necessarie circa 12 tonnellate di uranio a basso arricchimento (inferiore al 20%); l’Iran, dall’inizio del suo programma ad oggi, ha arricchito più o meno 8.271Kg di uranio al 5% e 280Kg al 20%, una quantità insufficiente a costruire un singolo ordigno nucleare.

Quando i risultati delle rilevazioni effettivamente confermarono la presenza di particelle di uranio nell’impianto di Natanz, l’Iran si giustificò sostenendo che la contaminazione derivava da alcuni componenti di centrifughe importate dal Pakistan. Dopo anni d’indagini e verifiche, l’Agenzia concluse nell’agosto 2005, che la versione dei fatti raccontata dall’Iran era credibile. Successivamente a questo episodio, fino ad oggi, non ci sono state altre occasioni in cui l’AIEA ha potuto verificare il mancato rispetto degli accordi presi dall’Iran sotto il TNP.

 

 

La dimensione militare

Fra le congetture a sfavore dell’Iran, ne esiste una che, qualora risultasse veritiera, dimostrerebbe una reale connessione tra il programma nucleare e l’intenzione di sviluppare armamenti atomici. Sono i cosiddetti “alleged studies”, un vasto volume di documentazioni e progetti consegnati all’AIEA da fonti indipendenti ma non ufficialmente rese note dall’Agenzia nel rapporto pubblicato nel 2011. Secondo quanto dichiarato, grazie ad informazioni fornite da alcuni stati membri, indagini indipendenti dell’Agenzia e dichiarazioni fatte dalle stesse istituzioni iraniane, l’AIEA sarebbe stata in grado di mettere insieme un fascicolo che delineerebbe in dettaglio alcune attività non dichiarate dall’Iran fino al 2003.

Secondo l’AIEA, il Centro di Ricerca di Fisica iraniano avrebbe condotto fra il 2002 e il 2003 alcune attività segrete sotto il nome di AMAD Plan. Questo sarebbe una sorta di macroprogetto comprendente altri tre sottoprogetti: il Green Salt Project, il test di potenti esplosivi, e alcuni studi ingegneristici riguardanti la ricostruzione del carico utile del veicolo di rientro del missile Shahab-3 (Project 111). Il Green Salt Project faceva parte di un più ampio programma chiamato Project 5 avente lo scopo di procurare una fonte di uranio da utilizzare in un programma di arricchimento dislocato. Una volta arricchita, questa quantità di uranio sarebbe stata convertita in uranio metallico, un composto indispensabile per la costruzione di un ordigno atomico, da integrare non per caso in una testata nucleare del missile Sahahab-3, oggetto di studio del Project 111. In particolare, lo scopo del Project 111 era quello studiare il modo di adattare un nuovo carico utile, di forma sferica, all’interno dell’esistente camera del veicolo di rientro del Shahab-3. Ad ogni modo, già nel 2004, diversi anni prima la pubblicazione degli “alleged studies”, l’Iran aveva dichiarato all’Agenzia di aver convertito tra il 1995 e il 2002 una quantità di tetrafluoruro di uranio (un composto comunemente conosciuto come Green Salt) in 126,4Kg di uranio metallico al Centro di Ricerca di Teheran; un’operazione che rientrava nelle facoltà iraniane secondo gli accordi presi sotto il TNP.

Per quanto riguarda i test di esplosivi, tra il materiale raccolto dall’Agenzia sarebbe testimoniata anche la sperimentazione di un sistema di iniziazione multi punto, un apparecchio utile a rimodellare l’onda di detonazione in modo da assicurare un’implosione uniforme del nucleo del materiale fissile a densità supercritica. Il test dell’apparecchiatura sarebbe stato condotto nel 2003 facendo brillare una potente carica di esplosivo di forma semisferica delle stesse dimensioni del nuovo carico utile per il missile Shahab-3. Altre indiscrezioni pervenute all’Agenzia raccontano della costruzione di un enorme recipiente utile a contenere esperimenti idrodinamici con potentissimi esplosivi nel complesso militare di Parchin. Tuttavia, anche se non necessario, essendo Parchin un sito militare e non un complesso collegato al programma nucleare, l’Agenzia ebbe la possibilità d’ispezionarlo due volte nel 2005 senza trovare nulla di compromettente. Neppure le immagini satellitari dal 2005 ad oggi mostrano attività sospette nel complesso militare.

Gli “alleged studies” fanno esclusivamente riferimento ad un solo tipo di missile, il Shahab-3, in dotazione al Corpo delle Guardie della Rivoluzione Islamica dal 2003. Il Shahab-3 è un missile balistico a medio raggio in grado di portare un carico utile di 1.000 Kg. Anche se recenti sviluppi hanno aumentato notevolmente la sua gittata, fino al 2008 il Shahab-3 poteva raggiungere una distanza massima di 800-1.000Km e avrebbe quindi potuto raggiungere Israele solo parzialmente. Considerando che la deterrenza contro Israele e i suoi alleati sarebbe l’unica ragione razionale che potrebbe spingere l’Iran a sviluppare armamenti nucleari, risulta difficile credere che l’Iran avrebbe potuto mettere a rischio la sua reputazione internazionale rischiando oltretutto di incappare in una guerra preventiva da parte dell’Occidente, solo per costruire un ordigno nucleare strategicamente inutile per il suo scopo. Montare una testata nucleare in un Shahab-3 non avrebbe intimorito Israele né tantomeno gli USA e sarebbe stato quindi del tutto controproducente.

Se l’Iran sia stato intenzionato oppure no a sviluppare armamenti nucleari in passato resta un mistero. Quel che è certo è che non ci sono finora prove o fatti concreti che dimostrino una dimensione militare del programma, oltre al fatto che l’AIEA ha notevolmente intensificato i controlli, rendendo improbabile lo sviluppo di un ordigno nucleare oggi.

 

*Giacomo Barolo è dottore in Scienze Internazionali e Diplomatiche all’Università di Bologna

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SIRIA: FINALE DI PARTITA

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«Time for reform». Così dichiara il Presidente siriano Bashar al-Assad al Wall Street Journal (1). E’ il 31 gennaio 2011. La “rivolta” in Libia contro il regime di Gheddafi scoppia qualche settimana dopo (il 17 febbraio). A marzo, la Giamahiria dà inizio ad una controffensiva che induce le potenze occidentali, forti della Risoluzione 1973 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, ad intervenire direttamente nel conflitto. Ancora una volta, infischiandosene del diritto internazionale, gli Stati Uniti, insieme con il Qatar, la Gran Bretagna e la Francia, hanno appoggiato, se non organizzato, una insurrezione armata contro un regime considerato un ostacolo per quella ridefinizione in chiave filo-atlantista della carta geopolitica dell’area mediterranea che i media mainstream definiscono come “primavera araba”. (2) Passeranno però mesi prima che le potenze occidentali abbiano ragione della resistenza di Gheddafi. Una resistenza piegata solo dal lancio di un centinaio di missili da crociera e dall’aviazione della Nato, che effettuerà migliaia di missioni di combattimento. Ma all’inizio del 2011, ben pochi in Occidente pensano che la guerra contro la Giamahiria sarà così lunga e difficile. Tanto che gli occhi dell’Occidente sono già da tempo puntati su un “ostacolo” ben maggiore della Libia, la Siria di Bashar al-Assad appunto. Il motivo non è difficile comprenderlo. Negli ultimi anni, la Siria ha saputo creare un polo geopolitico regionale insieme con l’Iran ed Hezbollah. Una alleanza di cui doveva far parte pure la Turchia di Erdogan.

In effetti, dopo l’incidente della Mavi Marmara, sono parecchi gli analisti occidentali che ritengono che la tradizionale politica filoatlantista e filosionista di Ankara stia per volgere al tramonto. Ma è ovvio che né gli Stati Uniti né Israele possono rassegnarsi al ruolo di semplici spettatori. E il cosiddetto “neoottomanesimo” del governo turco viene sfruttato abilmente dai circoli filoatlantisti, che riescono a convincere Ankara a voltare le spalle a Damasco, facendo leva sul fatto che la Turchia può acquisire un’importanza fondamentale nel “gioco strategico” delle potenze occidentali. Del resto, gli avvenimenti che sconvolgono l’Africa Settentrionale, dalla Libia all’Egitto, sono una “ghiotta opportunità” per l’ambizioso Erdogan, convinto che il nuovo corso della politica mediterranea porterà pure ad un rapido crollo del regime di Assad e assicurerà alla Turchia tutti i benefici derivanti dall’essere l’ago della bilancia nel Medio e Vicino Oriente.

E’ evidente allora che, quando Assad dichiara di essere disposto ad “aprire” il proprio Paese, la macchina da guerra allestita dalle petromonarchie del Golfo, certamente con l’appoggio degli Stati Uniti, è pronta ad entrare in funzione anche in Siria. Di conseguenza, si può supporre che il Presidente Assad, consapevole di quello che stava bollendo in pentola, abbia voluto “giocare d’anticipo”. In Siria però il fuoco cova sotto la cenere da parecchi anni, fin dalla rivolta (a Hama, nel 1982) contro il regime del padre di Bashar (Hafez al-Assad) da parte dei Fratelli Musulmani. Questi ultimi sono una “galassia” complessa, ma indubbiamente sono nemici giurati del regime di Damasco e in passato si sono perfino opposti a Nasser. Sì che sembra che quel che i Fratelli Musulmani vogliono combattere sia, in realtà, ogni “autorità” che non goda del sostegno degli Stati Uniti o che non agisca negli interessi di Israele. Ma dietro i Fratelli Musulmani vi è soprattutto il Qatar, una “entità  politica” che sarebbe del tutto trascurabile in condizioni geopolitiche di “normale equilibrio”, e che invece è un attore geopolitico di primo piano nel quadro di un mutamento di strategia che vede gli Stati Uniti appoggiare apertamente delle forze islamiste, il cui compito è quello di difendere gli interessi statunitensi, senza che sia necessario un intervento diretto degli Stati Uniti. (3)

Non a caso, nel maggio del 2011, qualche mese dopo l’inizio dell’attacco alla Siria, gli statunitensi uccidono Osama Bin Laden (che pare conducesse una vita da pensionato in Pakistan), il cui cadavere viene gettato in mare, di modo che sia chiaro a tutti (sebbene non tutti lo comprendano) che, con la nuova amministrazione di Obama, i “nemici dell’Occidente” ormai non sono più i musulmani fondamentalisti, ma, oltre ai Russi e ai socialisti di tutte le “specie”, solo gli sciiti o comunque i musulmani (arabi o no) che non siano alle dipendenze della Casa Bianca. Washington ha preso atto sia dell’insostenibilità dell’enorme costo della guerra contro l’Afghanistan e di quella contro l’Iraq, entrambe rivelatesi fallimentari sotto il profilo politico-militare (lo scopo di queste azioni belliche essendo, fuor di dubbio, il controllo del “cuore” dell’Eurasia), sia del fatto che gli Stati Uniti possono impedire che si formi un nuovo equilibrio multipolare solo ricorrendo ad un “approccio indiretto”, tale cioè da destabilizzare/distruggere “dall’interno” ogni centro di potere dell’area mediterranea allargata (comprendente quindi pure la regione del Mar Nero e quella del Golfo Persico, nonché buona parte dell’Africa settentrionale ed orientale) che sia o si ritenga essere (potenzialmente) ostile nei confronti dell’Occidente. D’altra parte, il pericolo di essere un apprendista stregone lo deve pur correre Obama, e con lui i gruppi subdominanti europei, dacché è in gioco la supremazia stessa degli Stati Uniti, che non possono più sperare di evitare di confrontarsi con le (nuove) potenze dell’Eurasia su basi ben diverse da quelle su cui si reggeva la politica degli Stati Uniti da Bush senior a Bush junior.

Perciò non può nemmeno sorprendere che nel mese di marzo 2011, in concomitanza con la controffensiva di Gheddafi e l’entrata in guerra della Nato contro la Libia, le prime manifestazioni contro il governo di Damasco si rivelino essere in buona misura eterodirette e tutt’altro che pacifiche. A nulla però valgono le notizie che confermano che tra i manifestanti vi sono gruppi  armati che cercano di gettare benzina sul fuoco per arrivare ad uno scontro con il regime (4). E a niente serve che Assad, che ormai è certo informato delle infiltrazioni nel Paese di diversi gruppi armati, nonché dei legami tra questi gruppi e le frange più radicali dell’opposizione, sia ancora disposto a fare notevoli “aperture”, compresa la concessione della cittadinanza ai curdi.

Si tratta di passi importanti e non facili, se, a differenza di quanto fanno i media mainstream, si tiene conto che la Siria non solo si trova, di fatto, in guerra contro Israele dal 1948, ovvero fin dalla nascita dello Stato sionista, ma che dopo la guerra del Kippur nel 1973 e la pace tra l’Egitto e Israele essa sostiene il peso maggiore della lotta contro gli israeliani (una lotta che porterà il regime baathista di Assad a dare il maggior contributo alla causa palestinese). In queste condizioni, la Siria sa benissimo che “aprendosi” rischia di essere aggredita dal “nemico alle porte”. Eppure Bashar Assad, i cui servizi non sono all’oscuro della terribile minaccia che incombe sulla Siria, non esita ad annullare lo “stato d’emergenza” in vigore dal 1963 e a sciogliere il governo. Una qualsiasi altra opposizione non si lascerebbe sfuggire una tale occasione, ma le forze che sono scese in campo contro Assad hanno scopi del tutto differenti da quelli dei manifestanti pacifici.

Al riguardo, la sequenza degli eventi non lascia dubbi. Mentre si susseguono manifestazioni più o meno violente e compaiono “misteriosi” cecchini che sparano sulla folla, si moltiplica la pressione della “comunità internazionale” (ossia “Usa e soci”) su Damasco, affinché Assad getti la spugna. A maggio gli Stati Uniti annunciano sanzioni economiche contro la Siria, subito seguiti dalla Unione Europea (e questo mentre i “mercati occidentali” massacrano i ceti popolari e medio-bassi dell’Europa Meridionale – Italia compresa, con il consenso di quella che si potrebbe definire la “finanzsinistra” – , al punto da rendere problematico per un buon numero di cittadini di Eurolandia garantire le cure mediche o un pasto decente ai propri familiari). Ma è nel mese di giugno che dovrebbe essere chiaro a chiunque che cosa veramente accade in Siria, allorché il governo di Damasco comunica che a Jisr al-Shughour ben 120  membri delle forze dell’ordine sono stati uccisi da una banda armata. Nondimeno, a luglio Assad fa ancora un tentativo per risparmiare al proprio Paese gli orrori di una guerra civile, rimuovendo il governatore della provincia di Hama. E il Presidente siriano annuncia pure di essere pronto ad avviare un “dialogo nazionale” sulle riforme, esattamente come aveva già dichiarato il 31 gennaio al Wall Street Journal. Assad dunque ha intenzione di mantenere le proprie promesse. A questo punto però Obama getta la maschera, dichiarando che Assad deve abbandonare la carica di Capo dello Stato, mentre parallelamente i rappresentanti dei “ribelli”, riuniti a Istanbul, danno vita al cosiddetto “esercito siriano libero”. Nulla può più fermare la macchina da guerra che muove contro la Siria baathista.

In sostanza, in Siria si è ripetuto il noto copione che porta all’aggressione di un Paese ostile all’Occidente: prima si creano, agendo su quelle “fratture interne” presenti in ogni Stato, le condizioni per una insurrezione armata e si provocano incidenti e scontri attribuendo alle forze governative ogni sorta di crimini e misfatti, in particolare proprio quelli commessi dai “ribelli”; poi scatta la condanna della “comunità internazionale” con sanzioni e la richiesta di cambio di regime. Nel frattempo gli episodi di violenza si moltiplicano, si infiltrano nel Paese numerosi gruppi armati, nonché membri delle forze speciali occidentali, e nelle mani dei “ribelli” appaiono, di punto in bianco, armi potenti e sofisticate. Le tensioni sociali naturalmente non spiegano affatto quel che in realtà succede, ma vengono strumentalizzate dai media mainstream al fine di giustificare l’aggressione. (Peraltro, non è difficile immaginare quel che accadrebbe anche nel nostro Paese, se si desse vita ad una “operazione colorata” di questo genere, facendo leva, con larga disponibilità di mezzi e risorse, su organizzazioni criminali e/o gruppi estremisti”).

Tuttavia, gli strateghi (filo)occidentali anche questa volta hanno commesso un errore, non tenendo conto della storia politico-militare della Siria o interpretandola, come al solito, secondo schemi concettuali basati su pregiudizi “etnocentrici”. L’esercito siriano in tutte le guerre combattute contro Israele si è sempre distinto per tenacia e capacità di “resistere al fuoco nemico”. Quel che i siriani non potevano fare era colmare il divario tecnologico tra i sistemi d’arma degli israeliani (in particolare aerei, missili e radar) e quelli prodotti dall’Unione Sovietica in dotazione alle Forze Armate di Damasco. Eppure, nonostante i rovesci subiti dall’aviazione e dalla difesa aerea, nel giugno del 1982, l’esercito siriano riuscì a frustrare l’azione di un intero corpo d’armata israeliano comandato dal generale Ben-Gal. Quando si iniziò il “cessate il fuoco”, a mezzogiorno dell’11 giugno, infatti l’autostrada Beirut-Damasco, obiettivo principale di Ben Gal, era ancora saldamente controllata dalla prima divisone e da elementi della terza divisione corazzata siriane. E questo nonostante che l’attacco di Ben-Gal fosse cominciato dopo che pressoché tutte le batterie Sam siriane erano state distrutte o gravemente danneggiate. (5)

Il parziale scacco dell’esercito israeliano (solo parziale, in quanto in seguito gli israeliani, grazie al completo dominio dell’aria, riuscirono a controllare una sezione dell’autostrada Beirut-Damasco) non solo non venne ben valutato dalla maggior parte degli analisti israeliani, che nella seconda invasione del Libano andarono incontro ad una più severa sconfitta contro Hezbollah, ma nemmeno dalla maggior parte degli analisti statunitensi od occidentali, abituati a confondere la superiorità tecnologica e la maggiore potenza di fuoco con la capacità e il valore dei combattenti (nonostante le durissime lezioni della Guerra d’Indocina, d’Algeria, di Corea e del Vietnam). Ma, al di là della prestazione dell’esercito siriano contro l’esercito israeliano, quel che in questa sede rileva, come si sarà capito, è il fatto che era stato questo esercito, profondamente radicato nella società siriana, a reprimere la rivolta di Hama, scatenata dai Fratelli Musulmani, nel febbraio del 1982, proprio alcuni mesi prima degli scontri tra siriani ed israeliani nel Libano, ossia quando la tensione tra Siria e Israele era già altissima. Conta poco qui anche il giudizio che si può esprimere sulla durezza della repressione da parte di Hafez Assad, molto di più conta invece, per capire la forza del regime baathista, che è l’esercito (e, si badi, un esercito di leva) il pilastro cardine dello Stato baathista, anziché, come favoleggiano i gazzettieri occidentali, gli “sgherri” di Assad.

Inoltre, i politici e gli analisti occidentali hanno trascurato il ruolo della Cina e (specialmente) della Russia, decise questa volta a non ripetere l’errore compiuto nel non mettere il veto alla Risoluzione 1973 dell’Onu. E se l’appoggio della Russia si è rivelato essenziale per la Siria, decisiva si è rivelata anche l’alleanza, solida e sicura, della Siria con l’Iran ed Hezbollah. Nulla di strano pertanto che, sebbene in questi lunghissimi due anni di guerra più volte l’Occidente abbia dato per finito il regime di Assad, l’esercito siriano abbia sempre saputo reagire, replicando “colpo su colpo” ad una aggressione condotta da una miriade di bande armate e di gruppi terroristici che possono contare su un finanziamento pressoché illimitato e su un continuo flusso di armi, munizioni ed equipaggiamento, oltre che su un costante flusso di informazioni fornito dai più sofisticati apparati di intelligence occidentali. Inevitabile però anche che i delitti sempre più efferati e orribili dei gruppi islamisti più estremisti, soprattutto stranieri, abbiano spinto gli elementi più moderati dell’opposizione a prendere le distanze dalla “rivolta” e reso invece ancora più coesa e determinata a combattere i “ribelli” gran parte della società siriana.

Si sono venuti così a creare i presupposti per una grande controffensiva dell’esercito siriano, coadiuvato dalle milizie di Hezbollah, che ha portato in questi ultimi giorni alla liberazione di Al-Qusayr, un nodo strategico tra Damasco, le coste, Homs, Hama e Aleppo. E l’esercito siriano adesso è pronto a muovere all’assalto per liberare la più grande città della Siria, dopo Damasco, diventata in questi ultimi mesi la roccaforte dei “ribelli”. Tutto lascia pensare quindi che la guerra civile siriana sia giunta al punto di svolta. Se i soldati di Damasco dovessero vincere la battaglia di Aleppo infliggerebbero un colpo letale ai “ribelli”. E tuttavia Damasco non può non tener conto anche delle “forze occidentali” che temono il contraccolpo di una vittoria di Assad, in quanto una totale vittoria di Damasco avrebbe un significato politico eccezionale, anche perché inevitabilmente emergerebbero le malefatte, le menzogne e i crimini compiuti dagli islamisti con il sostegno e la complicità delle potenze occidentali e dei circoli filo-atlantisti (media mainstream compresi).

Di conseguenza, vi è da temere che gli Stati Uniti e i loro alleati accusino l’esercito siriano di aver usato armi chimiche (mentre vi sono numerosi indizi che siano stati i “ribelli” a farne uso), per giustificare un intervento della Nato o comunque una serie di azioni a sostegno dei “ribelli”, tali da poter rovesciare una situazione nettamente favorevole alle forze governative, o perlomeno tali da evitare una totale vittoria dell’esercito siriano che sta guadagnando rapidamente terreno. (6) D’altronde, è pur vero che la particolare e delicata situazione geopolitica della regione rende un intervento militare della Nato assai rischioso sotto ogni punto di vista. E si deve anche tenere presente che la fortissima reazione dell’esercito siriano, dopo che quest’inverno tutto pareva perduto per chi difendeva la causa della Siria baathista, ha colto di sorpresa anche molti analisti e politici europei che sulla Siria e su chi la difende, con le armi o con le parole, hanno detto e scritto una marea di sciocchezze vergognose, allo scopo di mostrarsi, per così dire, perfino “più realisti del re”.

Ovviamente il regime di Assad non è affatto privo di difetti, anche gravi, ma non è nemmeno lontanamente paragonabile al regime dell’Arabia Saudita o a quello del Qatar. (Ma in quale Paese non vi sono tensioni sociali e gravi contraddizioni? Va bene la questione dei “diritti umani”, ma almeno si considerino innanzitutto quelli fondamentali, come il diritto ad una alimentazione adeguata, alla salute, al lavoro e così via; ossia quei diritti sociali ed economici che la Siria cerca almeno di garantire, pur tra mille difficoltà, a differenza di quanto succede in molti Paesi occidentali – benché siano più ricchi della Siria – in cui dettano legge una decina di banche, società finanziarie e agenzie di rating angloamericane, cioè quei “mercati” che, dopo aver rapinato i risparmi delle famiglie e dei lavoratori, accumulati nel corso d’intere generazioni, si apprestano a “fagocitare” interi Stati per porre rimedio ai disastri causati da loro stessi). E se è facile rendersi conto di quello che può essere accaduto in quasi trenta mesi di guerra civile (resa ancor più terribile dalla presenza di mercenari e terroristi arrivati da ogni angolo della terra), è lecito e doveroso sostenere, pur sapendo che è impossibile che il “bene” sia tutto da una parte, che la principale responsabilità di quanto è accaduto (e accade) in Siria è, senza alcun dubbio, di quelle forze straniere e di quei siriani che non hanno esitato a ricorrere alla violenza e al terrorismo allo scopo di rovesciare il regime di Assad e distruggere la Siria baathista.

Una barbarie che ha già causato quasi 100.000 morti (ma la cifra potrebbe essere pure maggiore), oltre un milione di profughi e immensi dolori, sofferenze e rovine. Epperò, se Assad non si fosse opposto al disegno criminale dell’oligarchia occidentale e del grottesco petrodittatore del Qatar, sarebbe stata una catastrofe per tutto il Vicino e Medio Oriente (e non solo), indebolendo gravemente pure quel legame tra Hezbollah e Iran, che è ormai di vitale importanza per la causa del popolo palestinese (la cui classe dirigente, che presenta non pochi tratti simili a quelli della classe dirigente italiana, sembra essersi specializzata nella “svendita” della propria terra e dei sacrosanti diritti degli stessi palestinesi al miglior offerente). Perciò è logico che oggi, in Europa, coloro che ritengono che la politica di potenza degli statunitensi e dei loro alleati non sia destinata a durare in eterno, purché ci si impegni a contrastare ovunque e “senza se e senza ma” la “volontà di potenza” dei centri di potere atlantisti, non possono non augurarsi una completa vittoria delle forze fedeli al regime baathista di Bashar al-Assad, contro il terrorismo e le aberrazioni di quella caricatura dell’Islam che l’Imam Khomeyni definiva sprezzantemente, ma correttamente, “Islam made in Usa”.

 

 

 

 

 

1)Vedi http://online.wsj.com/article/SB10001424052748704832704576114340735033236.html.

2)Vedi http://www.juragentium.org/topics/wlgo/it/libia.htm.

3)Sul Qatar vedi, ad esempio, Alessandro Lattanzio, Qatar. L’assolutismo del XXI Secolo, Anteo Edizioni, Cavriago (Re), 2013.

4)Vedi Alessandro Lattanzio, Intrigo contro la Siria, “Eurasia”, 2/2012, pp. 125-155. Ancora più dettagliato il libro, dello stesso autore, Intrigo contro la Siria. La Siria baathista tra geopolitica, imperialismo e terrorismo, Anteo Edizioni, Cavriago (Re), 2012. Si veda anche http://aurorasito.wordpress.com/2011/11/20/i-deliri-della-sinistra-riguardo-la-libia-e-la-siria/.

5)Vedi Benny Morris, Vittime, Rizzoli, Milano, pp. 656-673.

6)Vedi http://aurorasito.wordpress.com/2013/06/10/il-confronto-russo-occidentale-siriasintensifica-mentre-i-ribelli-subiscono-un-sconfitta-decisiva/.

 

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SYRIA. QUELLO CHE I MEDIA NON DICONO

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INVITO ALLA CONFERENZA STAMPA

SYRIA. QUELLO CHE I MEDIA NON DICONO

Gli autori del libro inchiesta incontrano a Roma

i corrispondenti della stampa estera in Italia

 

Si comunica che martedì 18 giugno, alle ore 11,  presso l’Associazione della Stampa Estera in Italia, in via dell’Umiltà 83/C a Roma, gli autori del libro inchiesta “Syria. Quello che i media non dicono” illustreranno ai giornalisti stranieri e italiani i contenuti del reportage sulla Siria e sul ruolo dell’informazione nella crisi iniziata nel maggio del 2011.

Alla conferenza stampa parteciperanno i reporter Raimondo Schiavone, Talal Khrais e Alessandro Aramu.

Schiavone e Khrais sono tra i pochissimi giornalisti ad aver incontrato Bashar al Assad, SYRIA analizza in mxodo preciso gli antefatti e gli sviluppi di una vicenda che i mass media hanno raccontato spesso in modo parziale..

Nella prefazione, il giornalista libanese Talal Khrais spiega come la guerra in Siria rappresenti un espediente per demolire uno Stato dove cristiani musulmani convivono da centinaia di anni. Khrais, di ritorno dalla Siria, racconterà la sua straordinaria esperienza di corrispondente dalle zone più calde del conflitto, in particolare nella città Qusayr, ex roccaforte dei ribelli riconquistata dall’esercito di Assad nei giorni scorsi. Un racconto in presa diretta su ciò che è realmente accaduto in quella che è stata considerata dagli analisti politici la “Stalingrado siriana”.

Il volume è diviso in tre parti. Le prime due (scritte da Raimondo Schiavone e Antonio Picasso) sono dei veri e propri reportage che da Beirut portano a Damasco e ai villaggi cristiani poco distanti dalla Capitale. Schiavone è protagonista (insieme a Khrais) di un incontro eccezionale: una lunga chiacchierata con Assad, il presidente della Siria, che ai suoi occhi appare quasi timido. Un ritratto inedito di un uomo che molti considerano “il male assoluto”. Assad pronuncia parole importanti e spiega come la guerra in Siria abbia poco a che fare con la democrazia e sia un attacco orchestrato da Stati stranieri.

Straordinaria è anche l’intervista esclusiva ai detenuti stranieri (proveniente da Yemen, Afghanistan e Algeria) in un carcere siriano nel corso della quale viene spiegata la”strategia del terrore” organizzata per far cadere lo Stato Siriano. Per la prima volta i detenuti vengono

fotografati e ripresi con una telecamera. Il volume Syria propone un racconto eccezionale i cui contenuti, alla luce di quanto è emerso negli ultimi mesi, sono la prova della presenza predominante delle frange più radicali nelle file dei cosiddetti ribelli, a partire dalle cellule del terrore di al Qaeda.

I reportage di Schiavone e Picasso raccontano un paese dove la convivenza religiosa e la sopravvivenza degli stessi cristiani sono messe in pericolo dagli estremisti islamici. La deputata cristiana Maria Saadeh, il vescovo Siro –Ortodosso di Homs, il parroco di Jaramana e il tutore del santuario del Monastero di Santa Tecla testimoniano le paure di una comunità che il mondo per troppo tempo non ha voluto né vedere né ascoltare.

L’ultima parte, di Alessandro Aramu, è un’inchiesta sul ruolo dei media nel conflitto  siriano.  Le televisioni satellitari arabe, come era accaduto in Libia con la caduta di Gheddafi, non hanno garantito un’informazione imparziale. Il volume presenta le prove delle notizie manipolate e addirittura inventate.  Un lungo elenco di casi che hanno creato nell’opinione pubblica mondiale una rappresentazione errata di quanto stesse accadendo in Siria. Notizie costruite sul campo di battaglia senza alcuna verifica della fonte sono servite a orientare la politica degli Stati e le strategie militari. Il caso più eclatante è la strage di Hula: attribuita in un primo momento all’esercito di Assad, si scoprì, grazie a un reporter tedesco, che fu commessa dai ribelli. La verità fu pressoché taciuta, la falsa notizia ebbe risonanza mondiale. Dopo la strage , la Siria viene isolata nel campo delle telecomunicazioni e viene bloccata la trasmissione satellitare dei canali pubblici per ridurre al minimo la capacità del Governo di informare il suo popolo. Seguendo le orme del reportage in Siria, Aramu illustra come i media occidentali hanno raccontato la condizione dei cristiani nel paese, citando anche quei reportage che hanno offerto per la prima volta in Italia una “diversa prospettiva” sul conflitto.

I giornalisti Raimondo Schiavone, Talal Khrais, Alessandro Aramu e Antonio Picasso fanno parte di Assadakah, Centro Italo- Arabo e del Mediterraneo, un’organizzazione che in questi anni ha svolto numerose missioni estere, in particolare in Libano, Siria e Darfur. Sono autori del libro – reportage  “Lebanon”. Insieme ad altri reporter, italiani e stranieri, sono entrati nel cuore della Resistenza Libanese, raccontando “da dentro” il Partito di Dio, noto come Hezbollah, il partito sciita radicato nel tessuto sociale e nella realtà quotidiana del paese. Lebanon racconta il presente e il passato di uno Stato tornato pericolosamente sull’orlo del baratro di una guerra a causa della crisi siriana.

 

 

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LA REPUBBLICA ISLAMICA DELL’IRAN: NOMOCRAZIA E FUNZIONE GEOPOLITICA

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Il 15 giugno 2013 la casa editrice Irfan ed “Eurasia. Rivista di studi e geopolitici”, in collaborazione con l’Associazione Imam Mahdi e con l’Istituto Culturale dell’Ambasciata della Repubblica Islamica dell’Iran, hanno organizzato a Roma la presentazione del libro di Ali Reza Jalali “La Repubblica Islamica dell’Iran tra ordinamento interno e politica internazionale” (Edizioni Irfan, 2013). Oltre all’autore del libro, sono intervenuti come relatori: Giuseppe Aiello (editore del libro), Ali Pourmarjan (direttore dell’Istituto Culturale dell’Ambasciata della Repubblica Islamica dell’Iran) e Claudio Mutti (direttore della rivista “Eurasia”), del quale riportiamo di seguito l’intervento. 

 

 

Ali Reza Jalali si propone di rendere comprensibile il concetto di “Repubblica Islamica”, cercando di spiegarlo sulla base delle categorie politologiche “occidentali”.

Bisogna vedere – egli scrive – se un termine come ‘Repubblica’ non sia in contraddizione con un sistema islamico che è legittimato da Dio, essendo il modello repubblicano legittimato normalmente dal popolo. La ‘Repubblica’ di cui si parla in Occidente è sicuramente in antitesi con uno Stato islamico, ma il punto fondamentale è che per i costituenti iraniani ‘Repubblica’ vuol dire semplicemente la possibilità che i cittadini possano scegliere i propri governanti, senza però che vi sia una ‘legittimazione democratica’ dell’ordine costituito” (p. 20).

L’Autore ha fatto benissimo a usare il tempo presente (“si parla”) e a delimitare l’area culturale (“in Occidente”).

L’antitesi infatti scompare, qualora si faccia riferimento alla concezione di “repubblica” quale si evince dalle dottrine politiche di una cultura che non è quella della modernità e dell’Occidente, ma è quella della tradizione europea: la cultura dell’antichità greco-romana.

Proviamo infatti a ricondurre il concetto di “repubblica” a quello espresso dal latino res publica, riprendendo la definizione che ne dà Cicerone nel I libro del trattato intitolato per l’appunto De re publica. Qui la res publica viene definita come l’organizzazione unitaria di un aggregato umano reso solidale non solo dal comune vantaggio, ma, prima ancora, da una comune coscienza giuridica: “coetus multitudinis juris consensu et utilitatis communione sociatus“.

La res publica è definita da Cicerone come res populi, “ente del popolo”. Ma, per quanto riguarda il fondamento ed il fine da cui essa deriva la sua legittimità, Cicerone li indica chiaramente allorché nel Somnium Scipionis, che suggella il trattato De re publica, afferma che l’azione dell’uomo politico si accosta alla suprema volontà di Dio, cosicché a coloro che hanno operato per il bene dello Stato sono riservate in cielo una vita immortale e una felicità eterna.

D’altronde l’ordinamento politico che Cicerone chiama res publica non è sostanzialmente diverso da quello che Platone e Aristotele chiamano politèia.

Nel III libro della Politica, esaminando i diversi regimi politici, Aristotele distingue tre forme corrette di Stato: la basilèia (cioè la monarchia che agisce per il bene comune), l’aristokratìa (il governo dei migliori ovvero il governo inteso a realizzare ciò che è meglio per i cittadini) e, appunto, la politèia (quello in cui il popolo governa la polis in vista del bene comune). A questi tre tipi “buoni” corrispondono altrettante deviazioni (parekbàseis): la tirannide, l’oligarchia e la democrazia (tyrannìs, oligarchìa, demokratìa).

E’ più o meno lo stesso schema politologico che troviamo in Platone, il quale chiama politeia (res publica) il suo Stato ideale, uno Stato, una “Repubblica”, che svolge una funzione eminentemente “religiosa”, in quanto collega la comunità umana con la realtà divina.

La legittimazione divina e lo scopo trascendente che caratterizzano la Repubblica Islamica consentono all’Autore può stabilire un’altra differenza fondamentale rispetto agli Stati dell’Occidente.

Lo Stato iraniano – egli dice – non è una Repubblica laica in senso occidentale, in quanto la legge di Dio è comunque sovraordinata alla legge dell’uomo, ma non è nemmeno una teocrazia classica nella quale i cittadini non hanno voce in capitolo, come ancora oggi avviene in alcuni paesi mediorientali” (pp. 20-21).

Per quanto riguarda la laicità, non sarà fuor di luogo ricordare che in origine il termine “laico” (dal greco laikós, “volgare”, “profano”) si contrappone propriamente a “chierico” (col significato di “dotto”) e designa perciò l’individuo ignorante, cosicché risulta più che fondata questa osservazione di René Guénon:

“Vale la pena di notare che certa gente, che nella nostra epoca si vanta di essere ‘laica’, insieme con quella che si compiace di dirsi ‘agnostica’ (e spesso si tratta delle stesse persone), non fa altro che gloriarsi della propria ignoranza; e questa ignoranza deve essere in effetti molto grande e veramente irrimediabile, se non si accorge che tale è il significato delle etichette di cui si fregia”.

Tuttavia, anche se intesa nel significato corrente di separazione della politica dalla religione e di estraneità dello Stato rispetto alle questioni religiose, la nozione di laicità risulta del tutto incompatibile con la cultura islamica, in quanto secondo quest’ultima la legge dello Stato deve fondarsi sulla giurisprudenza sciaraitica, la quale a sua volta procede dai principi insiti nel Corano e nella Sunna del Profeta.

(A questo proposito sarebbe il caso di osservare che Stati musulmani comunemente considerati “laici” smentiscono in maniera incontestabile tale qualifica. Cito come esempio la Siria, la quale nel suo stesso dettato costituzionale – art. 3, comma primo e comma secondo – dichiara che fonte principale della legislazione è il diritto islamico e che il presidente deve essere di religione musulmana).

Rifiutata la definizione di Stato teocratico – definizione che risulta imbarazzante, in quanto correntemente applicata a regimi politici corrotti in cui la religione è instrumentum regni – l’Autore propone un’altra definizione.

“Attraverso una forzatura – dice – si può affermare che ‘Repubblica Islamica’ vuol dire ‘uno Stato teocentrico nel quale vigono le elezioni’ ” (p. 20).

A mio parere la definizione di “Stato teocentrico” non è affatto una forzatura, anzi: “Stato teocentrico” mi sembra una formula eccellente per definire la Repubblica Islamica.

Volendo, però, si potrebbe trovare una soluzione corrispondente a quel concetto che la lingua persiana esprime mediante il costrutto velayat-e faqih, “governo del giurisperito”. Si potrebbe cioè coniare un neologismo come nomocrazia, che significherebbe il “potere della legge”; o come teonomia, che indicherebbe il “governo della legge divina” (dove l’elemento di composizione nomo, dal greco nómos, significa “legge”, “principio normativo”).

Ancora una volta, il termine di paragone più adeguato è quello che ci proviene dalla politologia della tradizione europea, in particolare da Platone: quel Platone che Al-Farabi onorò dell’epiteto di Aflatun al-Ilahi (“divo Platone”) e riconobbe come maestro, al punto che l’Imam della sua “repubblica islamica” (al-madinah al-fadilah) è stato definito come un “Platone rivestito del mantello di profeta di Muhammad” (H. Corbin, Storia della filosofia islamica, Milano 1973, p. 169).

Infatti Platone, raccontando il mito dell’età di Crono (Leggi 713b sgg.), ci esorta a proclamare come norma fondamentale e sovrana dello Stato quella Legge dettata dallo spirito, quel nómos, che si manifesta in noi come dianomè tou nou (714a) ossia come regola e guida dell’intelligenza.

Contraddicendo quel sostenitore assoluto dei diritti umani che fu il sofista Protagora, Platone afferma che non l’uomo, ma Dio è misura di tutte le cose: (ho dè theòs hemin pànton chremàton métron àn eìe) (716c). Perciò, dato il limite oggettivo della natura umana (anthropeìa physis), è necessario che l’uomo sia sottomesso a Dio e che il governo della Repubblica abbia radici nella saggezza divina. L’uomo che deve reggere lo Stato, conclude Platone, dev’essere il miglior conoscitore delle leggi e deve essere superiore ai suoi concittadini per altezza di costume, di pensiero e di azione.

Sono gli stessi concetti che risuonano nella dottrina politica islamica, così come è stata formulata dall’Imam Khomeyni in Hukumat Eslam:

“Il governo islamico è il governo della Legge e Dio solo è il sovrano ed il legislatore. (…) Nell’Islam governare significa obbedire alla Legge e renderla supremo giudice. I poteri conferiti al Profeta, che Dio lo benedica e lo salvi, ed ai governanti legittimi a lui succeduti sono poteri derivati da Dio. (…) Considerato che il governo islamico è un governo della Legge, è necessità assoluta che il governante dei Musulmani sia ben informato della Legge, come dice il hadith (…) E’ un fatto riconosciuto che ‘le persone esperte della Legge hanno la superiorità anche sui re’ ” (Imam Khomeini, Il governo islamico, pp. 70-71 e 77-78).

Il libro di Ali Reza Jalali si conclude proprio con la citazione di una frase dell’Imam Khomeini che dice: “Sostenete il governo del giurisperito islamico, affinché il Paese non subisca danni” (p. 96).

Siccome la maggior parte del libro è dedicata ad illustrare la collocazione della Repubblica Islamica nel contesto internazionale, cercherò di applicare all’Iran i criteri della geopolitica.

Secondo le elaborazioni della geopolitica di scuola britannica, l’Iran è un segmento centrale di quella lunga fascia che in un libro di Nicholas J. Spykman uscito del 1944, The geography of peace, viene chiamata Rimland. In inglese, rim significa “bordo, orlo, margine”, per cui il Rimland è il bordo esterno del continente eurasiatico: dalle coste atlantiche e mediterranee dell’Europa fino al Giappone e alla Corea, passando per il Vicino ed il Medio Oriente, il Sudest asiatico, le Filippine e Taiwan.

Mentre Mackinder aveva stabilito la dottrina secondo cui chi controlla il Heartland (cioè la Russia e l’Europa orientale) domina il mondo, Spykman formulò la tesi complementare, secondo cui la potenza che controlla il Rimland non solo impedisce che il Heartland diventi il centro del potere mondiale, ma conquista essa stessa il potere mondiale. Testualmente: “Who controls the Rimland rules Eurasia; who rules Eurasia controls the destinies of the world“.

Durante la guerra fredda, questa teoria ha ispirato la strategia del “contenimento” (containment) dell’Unione Sovietica. Gli USA hanno fatto di tutto per impedire che il Rimland eurasiatico cadesse sotto il controllo dell’URSS e della Cina, controllando l’Europa costiera per mezzo della NATO e le coste asiatiche per mezzo di altre alleanze militari.

Col crollo dell’URSS, il controllo statunitense del Rimland eurasiatico si è rafforzato. Tuttavia la catena non è affatto completa, perché vi sono alcuni segmenti del Rimland più difficili da controllare che non altri: sono i paesi che, in quanto renitenti al controllo statunitense, vengono denominati “paesi canaglia”, “Asse del Male” e così via. E la Repubblica Islamica dell’Iran è uno di questi. La Siria è un altro.

Secondo la prospettiva geopolitica eurasiatica, l’Iran è un segmento centrale di quella fascia islamica che si estende, in senso latitudinale, dal Maghreb arabo fino all’Indonesia. Il suo ruolo geopolitico, dunque, coincide in parte col ruolo di quella fascia islamica che, assieme all’Europa, alla Russia, alla Cina e all’India, costituisce uno dei grandi spazi in cui si articola l’Eurasia. Qualora fosse politicamente organizzata attraverso rapporti organici di federazioni e di alleanze, questa fascia islamica potrebbe costituire una barriera insormontabile nei confronti della penetrazione statunitense e rappresenterebbe il presidio meridionale dell’Eurasia.

La realtà attuale, invece, ci presenta un mondo islamico che, a parte le fisiologiche divisioni etniche, linguistiche e culturali, si trova frammentato in numerose entità statali e diviso tra diversi orientamenti politici e religiosi. A ciò si aggiunge il fatto che la storica ripartizione tra sunniti e sciiti viene oggi artificiosamente enfatizzata dagli strateghi del divide et impera, al punto che sono state create le condizioni per quella che oserei chiamare una guerra civile islamica.

Tra i vari orientamenti e modelli che l’odierno mondo islamico ci presenta, il più incompatibile con gl’interessi eurasiatici è evidentemente quello rappresentato dai regimi arabi storicamente alleati dell’Occidente atlantico (l’Arabia Saudita e Qatar in primis), nonché da quei movimenti e gruppi settari che godono del sostegno politico ed economico di tali regimi.

C’è poi un’altra variante, che è quella rappresentata dalla Turchia. La variante turca, che si è proposta come un modello per i paesi musulmani del Mediterraneo, è caratterizzata dal tentativo di conciliare l’Islam e la democrazia, la sciarìa e il capitalismo, il richiamo alla grandezza imperiale ottomana e l’appartenenza all’area occidentale, la solidarietà col popolo palestinese e il mantenimento delle relazioni con lo Stato ebraico.

Il cosiddetto “neoottomanesimo” di Ankara, che presume di poter recuperare all’influenza politica turca i territori storicamente appartenuti all’Impero ottomano, dal punto di vista eurasiatico potrebbe anche essere positivo, in quanto si prefigge l’obiettivo dell’integrazione dell’area islamica mediterranea. Ma il contributo dato dalla Turchia alla distruzione della Libia e al terrorismo settario in Siria dimostrano che il “neoottomanesimo” svolge un un ruolo subimperialista funzionale alla strategia degli Stati Uniti d’America e della loro propaggine sionista.

Per quanto riguarda la variante del cosiddetto “socialismo islamico” (variante molto impropriamente definita “laica”), essa è praticamente scomparsa dalla scena con la distruzione dell’Iraq baathista e della Giamahiria libica.

Il modello rappresentato dalla Repubblica Islamica dell’Iran può esercitare una sua legittima influenza soprattutto nel Vicino Oriente, dove paesi come l’Iraq, il Libano, la Siria e alcune zone della penisola arabica sono abitati da forti comunità sciite. In tal modo l’Iran dispone delle possibilità che gli consentono di svolgere una funzione di guida in certe zone del mondo arabo e di esercitare la propria influenza dal Golfo Persico fino al Mediterraneo.

Al di fuori del mondo arabo, l’Iran può realisticamente ambire ad avere un certo peso nel settore centroasiatico, specialmente nel Tagikistan, che è abitato da una popolazione persanofona (quella tagika); o in Azerbaigian, abitato da una popolazione in gran parte sciita che ha in Iran eminenti rappresentanti, a partire dalla stessa Guida della Rivoluzione, l’ayatollah Ali Khamenei, che è di etnia azera; o in Afghanistan, dove il secondo gruppo etnico dopo la maggioranza pashtun è quello tagiko e dove un quinto della popolazione è sciita.

(Un fatto importante è che la lingua ufficiale dell’Afghanistan non è solo il pashtu; accanto al pashtu è lingua ufficiale anche il cosiddetto “persiano dell’Afghanistan”, il dari, abbreviazione di darbārī, che significa “corte reale”: un riferimento allo stile classico persiano e al linguaggio di corte dei Sasanidi. D’altronde, prima che verso la metà del XVIII secolo nascesse l’entità politica chiamata – con nome d’origine persiana – Afghanistan, questo paese ebbe per secoli una storia comune con l’Iran. Le formazioni imperiali dell’Iran, dall’impero di Dario fino a quello sasanide e a quello safavide nella sua massima espansione, comprendevano anche i territori dell’odierno Afghanistan).

Quanto al Pakistan e all’India, non bisogna dimenticare che per sette secoli il subcontinente indiano conobbe un dominio culturale persiano. A partire dal XIII secolo, quando venne fondato il sultanato di Delhi, prese l’avvio una cultura di lingua persiana che giunse al culmine durante l’epoca dei Moghul (saliti al potere nel 1526), dai quali i colonizzatori britannici ereditarono l’uso del persiano come lingua ufficiale dell’amministrazione, usata fino al 1835, quando venne sostituita con l’inglese. Forte di questa comune esperienza culturale, l’Iran ha mantenuto buoni rapporti con l’India; in particolare, esso ha ravvivato le relazioni con la comunità dei Parsi, gli zoroastriani dell’India, che sono consapevoli e fieri della propria origine persiana.

Infine, in virtù di questa posizione geografica l’Iran può aiutare la Russia, potenza centrale dell’Eurasia, a risolvere certe difficoltà. Se l’Iran svolge la funzione di polo meridionale dell’Eurasia, la Russia ottiene quell’obiettivo strategico che essa ha perseguito per secoli: l’accesso ai mari caldi. L’Iran, che ha millecinquecento chilometri di litorale sull’Oceano Indiano, può rappresentare una soluzione per questo problema geopolitico fondamentale. Consentendo alla Russia l’accesso alle rive dell’Oceano Indiano, l’Iran spezza l’”anello dell’anaconda”, il progetto atlantista che si propone di soffocare il Continente.

Ma ci sono altri motivi che rendono vantaggiosa per il continente eurasiatico un’azione egemone dell’Iran nell’Asia centrale ex sovietica. In Asia centrale rivaleggiano tre diverse tendenze geopolitiche: il panturchismo facente capo ad Ankara (con tutte le contraddizioni che sappiamo), l'”Islam americano” (come l’Imam Khomeini definiva il settarismo di matrice wahhabita) e infine l’Islam ortodosso, rappresentato, nella sua variante sciita, dalla Repubblica Islamica dell’Iran.

Il progetto eurasiatico può contare solo sull’orientamento filoiraniano, l’unico in grado di sottrarre questa regione al controllo diretto o indiretto dell’Occidente, che vi si esercita sia attraverso la penetrazione economica saudita e catariota sia attraverso il terrorismo sostenuto da diverse centrali. L’asse Mosca-Teheran può risolvere tutte le contraddizioni esistenti tra la Russia e i musulmani dell’Asia centrale e caucasica, contraddizioni alimentate ed utilizzate dall’Occidente per destabilizzare l’area e penetrarvi.

La funzione geopolitica dell’Iran consiste dunque nel costruire tra l’Asia centrale e l’Oriente mediterraneo un blocco geopolitico in grado di respingere l’aggressione atlantica, riattualizzando nei limiti del possibile quell’idea di impero che più volte e in diverse forme, in un passato glorioso, ha fatto sì che i diversi popoli di quest’area potessero convivere entro i medesimi confini politici e sotto un’unica legge.

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INTERVISTA A NIKOLAJ BORDHUZA, SEGRETARIO GENERALE CSTO

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Venerdì 14 giugno 2013 il Segretario Generale dell’Organizzazione per il Trattato di Sicurezza Collettiva (CSTO) Nikolaj Bordhuza, in visita a Milano, ha incontrato alcuni redattori della rivista “Eurasia”.
 
Di seguito il video dell’intervista concessa dall’Ambasciatore Bordhuza in esclusiva al nostro redattore Stefano Vernole.
 
La redazione ringrazia il Prof. Igor Panarin per la collaborazione.

 

 

 
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Vedi anche: Il Cesem incontra l’Organizzazione per il Trattato di Sicurezza Collettiva (CSTO)

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