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IL VICOLO CIECO DI ERDOGAN

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Il pugno duro delle forze dell’ordine dietro direttiva del primo ministro Recep Tayyip Erdogan non si è rivelato sufficiente a sedare i disordini scoppiati inizialmente a Istanbul ed Ankara e poi diffusisi in diverse zone della Turchia. Nonostante l’intero comparto informativo di massa tenda insistentemente ad individuare la radice delle proteste nella sostituzione di un parco con un gigantesco centro commerciale, le ragioni che stanno alla base dei subbugli che hanno infiammato buona parte della Turchia sono molteplici e ben più profonde. Una volta divenuto ministro degli Esteri, il professor Ahmet Davutoglu ha avuto la possibilità di applicare la sua ambiziosissima dottrina della “profondità strategica” turca, orientata a consolidare l’influenza di Ankara in gran parte del pianeta, attraverso le leve etnica e confessionale. Tale progetto si sarebbe infatti dovuto dipanare attraverso le due direttrici “panturca” e “panislamica”, in modo da estendere l’area di influenza del Paese dal Marocco all’Indonesia. In un primo momento, la “profondità strategica” turca appariva fondata sulla necessità di avere “zero problemi coi vicini”, allo scopo di creare le condizione adatte ad assicurare l’intensificazione dei rapporti politici, economici e culturali della Turchia con tutte le nazioni limitrofe. La “profondità strategica” che Davutoglu conferisce al proprio Paese sarebbe tuttavia limitata di fatto dai vincoli di fedeltà all’Alleanza Atlantica che durante la Guerra Fredda hanno attribuito alla Turchia un ruolo determinate nel contenimento dell’espansione sovietica verso l’Europa e il Vicino Oriente. La caduta dell’Unione Sovietica ha disintegrato questa condizione fondamentale, permettendo alla Turchia di emergere come reale, autentico “attore geostrategico”. «La posizione geopolitica – afferma Davutoglu – non dovrebbe più servire solo a proteggere i confini nazionali ma a trasformare in globale l’influenza locale e ad accrescere gradualmente l’apertura internazionale. La condizione prioritaria per evolvere dalla mera protezione dei confini nazionali all’esercizio di un’influenza continentale e mondiale, consiste nell’investire la nostra collocazione geopolitica nella dinamica internazionale delle relazioni economiche, politiche e di sicurezza» (1).

I piani di Erdogan e Davutoglu sono però stati seriamente messi in discussione dall’esercito turco, storico garante dell’atlantismo fin dal 1952, anno dell’entrata del paese nella NATO. Nel 2003 il parlamento di Ankara, facendosi interprete della schiacciante volontà popolazione, negò l’usufrutto del territorio turco come base di dispiegamento per le sortite dell’aviazione statunitense verso l’Iraq, suscitando l’ira di Paul Wolfowitz che redarguì l’esercito turco per non aver effettuato un ennesimo colpo di Stato che rovesciasse tale decisione. L’episodio si inserisce in un elenco sterminato di golpe politici attuati dalle forze armate a danno delle istituzioni politiche di Ankara. Erdogan, conscio di tutto ciò, ha iniziato ad erodere lo strapotere dell’esercito indicendo, il 12 settembre 2010, un referendum che sancì una radicale modifica delle due più importanti istituzioni giudiziarie del Paese (anch’esse coinvolte in numerose operazioni eversive a danno delle istituzioni politiche) e il ridimensionamento drastico delle funzioni e dei poteri dell’esercito. Il 58% dei votanti concesse il proprio appoggio al governo di Ankara, che applicò immediatamente le riforme e dispose numerose epurazioni dei vertici dell’esercito (venne scoperto e vanificato anche un tentato colpo di Stato ai suoi danni).

L’Islam politico di cui personaggi istituzionali di grande rilievo come il Presidente della Repubblica Abdullah Gul sono esponenti si rifà alle teorie di Fethullah Gulen, che dall’enclave turca di Erzurum emigrò negli Stati Uniti in seguito al colpo di Stato dell’esercito del 1997. Dal suo autoesilio in Pennsylvania, Gulen si è comunque ritagliato un ruolo cruciale, che gli consente di esercitare una forte influenza sull’esecutivo di Ankara. Proprio negli Stati Uniti, Gulen ha fondato l’organizzazione Hizmet (“servizio”), che è riuscita ad inaugurare oltre 130 scuole private in 25 differenti Stati americani in seguito ad un accordo con le autorità locali, che si sono impegnate a contribuire al finanziamento degli istituti con denaro pubblico. Questa organizzazione, attiva anche in Germania e in un centinaio di altri Paesi, propugna una versione riveduta e corretta di Islam, volta a rendere tale religione compatibile con i principi liberali che dominano in Occidente. Fortemente sospettata di godere del supporto attivo di una parte consistente degli apparati di sicurezza e intelligence statunitensi, Hizmet è stata bandita da tutti i Paesi aderenti alla Comunità degli Stati Indipendenti nel 2006. Anche se Erdogan non può essere considerato un “seguace” di Gulen, l’influenza che Hizmet ha esercitato sul governo turco è palese, specialmente alla luce del processo di islamizzazione della società. La coloritura musulmana che il primo ministro ha impresso alle misure ordinarie (restrizioni sugli alcoolici, ad esempio) e alle decisioni internazionali è un dato di fatto che pochi oseranno mettere in discussione. Ankara mira in tutta evidenza a imporsi quale punto di riferimento della sterminata galassia sunnita, come dimostra la “appropriazione” della causa palestinese e il successivo strappo (apparente) con Israele, inaugurato in occasione del World Economic Forum di Davos del gennaio 2009 (quando Erdogan chiamò pubblicamente sul banco degli imputati niente meno che il Presidente israeliano Shimon Peres per rispondere pubblicamente dell’eccidio di Gaza avvenuto tra il dicembre 2008 e il gennaio 2009), allargatosi con l’oscura vicenda della Mavi Marmara (presa da’assalto dalle forze israeliane in acque internazionali mentre si accingeva a raggiungere i territori palestinesi per portare cibo, medicinali, materiali prefabbricati ecc.) e divenuto definitivo con l’espulsione dell’ambasciatore israeliano.

Come ritorsione, Israele riattivò i propri collegamenti con i terroristi del PKK, i quali sferrarono uno dei più sanguinosi attacchi nel corso della notte a cavallo tra il 18 e il 19 ottobre 2011, quando i suoi miliziani presero di mira un contingente turco schierato lungo la frontiera irachena, presso la regione di Hakkari, provocando la morte di oltre 25 soldati. Per inseguire e stanare gli aggressori in ritirata, Ankara inviò immediatamente un nucleo di truppe speciali, che penetrarono in territorio iracheno grazie alla copertura degli elicotteri da guerra, mentre l’aviazione martellava incessantemente le roccaforti del PKK dislocate alle pendici del monte Kandil, nella regione settentrionale del Kurdistan iracheno dominata dalla città di Kirkuk

In compenso, la rottura con Israele suscitò il plauso di gran parte delle popolazioni arabe e, più in generale, della maggior parte del mondo musulmano. La deriva islamica che potrebbe scaturire dalla strategia del governo di Ankara è probabilmente il più grande timore delle forze armate e della magistratura, che da decenni si ergono a garanti della laicità dello Stato. È probabile che la contrarietà alla linea politica seguita da Erdogan sia alla base del fallito colpo di Stato del febbraio 2010, che portò all’incarcerazione del capo di stato maggiore dell’esercito Ergin Saygun, del Capo di Stato Maggiore dell’aeronautica Ibrahim Firtina e del Capo di Stato Maggiore della marina Ozden Ornek. Tutti gli alti ufficiali in questioni erano connessi ad una potente ed oscura setta kemalista ed atlantista Ergenekon, il pensatoio in cui venivano escogitati i piani “Martello” e “Gabbia”. Dalle indagini condotte su questa organizzazione emersero prove schiaccianti in relazione al coinvolgimento di giornalisti, Generali in pensione, Ammiragli in servizio e ufficiali di vario grado intenti a pianificare attentati (a moschee e monumenti in tutta la Turchia) e persino l’abbattimento di aerei civili. E probabile che Ergenekon costituisca il fondamento della lunga catena di colpi di Stato che per decenni hanno indirizzato la politica turca. Per sradicare questa minaccia, Erdogan ha adottato una prassi estremamente autoritaria, che ha comportato un’ondata di arresti indiscriminati, effettuati molto spesso in assenza di prove tangibili o sulla base di semplici “sospetti”.

Ciononostante, la Turchia aveva cominciato ad intensificare notevolmente i rapporti con il vicinato. Da quando il partito AKP era salito al potere, il primo ministro Recep Tayyip Erdogan aveva intrapreso un processo distensivo nei riguardi della Siria che è andato ben oltre la semplice riappacificazione, da cui sono scaturiti succulenti accordi economici, l’abolizione delle imposte doganali e l’applicazione di incentivi sugli investimenti bilaterali. Nel corso degli ultimi anni le relazioni commerciali tra Turchia e Siria erano cresciute esponenzialmente, raggiungendo la considerevole cifra di 4 miliardi di dollari nel 2009, anno in cui era stata stabilita la libera circolazione di cittadini tra i due paesi.

Con l’avvento delle cosiddette “primavere arabe”, Erdogan ha ritenuto che dinnanzi a lui si presentasse un’occasione irripetibile. Dopo un periodo di moderazione e indecisione (mostrata in particolar modo in riferimento alla Libia), il primo ministro turco scelse di cavalcare la “tigre islamica”, non indugiando a gettare all’aria i notevoli risultati capitalizzati nel corso degli anni precedenti per fornire il proprio aperto sostegno ai “ribelli” siriani, alleandosi di fatto con il Qatar, l’Arabia Saudita e le altre monarchie del Golfo Persico.

Nell’estate del 2011 la Turchia ospitò la “Conferenza per la liberazione nazionale della Siria”, da cui nacque (sull’onda dell’esperienza libica) il Consiglio Nazionale di Transizione siriano. Da Istanbul (sede della Conferenza) il Presidente Abdullah Gul annunciò che «La Turchia non si fida più del regime del presidente siriano Bashar al-Assad, che prosegue nella sua sanguinosa repressione delle manifestazioni di protesta» (2), aggiungendo che la situazione in Siria «Ha ormai raggiunto un tale livello che tutto è infimo e troppo tardivo. Non abbiamo più fiducia» (3).

L’aggressività nei confronti del regime di Damasco è tuttavia dovuta anche al fatto che nel 2011 Siria, Iran e Iraq avevano sottoscritto un accordo finalizzato alla costruzione del cosiddetto “gasdotto islamico”, che entro il 2016, dovrebbe collegare il giacimento iraniano di South Pars al Mediterraneo, attraversando il territorio siriano. La Siria potrebbe quindi divenire un hub di corridoi energetici alternativo alla Turchia, le cui condutture sono controllate da compagnie statunitensi ed europee.

Contestualmente a tale inversione di rotta,  Erdogan cominciò ad inasprire il tono della retorica antisiriana e a trasformare il confine meridionale che separa la Turchia dalla Siria in un gigantesco campo di addestramento per una miriade di gruppi islamici provenienti da Afghanistan, Bosnia, Cecenia, Libia e altri Paesi. Nel gruppo di Abu Omar al-Chechen, gli ordini venivano impartiti in arabo, per poi essere tradotti in ceceno, tagico, turco, dialetto saudita, urdu, francese e altre lingue. Dotati di passaporti falsi, i combattenti sono affluiti nelle province turche di Adana e Hatai, confinante con la Siria, ove la CIA ha aperto centri di formazione militare. Gli armamenti e i finanziamenti vengono forniti soprattutto da Arabia Saudita e Qatar che, come in Libia, inviano anche forze speciali. Il comando delle operazioni è situato a bordo di navi NATO nel porto di Alessandretta, mentre sul monte Cassius (posto a ridosso della Siria) la NATO ha costruito una nuova base di spionaggio elettronico, che si aggiunge a quella radar di Kisecik e a quella aerea di Incirlik. A Istanbul è stato aperto un centro di propaganda attraverso il quale i “dissidenti” siriani diffondono le notizie e i video sulle reti satellitari.

La tensione tra Turchia e Siria ha poi raggiunto picchi particolarmente alti, specialmente in seguito alla oscura vicenda del caccia turco abbattuto dalla contraerea dopo aver violato lo spazio aereo siriano, per il quale Ankara ha evocato l’articolo 5 dello statuto della NATO, che impegna ad assistere con la forza armata il Paese membro attaccato. A quel punto, ben 129 deputati (un quarto) hanno espresso la propria contrarietà alla guerra, mentre migliaia di dimostranti sono scesi in piazza inneggiando allo slogan “No all’intervento imperialista in Siria”. Da allora i nodi sono cominciati a venire progressivamente al pettine; all’infiammarsi dell’irrisolta “questione curda”, al rancore sotterraneo maturato tra le forze armate e parte consistente della magistratura e ai malumori delle componenti più “laiche” e conservatrici della società (come i “Lupi Grigi”), le quali rifiutano – così come le forze armate e parte della magistratura – di accettare ogni sia pur cauto e moderato provvedimento di apparente islamizzazione, è andato a sommarsi il forte rallentamento dell’economia (con una crescita che è passata dal 9 al 2,2%), causato in buona parte dalla rottura delle relazioni con la Siria e dall’isolamento regionale imputabile alla politica aggressiva condotta da Erdogan. Tale crescita, per di più, è caratterizzata da poderose campagne di privatizzazione e da una febbre edilizia che ha coperto di cemento anche le aree boschive del Bosforo e delle regioni più interne. Seguendo il mito della globalizzazione, Erdogan ha fatto approvare una legge che elimina la protezione giuridica ai parchi nazionali turchi, in seguito alla quale ha progressivamente trasformato interi quartieri delle principali città costiere in giganteschi villaggi turistici nuovi di zecca, obbligando i vecchi residenti a trasferirsi verso le periferie. Interi rioni risalenti agli inizi del ’900 sono stati “ristrutturati” o demoliti per far posto a nuove strutture atte a “favorire il turismo”. Ordinando l’abbattimento di 600 alberi nell’ambito di un progetto volto a sostituire un parco con un enorme centro commerciale (sul quale aleggia un forte sospetto di tangenti, alla luce del fatto che il sindaco di Istanbul, esponente dell’AKP, è proprietario di una catena di negozi ed ha già ottenuto i diritti per installare in tale centro i propri punti vendita, senza contare che il genero di Erdogan si è aggiudicato il contratto per lo sviluppo immobiliare dell’intera area), ha manifestato con estrema chiarezza l’intenzione di trasformare una città millenaria come Istanbul in una delle tante megalopoli ultra-pacchiane stile Doha. Istanbul (come diverse altre città turche) è costellata di rovine greche, romane, bizantine, ottomane, ortodosse e islamiche che rischiano di essere sostituite da giganteschi centri commerciali ed edifici moderni commissionati alle più celebri stelle occidentali dell’architettura. Il che non può che suscitare un forte malcontento in seno alla popolazione turca, così come la politica imperialista – e non imperiale – impropriamente definita “neo-ottomana”. La “Sublime Porta” era riuscita a inglobare e far convivere decine di etnie e popoli diversi, mentre l’attuale Turchia, con la sua alleanza di fatto con Qatar e Arabia Saudita e il suo appoggio ai guerriglieri islamisti più feroci, sta facendo l’esatto contrario: sta promuovendo il settarismo e allargando la “fitna”, la faglia che divide le molteplici “placche” religiose di cui è formato l’Islam. E a favorire questo processo è il primo ministro di un Paese costituito a sua volta da una notevole gamma di etnie e religioni diverse (50% circa sunniti, 20% alawiti, 20% curdi – principalmente sunniti –, il 10% appartiene ad altre minoranze). Non è quindi un caso che, secondo i sondaggi, ben 70 turchi su 100 disapprovino la politica aggressiva di Erdogan nei confronti della Siria. Thierry Meyssan ritiene a questo proposito che Erdogan abbia adottato il programma della Fratellanza Musulmana, il movimento finanziato e sostenuto dal Qatar che dall’Egitto alla Siria alla Giordania propugna una visione di Islam compatibile con gli interessi strategici degli Stati Uniti e dei loro alleati. «Mostrando la sua vera natura – scrive Meyssan – (di Fratello Musulmano sotto vesti ottomane) il governo Erdogan s’è tagliato i ponti con la sua popolazione. Solo una parte minoritaria di sunniti può riconoscersi nel programma ipocrita e retrogrado dei Fratelli Musulmani» (4).

Per integrare completamente la Turchia nella strategia statunitense, vanno inoltre ricordati i memo, pubblicati nei primi mesi del 2012, attraverso cui i colossi di Wall Street JP Morgan Chase e Goldman Sachs consigliavano agli investitori di vendere azioni turche, a causa della perdita di valore della lira turca, del deficit commerciale e, più in generale, della imminente frenata dell’economia dovuta alle ripercussioni generate dalla recessione dell’Eurozona sulla bilancia dei pagamenti turca. Come osserva Aldo Braccio: «La Turchia è un obiettivo importante della speculazione finanziaria: una nazione in crescita, dotata di grande liquidità, che in passato (in particolare negli anni ’70 e ’80 del secolo scorso) ha dimostrato una spiccata propensione all’indebitamento nei confronti del Fondo Monetario Internazionale ma che ora sembra aver cambiato strada. Una nazione che – per la sua importante e delicata posizione geopolitica – va controllata e messa sotto tutela, “globalizzandola” e sradicandone le pretese di sovranità; la tutela di tipo politico – ben visibile nei casi delle emergenze libica e siriana, in cui la Turchia si è conformata ai dettami occidentali, a dispetto di un’opinione pubblica alquanto perplessa – va completata con la tutela di tipo economico/finanziario, e in questo senso gli appelli provenienti dal mondo della speculazione internazionale si moltiplicano» (5).

Il primo ministro Recep Tayyip Erdogan si trova quindi ad affrontare un’ondata di insoddisfazione e malcontento destinata molto probabilmente a travolgerlo, specialmente dopo l’ulteriore crescendo di violenza da parte delle forze dell’ordine, le quali, oltre a provocare la morte di diversi cittadini turchi, pare siano giunte a spruzzare sui manifestanti sostanze chimiche particolarmente pericolose. La deriva autoritaria, sommata ai fattori già indicati, ha accentuato lo scollamento tra la popolazione turca e il partito AKP – come sottolineato da Meyssan – e alimentato i malumori che serpeggiano in seno alle forze armate. Nonostante i toni pacati impiegati dalle diplomazie occidentali per commentare l’accaduto, è possibile che il primo ministro turco abbia perso buona parte degli appoggi internazionali che fino ad ora avevano mantenuto saldo il sui posto. La stessa Europa guarda con sempre maggior sospetto la Turchia, il cui ingresso nell’Unione Europea appare sempre più un miraggio (nonostante la stessa Turchia sia molto più “fredda” di qualche anno fa a questo riguardo) Erdogan si trova pertanto sull’orlo del baratro.

 

 

 

NOTE

1. Cit. in Aldo Braccio, Turchia, ponte d’Eurasia, Fuoco Edizioni, Roma 2010.

2. “ANSA”, 29 agosto 2011.

3. Ibidem.

4.  Thierry Meyssan, Soulèvement contre le Frère Erdogan, http://www.voltairenet.org/article178820.html.

5. Aldo Braccio, Anche la Turchia nel mirino delle banche d’affari, http://www.eurasia-rivista.org/anche-la-turchia-nel-mirino-delle-banche-daffari/14548/.

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ASIA CENTRALE: I NUOVI ATTORI

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Una delle principali critiche che possono essere mosse alla tentazione, peraltro diffusa, di comparare acriticamente la situazione geopolitica odierna dell’Asia Centrale con il Grande Gioco combattuto principalmente durante il XIX secolo, può essere rinvenuta negli attori che vi prendono parte. Sebbene infatti far riferimento allo scontro diplomatico e di intelligence che contrapponeva l’Impero Russo e l’Impero Britannico possa costituire un efficace espediente per evidenziare l’esistenza di alcune continuità – la rilevanza dei fattori geopolitici, delle risorse naturali, il diffuso utilizzo del soft power, nonché l’esistenza di società multietniche ancora soggette al rischio di destabilizzazione – sono molte le differenze che rendono il Nuovo Grande Gioco più complesso.

Se si esclude lo spostamento del Grande Gioco verso est, avvenuto nei primi anni del XX secolo, che ha visto la partecipazione diretta dell’Impero Cinese nel tentativo di assicurarsi il controllo delle regioni confinanti allo Xinjiang, i principali attori del Grande Gioco ottocentesco furono l’Impero Russo e l’Impero Britannico. A partire dagli anni Novanta del XX secolo, invece, gli interessi coinvolti si sono moltiplicati e nuovi attori interni ed esterni all’area intervengono oggi a determinare gli equilibri della regione.

La scomparsa dell’Unione Sovietica ha reso indipendenti le cinque Repubbliche centroasiatiche le quali hanno sin da subito adottato politiche finalizzate a garantirsi maggiore stabilità, prosperità e prestigio in ambito internazionale. Accanto a Kazakhistan, Uzbekistan, Turkmenistan, Kirghizistan e Tagikistan, ancora interessata alla regione, era ed è la Federazione Russa, la quale, sorella maggiore delle nuove Repubbliche, aveva perso il controllo diretto dell’area, mantenendo però ancora una forte influenza su di esse per merito dell’eredità istituzionale, economica e militare sovietica. In quegli anni il Regno Unito aveva ormai limitato il proprio coinvolgimento a livello globale, lasciando agli Stati Uniti, già da dopo la Prima Guerra Mondiale e l’indipendenza indiana, il compito di competere con Mosca per il controllo della regione.

Accanto quindi ai principali attori, Fed. Russa e Stati Uniti, furono altri Paesi a voler sfruttare le opportunità derivanti dal nuovo assetto politico dell’Asia Centrale e dal conseguente “vuoto” lasciato dalla scomparsa dell’Unione Sovietica. Turchia, Iran, Unione Europea e Cina hanno adottato nel corso dell’ultimo ventennio diverse strategie per influenzare l’area, allo scopo di assicurarsi nuovi fornitori di materie prime, di diffondere valori democratici o di favorire la stabilità delle nuove repubbliche confinanti. Nel corso di più di un ventennio la competizione in Asia Centrale ha visto questi attori assumere ruoli diversi, più o meno significativi, ma comunque rilevanti per comprendere quale sia il contesto attuale, nonché per poter formulare delle ipotesi sulla sua prossima evoluzione.

Negli anni ’90, dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica e la nascita di nuovi Stati turcofoni, si assistette ad una diffusione del Panturchismo, movimento tendente a promuovere l’unione culturale e politica fra tutti i popoli di lingua turca e fortemente legato all’ideologia turanica. Il Panturchismo trovava le sue radici alla fine del XIX secolo, quando era fortemente radicato tra le élite ottomane, soprattutto in chiave antizarista. Sopravvissuto alla dissoluzione dell’Impero Ottomano dopo la Prima Guerra Mondiale, durante tutta la Guerra Fredda il Panturchismo ricevette scarsa attenzione anche in quello che fu un tempo il centro ispiratore del movimento: la Turchia; ma quando nel 1991 venne eletto Primo Ministro Süleyman Gündoğdu Demirel, il movimento tornò ad avere importanza. Si diffuse, infatti, all’interno dei quadri dirigenti la percezione che la promozione del processo di avvicinamento del mondo turco costituisse un interesse vitale per Ankara.

Contemporaneamente in Asia Centrale furono numerose le iniziative panturche. Nell’aprile del 1991 si era tenuto a Kazan un congresso di popoli turcofoni con l’obiettivo di rinnovare l’ideologia turanica; venne inoltre creato un fondo turco con lo scopo di aiutare lo sviluppo dei Paesi sorti dal disgregamento dell’URSS. Nel 1992 il Partito democratico kazako organizzò ad Almaty un conferenza che si tradusse in un appello affinché si lavorasse alla costituzione di uno Stato turco che comprendesse i territori tra Kazan e Almaty e venne costituito un Consiglio di Coordinamento a tal fine.

Le cinque repubbliche centroasiatiche avevano ereditato dall’URSS vecchie élite comuniste, le quali erano alla ricerca di una nuova ideologia che potesse sostituire quella comunista ormai screditata. Sebbene ancora fortemente legati per necessità o convinzione a Mosca, i dirigenti centroasiatici avevano iniziato sin da subito a muovere i primi passi per ridurne l’influenza e la dipendenza. In questo senso la Turchia poteva costituire un modello per questi Paesi ed un ponte verso l’occidente. Ankara poteva farsi promotrice di una forma di governo democratica e dell’ideologia kemalista che, oltre al profilo laico, nazionalista e paternalista, era ormai orientata ad un percorso di maggiore liberalizzazione anche in ambito economico, tutti aspetti che le élite centroasiatiche consideravano fondamentali per il rilancio dei propri Paesi. Un intervento sempre maggiore della Turchia era inoltre supportato dagli Stati Uniti che temevano che il vuoto di potere derivato dalla caduta dell’Unione Sovietica venisse colmato in Asia Centrale e nel Caucaso dal fondamentalismo islamista.

Tra il 1992 e il 2000 furono cinque i vertici della turcofonia nei quali Ankara ebbe un ruolo importante. Il primo vertice si tenne ad Ankara nell’ottobre del 1992, a parteciparvi furono i capi di stato di Turchia, Kazakhstan, Uzbekistan, Turkmenistan, Kirghizistan, Azerbaigian; invitato inoltre al vertice era, data la presenza di una numerosa minoranza Uzbeka, il presidente del Tagikistan, il quale tuttavia non poté partecipare a causa del conflitto civile in atto quegli stessi anni. Nonostante il vertice si fosse aperto con i migliori auspici di tutti i sostenitori della causa panturca, la Dichiarazione di Ankara che ne seguì fu vaga. Essa si limitava a sottolineare la necessità di rafforzare i legami politici, economici e culturali tra i vari Paesi, ma non prevedeva un tracciato concreto per ottenere questo obiettivo, non vi furono riferimenti né alla costituzione di un mercato unico, né ad una banca turca, né all’istituzionalizzazione di una struttura sovranazionale che potesse coordinare i Paesi del mondo turco. Tuttavia venne stabilito che si sarebbero tenuti altri vertici e venne programmato che il prossimo si sarebbe tenuto a Baku nel gennaio 1994.

Asia-Centrale

Il vertice di Baku non si tenne mai, ulteriore prova di come gli interessi e gli obiettivi di ciascuna delle repubbliche centroasiatiche e caucasiche non seguissero la stessa direzione. Tanto più che la questione del Nagorno-Karabakh rischiava di generare imbarazzi tra i vari capi di stato, tant’é che si optò per uno slittamento del vertice a ottobre dello stesso anno e ad un cambiamento di sede: Istanbul[1]. Nonostante i capi delle repubbliche ex-sovietiche fossero consapevoli di non dover esasperare i malcontento di Mosca, sospettosa nei confronti dei vertici, il secondo incontro della turcofonia ottenne migliori risultati, stabilendo incontri regolari. Inoltre, in quello stesso mese si riunì un nuovo Congresso dei popoli turcofoni il quale, al termine dei lavori, produsse diverse relazioni in cui venivano presentate delle proposte concrete in ambito sociale, economico, culturale, scientifico e di rapporti internazionali.

I successivi vertici si tennero nell’agosto del 1995 a Bishkek, nell’ottobre 1996 a Tashkent e ad Astana nel giugno del 1998. Questi tre incontri dimostrarono quanto fosse fragile il progresso di integrazione e numerose furono le criticità. Nonostante vi fossero vaghi riferimenti alla lotta al terrorismo e al traffico di droga, due questioni sulle quali tutte le repubbliche erano sensibili, non venne mai trovato un accordo sulla gestione e coordinazione della rete di gasdotti che costituivano un fondamentale tassello della strategia politica ed economica di questi Paesi. E nonostante a Tashkent fosse stata istituita una Segreteria permanente con il compito di applicare le decisioni prese durante i vertici, essa non si presentò mai nemmeno come l’embrione di una futura comunità politica. A decretare il fallimento dei vertici della turcofonia furono le defezioni durante il vertice di Baku dell’aprile del 2000 del Presidente turkmeno e del collega uzbeko.

Se i vertici della turcofonia avevano palesato l’impossibilità di Ankara di imporsi subito come un nuovo centro di aggregazione che potesse sostituire Mosca come baricentro politico, economico e militare per i Paesi dell’Asia Centrale, d’altro canto ne aveva confermato il ruolo di attore attivo nella regione; sebbene infatti le iniziative politiche nell’area fossero state di scarso successo, lo stesso non si può dire di quelle culturali.

Gli strumenti con i quali la Turchia ha potuto penetrare nell’area sono stati molteplici. In primo luogo l’organizzazione Turksoi, istituita nel 1992 e composta dai Ministri della Cultura di Turchia, Azerbaigian, Kazakhstan, Uzbekistan, Turkmenistan e Kirghizistan. Essa ha il compito di rafforzare la cooperazione culturale e artistica tra i popoli turcofoni senza che vi siano ingerenze in ambito di politica interna ed estera.

In ambito linguistico uno dei principali obiettivi della politica turca in Asia Centrale è stato ottenere una maggiore omogeneizzazione delle diverse lingue turche e a tal fine furono mobilitati storici, letterati e linguisti. Di certo il maggior successo di queste politiche è stata la creazione di un alfabeto comune turco, la Turchia si è impegnata direttamente affinché l’uso di questo sistema, basato su 31 lettere latine, si diffondesse in tutta l’Asia Centrale, tanto da finanziare Paesi come il Turkmenistan e il Kirghizistan al fine di dotarli degli strumenti necessari alla transizione (manuali, macchine da scrivere, stampanti). Nonostante gli sforzi di Ankara tuttavia l’omogeneizzazione delle lingue turche, così come prevista dai linguisti turchi ideatori del nuovo alfabeto, è ancora lontana: molte sono ancora le discrepanze e Paesi come il Turkmenistan hanno sì adottato l’alfabeto latino, ma ignorato di fatto il modello suggerito dai linguisti turchi.

Un terzo ambito di azione della politica turca in Asia Centrale è stato il programma di formazione delle élite. Ankara ha aperto le proprie università agli studenti dell’Asia Centrale e promosso l’istituzione di centri di specializzazione che potessero colmare le lacune accademiche derivate dal periodo sovietico (materie economiche, inglese e turco). L’iniziativa ottenne da subito un largo successo e tra il 1996 e il 1997 ad iscriversi presso università turche furono circa 9500 studenti provenienti da tutta l’Asia Centrale[2].

Un quarto abito di azione è quello religioso. I dirigenti centroasiatici erano risoluti nel mantenere il principio di secolarizzazione dello stato, ereditato dall’epoca sovietica, e temendo il diffondersi del radicalismo, il modello di laicità proposto dalla repubblica turca costituiva chiaramente un valido punto di riferimento. Il principale strumento di espressione della politica estera turca in Asia Centrale in ambito religioso è la Direzione per gli Affari Religiosi, con i suoi auspici venne istituito il Consiglio Islamico d’Eurasia sotto suo diretto controllo amministrativo e finanziario. Un secondo strumento sono le grandi confraternite religiose di origine centroasiatica, le quali hanno sempre contato relazioni strette con le guide religiose turche. Nonostante questo tuttavia Ankara ha visto ultimamente frustrate le proprie ambizioni da iniziative di egemonia religiosa portate avanti dall’Azerbaigian in Caucaso e dall’Uzbekistan in Asia Centrale.

Un ultimo piano di azione della politica turca in Asia Centrale sono le telecomunicazione ed in particolare i media televisivi, si tratta di un ambito di azione che costituisce un supporto trasversale ad ogni altro fin qui esaminato. La Turchia, ancor prima della caduta dell’URSS, si era dimostrata interessata ad aumentare la propria presenza sui canali radiotelevisivi, tanto che negli anni novanta i canali satellitari turchi ottennero un audience di circa 57 milioni di spettatori[3] in Asia Centrale.

In definitiva, l’ambizioso tentativo turco di affermarsi e influenzare lo spazio turcofono ex-sovietico è fallito per una combinazione di fattori: la mancanza di mezzi economici e la concorrenza di stati finanziariamente più forti, la diffidenza delle repubbliche centroasiatiche, la debolezza delle infrastrutture di trasporto e la necessità di tener conto degli interessi di Mosca e Teheran.

Se per la Repubblica turca l’interesse verso l’Asia Centrale è soprattutto dovuto alla vicinanza linguistica e culturale con i popoli che la abitano, per l’Iran si tratta di motivi invece prettamente geografici, strategici, di sicurezza ed economico-commerciali. La principale preoccupazione di Teheran è il rischio di instabilità del vicino Afghanistan e di una possibile diffusione in tutta l’area. Negli anni Novanta al pari della Turchia, l’Iran si era proposto come modello politico di stato confessionale, tuttavia a Teheran fu chiara da subito la diffidenza nutrita dalle élite delle repubbliche ex-sovietiche ad un eventualità del genere, nonostante l’Iran avesse un certo appeal su talune realtà radicali.

Le iniziative iraniane si rivolsero quindi subito ad incrementare la cooperazione in ambito commerciale e di trasporto delle risorse energetiche. Considerando il fatto che nessuna delle repubbliche centroasiatiche possiede uno sbocco sul mare, l’Iran ha potuto giovarsi del vantaggio geopolitico di permettere ai Paesi produttori di gas e petrolio di raggiungere vie di esportazione marittime per le loro risorse. Degli importanti risultati sul piano politico ed economico vennero raggiunti prima con il Tagikistan e poi con Turkmenistan. Il primo, data la vicinanza culturale e linguistica, poteva essere maggiormente interessato all’ideologia rivoluzionaria; con il secondo la collaborazione fu più proficua basandosi principalmente su questioni energetiche, che portarono alla realizzazione del primo gasdotto che trasportava idrocarburi centroasiatici senza attraversare il territorio russo.

Il vero successo ottenuto da Teheran fu l’adesione di tutte e cinque le repubbliche centrasiatiche all’Organizzazione della Cooperazione Economica (OCE). L’OCE fu fondata nel 1985 da Iran, Pakistan e Turchia allo scopo di promuovere la cooperazione economica, tecnica e culturale tra i Paesi membri. Nel 1992 l’Organizzazione si allargò agli Stati dell’Asia Centrale e subì un importante processo di ristrutturazione affinché ne fossero rafforzati gli strumenti ed i poteri dato l’aumento dei partecipanti. Nel corso degli anni l’OCE si è fatta promotrice di numerose iniziative in ambito di sviluppo del commercio regionale, della cooperazione nel settore dell’energia, dei trasporti, dell’agricoltura e dell’industria. A determinare il peso specifico così rilevante di questa organizzazione è il fatto che essa sia la sola a riunire Stati tutti di confessione musulmana, ma non araba.

Di recente si sono registrate nuove mosse diplomatiche messi in atto da Teheran: in primo luogo l’Iran ha rilanciato la collaborazione ed il dialogo con il Turkmenistan, con il quale sono stati sottoscritti accordi per l’aumento delle esportazioni energetiche verso l’Iran e la costruzione di due linee ferroviarie che attraversino da Nord a Sud Kazakhstan, Uzbekistan, Turkmenistan e Iran, e una da Ovest a Est fino alla Cina lungo i territori di Afghanistan, Tagikistan e Kirghizistan. Altre consultazioni si sono soffermate sulla costruzione di nuovi gasdotti e oleodotti in Tagikistan.

Nonostante questi indubbi successi, l’Iran non è ancora uno degli attori determinanti della scacchiera centroasiatica, in parte perché non in grado di competere con le ingenti risorse finanziare e militari dei competitor “maggiori”: Russia, Stati Uniti e Cina; in parte perché Teheran stessa cova alcuni dubbi sull’opportunità di presentarsi forte del suo status di potenza regionale, dato che rischierebbe di precludersi il sostegno di Mosca e Pechino nel contesto del confronto diplomatico con Washington.

Nel 1991 l’Unione Europea si presentava come un attore marginale nella partita centroasiatica. L’Unione infatti non poteva vantare né legami culturali, né linguistici con le repubbliche ex-sovietiche, né vantaggi geopolitici. Questo, unito alla debolezza politica in confronto a Stati Uniti, Russia e Cina, nonché l’assenza di una strategia politica e dell’interesse degli stati membri di delineare una politica comune nei confronti dei Paesi dell’area, hanno limitato l’azione europea alle sole relazioni economico-commerciali. Le iniziative europee erano sostanzialmente incentrate a sfruttare la complementarietà dell’economie europee e delle repubbliche centroasiatiche; in particolare ad ottenere l’approvvigionamento di risorse energetiche di cui gli Stati della regione sono ricchi, promuovendo una collaborazione che permettesse un miglioramento delle condizioni di efficienza economica, tecnologia e infrastrutturale. Questo obiettivo di lungo periodo si combinava con la politica di promozione della democratizzazione e della tutela dei diritti umani nei Paesi della regione.

Negli anni ’90 i principali programmi di azione dell’Unione Europea erano il progetto TRACECA (Transport Corridor Europe Caucasus Asia) e il progetto INOGATE (Intestate Oil and Gas Transport to Europe). Inaugurato nel 1993 il TRACECA mira ad incrementare gli scambi tra Ovest ed Est (dal Mar Nero alla Cina) contribuendo ad un ammodernamento dei trasporti marittimi e terresti. Il progetto condizionava l’erogazione dei finanziamenti europei all’adeguamento dell’economie locali a quella di mercato. Il programma ottenne, nel 2001 una significativa accelerazione grazie alla sua istituzionalizzazione: venne creata la Commissione Intergovernativa con sede a Baku con il compito di ampliare e implementare il programma. INOGATE prese il via nel 1997, complementare al precedente, mirava a modernizzare il sistema di trasporto e commercializzazione di idrocarburi. Entrambi i progetti continuano ad occupare un ruolo di primo piano in Asia Centrale, così come dimostrato dalla conferenza regionale ministeriale per l’energia e il trasporto che si è tenuta a Baku nel 2004.

In Asia Centrale vi furono poi gli importanti interventi derivanti dall’istituzionalizzazione degli Accordi di Partenariato e Cooperazione con cui la Commissione Europea si proponeva di disciplinare i rapporti con i Paesi sorti dalla dissoluzione dell’URSS. Le materie interessate da questi accordi sono le più disparate e salvo quella militare e di sicurezza affrontano tutte le necessità delle repubbliche centroasiatiche. Nonostante questo per qualità e quantità gli Accordi di Partenariato e Cooperazione tradiscono ancora una volta l’incapacità europea di instaurare un solido dialogo politico, preferendone uno economico e commerciale. Kazakhstan e Kirghizistan furono le prime repubbliche a siglare un Accordo con Bruxelles: firmati nel 1995, furono ratificati dal Parlamento europeo nel 1996, per poi entrare in vigore nel 1999 con durata decennale. Nel 2003 si aprirono i negoziati con il Tagikistan, impediti prima dal conflitto civile, l’accordo che ne derivò è stato ratificato nel novembre 2008. Nel 1998 iniziarono le consultazioni per un accordo con il Turkmenistan, tuttavia i lavori vennero presto congelati a causa della politica autoritaria e repressiva del presidente Nyazov. Lo stesso trattamento si sarebbe potuto ipotizzare anche per l’Uzbekistan di Karimov, tuttavia interessi geostrategici spinsero le autorità europee a proseguire con la collaborazione: nel 1999 l’Uzbekistan decise di non rinnovare la propria adesione al Trattato di Tashkent (organizzazione nell’ambito della CSI) e di aderire alla GUAM organizzazione filoccidentale che riunisce Georgia, Ucraina, Armenia e Moldavia.

Un vero impulso non solo all’intensificazione dei legami con i Paesi dell’area, ma anche alla chiara intenzione di voler elaborare una strategia comune nei confronti dell’Asia Centrale, venne dalla nomina nel 2005 del Rappresentante Speciale per l’Unione Europea per l’Asia Centrale e all’elaborazione della Strategia Europea per la nuova partnership con l’Asia Centrale, che ha preso il via nel 2007.

Sul piano della sicurezza l’unica influenza proveniente dall’UE sulla regione deriva dall’OSCE, l’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa. L’ingresso delle ex-repubbliche sovietiche nell’OSCE seguì di poco l’indipendenza nazionale nel 1992, salvo il Turkestan le altre repubbliche accettarono di collaborare con l’organizzazione che intervenne direttamente a sostegno della delicata situazione tagica già nel 1994. Nel corso degli anni l’efficacia dell’OSCE in Asia Centrale ha presentato alcune criticità dovute principalmente alla cautela dei capi politici delle repubbliche ad abbandonare schemi di governo tendenzialmente autoritari, data la preoccupazione di una eventuale destabilizzazione; nonché alle difficoltà dei Paesi centroasiatici ad instaurare concreti processi di integrazione fra loro.

Se dal punto di vista politico e della sicurezza l’azione dell’Unione Europea è stata per certi versi poco efficace o incisiva, in ambito energetico essa si è fatta più assertiva e risoluta nel difendere i propri interessi in merito alla sicurezza energetica. La determinazione della strategia europea trova origine dalla crisi energetica del 2006 seguita allo scontro diplomatico tra Mosca e Kiev riguardo al prezzo del gas. Per garantire la sicurezza energetica ad un’Europa ormai allargata anche ai paesi dell’Est (2004), si progettò la realizzazione del’oleodotto Baku-Tiblisi-Ceyhan (BTC) e del gasdotto Baku-Tbilisi-Erzurum (BTE) che avrebbero fornito l’Europa del gas e del petrolio estratti nel Caucaso e in Asia Centrale; a questi dovrebbe aggiungersi il Gasdotto Nabucco, che dalla Turchia attraverserebbe i Balcani.

Nonostante questo la strategia europea risulta indebolita dallo scarso peso politico di cui gode Bruxelles e vessata dallo scontrarsi dei propri interessi con quelli di taluni degli stessi stati membri. Numerosi sono stati le partnership e i progetti sottoscritti e realizzati in parallelo a quelli previsti dalla strategia di sicurezza energetica europea. Nel 2003 infatti entrò in funzione il gasdotto Blue Stream, frutto del partenariato tra Eni e Gazprom, più di recente il progetto South Stream si è posto in aperta competizione con il gasdotto Nabucco, così come il progetto NordStream nel Baltico.

L’Impero Celeste, come abbiamo visto, partecipò attivamente all’ultima fase del Grande Gioco, tanto da giungere ad organizzare un intervento militare nella primavera del 1880 con l’obiettivo di riprendere Kuldja ai russi[4]. Tuttavia dal cristallizzarsi della situazione in Asia Centrale dopo la Guerra Civile russa, la Cina non intervenne mai direttamente nell’area fino alla dissoluzione del blocco sovietico. A partire dal 1991 i principali interessi di Pechino in Asia Centrale sono l’approvvigionamento energetico e la questione della sicurezza[5].

La politica estera cinese in Asia Centrate ha seguito due vettori paralleli, uno concentrato sul rafforzamento dell’integrazione a livello dell’intera regione, il secondo di ordine bilaterale. Sul piano bipolare l’attenzione si è concentrata sul garantirsi l’accesso alle vaste risorse di petrolio e gas presenti in Asia Centrale. Ad oggi la Cina viene rifornita del gas turkmeno e del petrolio kazako dal Central Asia Gas Pipeline e dal Atyrau-Alashankou oil pipeline. Sul piano bipolare la Repubblica Popolare Cinese può vantare la sua vasta disponibilità di liquidità che spesso costituisce un forte appeal sulle repubbliche centroasiatiche, costantemente alla ricerca di capitali stranieri che ne facilitino lo sviluppo.

Dal punto di vista multilaterale la Cina sta puntando molto su una cooperazione regionale che, libera della presenza Statunitense, possa costituire un utile foro di dialogo con i principali attori della regione ed in particolare con le repubbliche ex-sovietiche e la Federazione Russa. Già dal 1996 la Cina, il Kazakistan, il Kirghizistan, il Tagikistan e la Russia entrarono a far parte del Shanghai Five Forum, organismo che si prefiggeva il compito di definire e smilitarizzare i confini degli Stati membri. Lo Shanghai Five Forum ha costituito il primo nucleo del processo di cooperazione che ha portato, il 14 giugno del 2001, alla costituzione dell’Organizzazione di Shangai per la Cooperazione (SCO), la quale si era fissata obiettivi di più ampio respiro: la lotta al terrorismo, al fondamentalismo e al separatismo, nonché l’incentivazione alla cooperazione politica ed economica.

Nel corso degli ultimi anni l’Organizzazione di Shanghai si è rivelata un importante attore dell’area, di recente tuttavia Mosca e Pechino hanno dimostrato di possedere due visioni differenti riguardo all’evoluzione del processo di integrazione di Shanghai: da un lato la Russia privilegia la cooperazione in ambito militare e di difesa, dall’altro la Cina vorrebbe invece promuovere la collaborazione economica e commerciale. Altro punto focale della strategia cinese in Asia Centrale è appunto quello di assicurare alle proprie merci uno sbocco sul vasto mercato asiatico e numerose sono state le iniziative a tale scopo. Dal 2000 l’interscambio commerciale tra Cina e le repubbliche ex-sovietiche è aumentato significativamente, grazie anche all’adozione da parte di Pechino della Go Global Strategy, che ha fortemente incentivato gli investimenti all’estero e le opportunità di business per le aziende cinesi.

Con il progressivo abbandono della presenza statunitense in Asia Centrale la Repubblica Popolare Cinese, forte della disponibilità di capitali e del peso geopolitico, si sta delineando come il secondo attore dell’area dopo la Federazione Russa, ciò non toglie che accanto a questi attori di primo piano ve ne siano altri, Turchia, Iran, ed Unione Europea, che tutt’ora attuano più o meno efficacemente le proprie strategie per assicurare che i propri interessi in quest’area, così geopoliticamente importante, siano garantiti.

La partita del Nuovo Grande Gioco si combatte quindi su più scacchiere: risorse energetiche, scambi commerciali, terrorismo, sicurezza, stabilità sociale e politica, religione e cultura. Gli attori che vi prendono parte sono numerosi e diversificati, alcuni hanno le risorse per agire su tutte le scacchiere, la Federazione Russa, gli Stati Uniti e forse nel prossimo futuro la Cina; altri solo per intervenire solo in alcune di esse, Iran, Turchia e Unione Europea. L’Asia Centrale si rivela quindi essere un sistema complesso nel quale molte sono le forze in gioco e le loro interrelazioni, ma a determinare quale sarà l’evoluzione di questa competizione sarà in ultimo l’agire degli attori interni dell’area, le strategie messe in campo dalle cinque repubbliche centrasiatiche e la loro abilità a saper sfruttare, con politiche multivettoriali, le opportunità e le sfide offerte dagli attori esterni.



[1] Venne inoltre stabilito che finché non si fosse riusciti ad organizzare incontri regolari, i vertici della turcofonia si sarebbero tenuti in Turchia, confermando ancora l’interesse di Ankara nel tentare di rafforzare il proprio peso nel processo di integrazione.

[2] Bayram Balci et Bertrand Buchwalter, La Turquie en Asie centrale: la conversion au réalisme (1991-2000), Dossiers de l’Institut Français d’Études Anatoliennes, n°5, janvier 2001, p. 33.

[3] Haluk Sahin, e Asu Aksoy, Global media and cultural identity in Turkey, Journal of Communication, primavera 1993 N. 43, 2, ABI/INFORM Global, p. 38.

[4] In realtà non vi fu uno scontro armato, quando i russi seppero che Pechino stava radunando un esercito optarono per restituire la città ai cinesi. Hopkirk P., The Great Game. On Secret Service in High Asia, Kodansha International, 1992. p. 455.

[5] Pechino è fortemente preoccupata dalla decisione statunitense di ritirare le truppe in Afghanistan nel 2014, dato il rischio che il radicalismo possa infettare anche la provincia cinese dello Xinjang, abitata da popolazioni di origine uigura di fede musulmana ed etnicamente vicini alle popolazioni dell’Asia Centrale, e mai del tutto esente da moti separatisti.

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OCCUPY TAKSIM E SVOLTA OCCIDENTALE PER LA TURCHIA ?

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Ai confini della Siria, nell’Hatay, la situazione è tragica e incandescente, ma le cronache dei grandi mezzi d’informazione non hanno occhi che per i “ribelli”di piazza Taksim.

Una voce attenta (http://cameroonvoice.com/news/news.rcv?id=11311) testimonia di come – grazie alla sciagurata politica dell’esecutivo di Ankara – in territorio turco oggi siano concentrati “criminali venuti dal mondo intero, stupratori, tagliagole, piccoli malfattori, qualche rivoluzionario romantico, avventurieri richiamati dall’odore del sangue, talibani afghani, daghestani, yemeniti e bosniaci, giornalisti francesi, britannici e israeliani, fondazioni caritatevoli salafite, il senatore statunitense Mac Cain, agenti arabi della CIA e del Mossad, i deputati kuwaitiani Abdel halim Mourad e Adel al Mawada, il predicatore genocidario Adnan Arour in compagnia di altri predicatori, insomma tutti i componenti della crociata antisiriana”. 

Questa congerie riunitasi all’ombra dei missili Patriot è in primo luogo fonte di terrore e di prepotenze nei confronti dei residenti autoctoni – che coraggiosamente manifestano in difesa della propria terra – ma anche di preoccupazione e disagio per la generalità dell’opinione pubblica turca. Anche per la maggior parte dei dimostranti di piazza Taksim, presumibilmente, ma qui gli eventi stanno prendendo una piega ben diversa.

Le dimostrazioni, come è noto, hanno avuto origine nella contestazione degli ambientalisti rivolta contro il  progetto di riqualificazione del Gezi Park, l’area verde contigua a piazza Taksim. Contestazione fondata, a giudizio della magistratura (più esattamente il sesto Tribunale Amministrativo di Istanbul) che ha accolto il ricorso presentato e annullato il permesso di abbattimento degli alberi, con ciò determinando indirettamente anche il ritiro dal progetto di diverse imprese in esso coinvolte. Il governo ha subito dichiarato di adeguarsi alla pronuncia del tribunale, salva la possibilità di ricorrere in appello contro la sentenza.

L’istanza ambientalista si è allora rapidamente trasformata nel movimento “Occupy Taksim”, che ha  conquistato nel mondo le prime pagine di tutti i giornali e le notizie di apertura dei notiziari, presentandolo come simbolo di lotta all’autoritarismo e di difesa della “laicità” della Turchia.

Chi è sceso in piazza a Taksim (e in altre città in segno di solidarietà – segnatamente ad Ankara e a Izmir) ? Per quanto ci riguarda indubbiamente anche ambienti contrari alla svolta antisiriana e filoatlantica del governo Erdoğan, ma la maggioranza dei manifestanti non sembra caratterizzata dalla prevalenza di tale orientamento.

È significativo che la rivolta (i disordini) abbia preso piede soltanto in piazza Taksim, l’area cioè su cui gravitano i quartieri medioalti di Istanbul (Beyoğlu, Beşiktaş, Nişantaşı, Teşvikiye); vi partecipano certamente studenti universitari kemalisti, ambienti intellettuali legati alla borghesia radicale, di orientamento “laico” – nel concreto senso di relativista e islamofobo – e di formazione “occidentale” – contraddistinta da sudditanza psicologica verso il mondo nuovo della Globalizzazione. All’inizio, nelle cronache internazionali, venivano citati fra i protagonisti anche gli ultras calcistici e i sostenitori delle bevande alcoliche, poi messi da parte forse per non cadere nel ridicolo.

A ogni modo, “Occupy Taksim” svolge un compito ben preciso nella gestione dell’informazione: spostare l’attenzione dalla persistente strategia di aggressione contro un Paese sovrano – la Siria – in cui la Turchia è pesantemente coinvolta, per dirottarla sulla questione dei diritti civili e della consueta diatriba della difficile convivenza fra Islam e Democrazia – il primo vissuto come fastidioso retaggio di un passato in cui la religione pretendeva di avere un peso sulle questioni pubbliche e non solo private.

 

 

Un cambio di governo sponsorizzato dall’Occidente ?

Fin dall’inizio il governo Erdoğan/AKP è stato bersaglio di critiche esplicite di matrice occidentale e in particolare neocon, in linea con quello che nel 1990 Bernard Lewis presentava come il conflitto tra “la nostra eredità giudeo-cristiana e un vecchio nemico”, ossia l’Islam.

Ecco un breve repertorio:

  • Daniel Pipes nel 2004 sull’AKP: “Sono totalitari; il loro scopo è di allontanare i militari dal potere politico e di islamizzare la società”;
  • Richard Perle – principale fautore dell’alleanza storica fra Israele e la Turchia – nel 2007 invita i militari turchi a porre fine al pericoloso governo in carica;
  • Nello stesso anno il “Programma di ricerca sulla Turchia” del Washington Institute lancia l’allarme sul rafforzamento dell’AKP e sul riavvicinamento della Turchia “ai Paesi islamici”;
  • Sempre nel 2007 ancora Daniel Pipes: “La minaccia maggiore è l’islamismo legittimo”, ossia quello – come in Turchia – al potere con il suffragio elettorale;
  • Nel 2008 Michael Rubin (American Enterprise Institute): “Erdoğan è un protetto del Primo Ministro Putin, che ha allargato la frattura tra Islam e Occidente, incoraggiando le più virulente, antiamericane e antisemite teorie del complotto”;
  • Nel 2009 Daniel Pipes sancisce che (titolo su Liberal) “la Turchia non è più un alleato”, in forza del “profondo cambiamento di rotta del governo turco da quando l’AKP è al potere”;
  • Nel 2010 i dispacci Wikileaks pubblicano i rapporti riservati dell’ambasciata statunitense ad Ankara, secondo i quali Erdoğan “odia Israele”, “è nemico della modernità e dell’Occidente”, mentre il governo turco è “inaffidabile e pieno di islamismi”;
  • Nello stesso anno l’ARI  (organizzazione legata alle influenti organizzazioni sioniste statunitensi AIPAC e JINSA) inizia una forte campagna propagandistica per minimizzare la realtà e i danni derivati alla Turchia dall’operazione Ergenekon, mentre il Rapporto Stratfor – una delle principali società di analisi geopolitica, vicina ai servizi di intelligence statunitense – concernente “Islam, laicità e lo scontro per la Turchia dell’avvenire” avverte della grande preoccupazione in corso per l’egemonia dell’AKP sulla scena politica turca;
  • Dopo la tragedia della Mavi Marmara diversi interventi di questo tenore: “Se la Turchia resta così vicina all’Iran e così ostile a Israele, ne subirà le conseguenze” (Mike Pence, parlamentare repubblicano); “La Turchia non merita di essere membro della Comunità Europea finché si comporta in modo simile all’Iran” (Shelley Berkley, parlamentare democratica);
  • Sempre nel 2010 Fiamma Nirenstein su Il Giornale: “Israele è stata la vittima sacrificale (sic) della svolta turca”; ancora qualche mese fa la stessa precisava che – “nonostante la posizione assunta sulla Siria” – di Erdoğan non ci si può fidare.

 

Queste prese di posizioni rispecchiano certamente anche il disagio occidentale per talune prese di posizione in campo finanziario:

  • la forte riduzione dell’indebitamento pubblico della Turchia (dal 74 % del 2002 al 37 % del 2012);
  • il fallimento dei negoziati del 2009 fra governo turco e Fondo Monetario Internazionale, con il rifiuto da parte del primo di nuovi prestiti internazionali;
  • la volontà – espressa dal governo di Ankara – di potenziare il sistema bancario di impronta islamica, concedendo nuove licenze in questo senso e aprendo alla finanza islamica anche le banche a partecipazione statale; si tenga presente che a tutto il 2011 questi istituti conformi alla Shari’a davano lavoro a 13.857 persone;
  • l’entrata in vigore (a fine 2012) della legge contro la speculazione finanziaria, con pene fino a cinque anni di carcere (e pene pecuniarie) per che altera artificialmente l’andamento dei titoli di Borsa: i maggiori istituti finanziari internazionali presenti in Turchia hanno dopo di ciò sospeso o ridotto la loro produzione di note finanziarie.

 

L’opzione della ricerca di un cambio di governo – favorito dalla gestione di una potente campagna mediatica, utile a rafforzare nell’opinione pubblica europea il tradizionale senso di diffidenza nei confronti degli “islamici” – non sembra dunque peregrina. Certamente si può obiettare che, dopo le ultime gravi giravolte compiute dal governo Erdoğan (Siria in primo luogo, ma anche la sistemazione dei missili NATO a Malata) questo governo offre sufficienti credenziali per svolgere il suo ruolo di sentinella dell’Occidente. La situazione però è complessa, e la decisa candidatura dell’opposizione kemalista del CHP a ricoprire quel ruolo è presa in seria considerazione dagli ambienti atlantisti, che storicamente privilegiano in Turchia quell’alleato. Si veda al proposito la notizia della missione statunitense degli esponenti del CHP http://www.hurriyetdailynews.com/turkish-main-opposition-party-to-hold-talks-in-washington-in-july.aspx?pageID=238&nID=48933&NewsCatID=338.

Non è un caso che il capo del CHP, Kemal Kılıçdaroğlu, riferendosi ai disordini di piazza Taksim abbia paragonato nello stesso giudizio negativo Erdoğan e Bashar al-Assad …

Un articolo (http://aurorasito.wordpress.com/2013/06/13/eager-lion-operazione-di-esfiltrazione-dei-mercenari-islamici-in-siria/) di Valentin Vasilescu introduce elementi interessanti nel quadro che abbiamo cercato di delineare. Vasilescu in particolare sottolinea che “ Il 27 maggio 2013, il senatore repubblicano John McCain, accompagnato dal comandante dell’esercito ribelle, il generale Idris Salim, ha attraversato il confine tra Turchia e Siria per incontrare la brigata dei combattenti guidata da Mohammed Nur. Quel giorno McCain e Idris hanno incontrato, nella città turca di Gaziantep, i comandanti dei gruppi islamisti di al-Qusayr, Homs, Hama, Idlib, Aleppo, Daraa e provincia di Damasco. McCain ha avuto colloqui con funzionari di Ankara, ha visitato il contingente statunitense ufficialmente preposto ai sistemi missilistici Patriot nella base militare di Incirlik. Il viaggio del senatore statunitense è stato organizzato dalla SETF (Task force di emergenza siriana), una ONG statunitense che sostiene l’opposizione siriana. Uno dei più importanti risultati tratti da McCain, era che il primo ministro turco Erdogan ha iniziato lo smantellamento dei centri di raccolta dei mercenari e degli islamisti in Turchia, rifiutandosi di consentire il transito di armi e munizioni verso la Siria. Coincidenza o no, il 30 maggio 2013 nel centro di Istanbul è esplosa la protesta “spontanea” contro il primo ministro Erdogan, che si è amplificata secondo gli schemi dei movimenti della “primavera araba”.

La Siria, ancora. Chi semina vento raccoglie tempesta…

 

 

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همایش معرفی اندیشه های امام خمینی(ره) و رونمایی از کتاب «قوانین داخلی و سیاست های بین المللی ج.ا.ایران» در رم برگزار شد

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روز شنبه 25 خرداد همایش معرفی اندیشه های امام خمینی(ره) همراه با رونمایی از کتاب «قوانین داخلی و سیاست های بین المللی ج.ا.ایران» نوشته آقای «علی رضا جلالی» یکی از نویسندگان بومی مقیم ایتالیا در سالن کنفرانس «لَب کوم» در رم برگزار شد.
قربانعلی پورمرجان رایزن فرهنگی جمهوري اسلامي ايران در ایتالیا در این مراسم که با حضور کارشناس مطبوعاتی سفارت ج.ا.ایران، شخصیت های فرهنگی و دانشگاهی و برخی از ایرانیان مقیم و شیعیان بومی برگزار شد، با اشاره به ویژگی های امام خمینی(ره) به نقش ایشان در پیروزی انقلاب اسلامی اشاره کرد و گفت: انقلاب اسلامی ایران از آنجا که بر اساس افکار بلند و اندیشه متعالی حضرت امام(ره) تکوین یافته است همواره در عوامل پیدایش و طرح شعارهای محوری و تعیین اهداف و آرمان های بلند و راهکارهای وصول به آن با باورها و اعتقادات این شخصیت ملکوتی پیوندی ناگسستنی داشته است. با پیروزی انقلاب اسلامی و جایگزین ساختن جمهوری اسلامی به جای رژیم سلطنتی و استقرار نهادهای مردمی و مدنی در این نظام، مقوله مردمسالاری بار دیگر مورد توجه شدید قرار گرفت. امام خمینی(ره) از یک سو با تکیه بر فقه سنتی که میراث گرانبهای شیعه است و از سوی دیگر با الگوگیری از حاکمیت نبوی و علوی، تجربهای جدید فراروی جهانیان قرار دادند.
پورمرجان در بخشی دیگر از سخنان خود با اشاره به مطالعات ژئوپلیتیکی ایران اظهار داشت: «مطالعات ژئوپلیتیکی در ایران در سه موج و برهه شکل گرفت. موج نخست از پیروزی انقلاب اسلامی ایران تا فروپاشی شوروی، موج دوم از زمان فروپاشی شوروی و رونق مباحث ژئوپلیتیکی در ایران که مباحث ژئوپلیتیک شیعه، اقوام و مباحث هسته ای ایران شکل گرفت و در موج سوم، بیداری اسلامی و رشد مباحث ژئوپلیتیک در ایران و رونق مسائل مرتبط با بنیادگرایی سلفی، ژئوپلیتیک شیعه، اخوان المسلمین، ژئوپلیتیک حقوق بشر، ژئوپلیتیک رسانه، قدرت نرم به جای قدرت سخت و بالاخره آینه ژئوپلیتیک فرهنگی به عنوان گرایش هایجدید ژئوپلیتیک مطرح شد.

همه این مباحث نشانگر الزام تبدیل اهمیت ژئوپلیتیک به قدرت ژئوپلیتیک است و جمهوری اسلامی ایران به عنوان همسایه شوروی که متلاشی شد اگر چه به لحاظ فیزیکی تغییر نیافته ولی بیشترین تحولات محتوایی را داشته است که تأثیرگذاری خود را در منطقه و در سطح بین المللی کاملاً نشان داد و اینها در راستای تحول ماهیت قدرت از سخت به نرم و از نظامی به اقتصادی و بالاخره، فرهنگی بود و درکنار آن، ایدئولوژی اسلامی حاکم بر انقلاب اسلامی و تأثیرگذاری عقیدتی آن بر کشورهای مسلمان به عنوان عامل حرکت جنبش های اسلامی جایگاه ژئوپلیتیکی ایران را متحول ساخت.» 
رایزن فرهنگی ج.ا.ایران در ایتالیا در بخشی دیگر از سخنان خود به مردمسالاری دینی که مایه قوت و موجب عزت نظام ج.ا.ایران است اشاره کرد و گفت: «مردمسالاری دینی از قانون اساسی مترقی ج.ا.ایران برخاسته است و براساس آن دموکراسی رایج در دنیا با تعریف خاص دینی و الهام گرفته از موازین الهی در کشور حاکم می شود و نه تنها تفکیک قوا در کشور پیاده می شود که روابط حاکم بر قوای سه گانه و در جهت صیانت از حقوق و آزادی های مردمی که موافق با اصول و موازین شرعی هم باشد از طریق ولی فقیه کنترل می شود و این نوع از سیستم حکومتی که هم بتواند معیارهای دموکراسی رایج را حفظ نماید و هم شؤونات دینی را حاکم سازد جز در ج.ا.ایران نیست و همه این موارد در عنوان جمهوری اسلامی ایران نهفته است.» 
وی با اشاره به انتخابات 24 خرداد ریاست جمهوری گفت: «از مصادیق دموکراسی می توان به انتخابات متعدد نظیر انتخابات ریاست جمهوری، نمایندگان مجلس شورای اسلامی، اعضای شورای شهر و روستا و حتی انتخابات رهبری نظام ج.ا.ایران بر اساس اصل 107 قانون اساسی توسط مجتهدین منتخب مردم از استان های کشور اشاره کرد. تلفیق آیین های دموکراسی و روش های آن با موازین دینی و شرعی می تواند ضمن تکمیل نقایص احتمالی مانع سوء استفاده های متعدد در کشور شود و انگیزه های دینی را در کنار انگیزه های دنیوی در کشور و در سرنوشت سیاسی کشور حاکم سازد.» 
پورمرجان در پایان با اشاره به قانون اساسی مترقی ج.ا.ایران و ضمن قدردانی از سید علی جلالی به خاطر نگارش کتاب«قوانین داخلی و سیاست های بین المللی ج.ا.ایران» گفت: «مردمسالاری دینی، دستاوردهای زیادی را در عرصه سیاسی، اقتصادی و فرهنگی و حتی علمی موجب شده است و ایران را از یک کشور منفعل به یک کشور فعال در منطقه تبدیل کرده است و این موضوع در کتاب آقای جلالی نیز بیان شده است.»

«مهدی (جوزپه ) آیلّو» مسلمان شیعه ایتالیایی، فارغ التحصیل رشته فلسفه از دانشگاه شرق شناسی ناپل و مدیر مؤسسه انتشاراتی عرفان که به مدت 7 سال است کتاب هایی در خصوص معرفی اسلام شیعه در ایتالیا منتشر می کند و تاکنون چندین عنوان کتاب از زبان های فارسی، انگلیسی و عربی به زبان ایتالیایی در خصوص عرفان، فلسفه، جهان بینی شیعه و زندگینامه معصومین (ع) به چاپ رسانده است به اختصار به بیان تاریخ و موقعیت جغرافیایی ایران پرداخت و گفت: «انقلاب اسلامی ایران یکی از مهم ترین وقایع تاریخی ایران بشمار می رود و پیروزی انقلاب اسلامی، نقطه عطفی در تحولات تاریخی مهمی است که در دنیای معاصر رخ داده است.»
آیلّو همچنین افزود: «ایران به لحاظ جایگاه و موقعیت ژئوپلیتیکی و با داشتن فرهنگ غنی و مختص به خود با تکیه بر تاریخ و تمدن چندین هزار ساله، توانسته است جایگاه خاصی به اسلام در زمان معاصر بدهد. او با مقایسه فرهنگ ایران با تمدن و فرهنگ یونان و روم باستان، تأثیر گذاری این فرهنگ بر فرهنگ دیگر ملل دنیا را انکارناپذیر دانست.»
مدیر مؤسسه انتشاراتی عرفان، وقوع جنگ تحمیلی از سوی عراق به ایران را مسئله ای از پیش طراحی شده برای به چالش کشیدن انقلاب نوپای ایران دانست و گفت: «کشورهای غربی بر این باور بودند که با این جنگ تحمیل شده بتوانند سیر تکامل انقلاب را در ایران به تأخیر بیندازند و ایران را مجدداً تحت سیطره خود درآورند ولی باور نمی کردند که وجود جوانانی غیور و دلاور در این جنگ هرگز این فرصت را به آنان نمی دهد. 
او مصاحبه ای را که صدا و سیمای جمهوری اسلامی ایران در زمان جنگ تحمیلی با نوجوانی 14 ساله انجام داده بود را با زیر نویس ایتالیایی برای حضار پخش نمود که نه تنها حضار را تحت تأثیر قرار داد که تحسین آنان را هم در خصوص پاکی قلب و رشادت این جوان برانگیخت.» 
آیلّو در پایان اظهار داشت: انتخابات اخیر و حضور ایرانیان در پای صندوق های رأی که دیروز همگی ما شاهد آن بودیم، این را گواهی می دهد که ملت ایران کماکان علی رغم تمامی مشکلات، پشت رهبر خویش ایستاده است و تا آخرین قطره خون از منافع کشور خود دفاع می کند. 
آقای پروفسور «کلادیو موتی» مدیر مجله مطالعات ژئوپلیتیک ائورآسیا و استاد دانشگاه پادوا سخنان خود را با قرائت اصل اول قانون اساسی جمهوری اسلامی ایران و مقایسه جمهوری اسلامی با جمهوری های غربی آغاز نمود و این سئوال را مطرح کرد که آیا کلمه جمهوری برای کشوری که مشروعیت و مقبولیت خویش را از خداوند می گیرد می تواند مناسب باشد؟ چرا که معمولاً در سیستم جمهوری مشروعیت از مردم گرفته می شود. آن چه مشخص است مفهوم جمهوری در غرب با حکومت اسلامی نمی تواند تطبیق داشته باشد و آن چیزی است که نویسنده کتاب سعی داشته به آن بپردازد و بیان کند که حکومت اسلامی نه تنها تناقضی با جمهوری و دموکراسی ندارد که می تواند به عنوان الگویی برای دیگر کشورها نیز باشد. 
پروفسور موتی سپس افزود: «در خصوص جمهوری اسلامی با در نظر گرفتن این که قوانین جاری مشروعیت و مقبولیت خود را از قوانین الهی و شرعی اتخاذ می کنند حکومت ایران یک حکومت لائیک نیست به منزله آنچه که در غرب می باشد و قوانین الهی بر قوانین وضع شده از سوی بشریت اولویت دارند ولی یک حکومت صرفاً دینی هم نیست که در آن شهروندان هیچ گونه حقی در خصوص وضع قوانین خود ندارند همان گونه که در بعضی از کشورهای خاورمیانه شاهد هستیم. 
جا دارد اشاره شود که در زمان ما هستند کسانی که به لائیک بودن خود افتخار می کنند در حالی که لائیک بودن یعنی در جهالت به سر بردن و ندانستن مفاهیم عرفانی و الهی و افتخارکردن به لائیک بودن در بسیاری از موارد یعنی افتخار داشتن به جهالت خود.»
وی در ادامه به بحث جدایی دین از سیاست اشاره کرد و گفت: «جدایی دین از سیاست به هیچ وجه با فرهنگ اسلامی سنخیت ندارد چرا که قوانین جاری در کشور بایستی بر اساس قوانین اسلامی وضع شوند حتی در کشورهای اسلامی که حکومت های آنها خود را لائیک معرفی می کنند مشاهده می کنیم که بسیاری از قوانین جاری ریشه در اسلام دارند.»
مدیر مجله مطالعات ژئوپلیتیک ائورآسیا در پایان ضمن بررسی نقش جمهوری اسلامی ایران در ژئوپولیتیک بین المللی و تحلیل مفهوم ولایت فقیه اظهار داشت:«هنگامی که در کشورهای اسلامی وضع قوانین، مشروط به عدم تناقض با شریعت و اسلام است پس کسی بر وضع قوانین نظارت دارد که به قوانین اسلامی آگاهی کامل دارد و به همین دلیل است که کارشناسان و آگاهان قوانین اسلامی در کشورهایی با حکومت اسلامی، موضعی بالاتر از دولتمردان آن کشور دارند.
علیرضا جلالی نویسنده کتاب «قوانین داخلی و سیاست های بین المللی جمهوری اسلامی ایران» 
با اشاره به انتخابات ریاست جمهوری در ایران، حضور حماسی ایرانیان را در این دوره از انتخابات ستود و گفت: «ایرانیان همیشه در تمامی عرصه های سیاسی و اجتماعی کشورشان حضور داشتند از انقلاب اسلامی به رهبری امام خمینی (ره) گرفته تا جنگ تحمیلی و تا به امروز. باید دلیل شکست غرب در تمامی پروژه های ددمنشانه خود علیه ایران را حضور مردم در عرصه های مختلف دانست.» 
جلالی با اشاره به جنگ تحمیلی افزود: « وقتی جنگ تحمیلی آغاز شد ایرانیان اختلافات درونی خویش را کنار گذاشتند و بسیج شدند و حتی کسانی که در خارج از ایران زندگی می کردند هم به ایران برگشتند و به جبهه های جنگ رفتند و برای آزاد کردن کشورشان از چنگ دشمن جنگیدند و از جان خود مایه گذاشتند.»
وی با اشاره به حضور مردم در شرایط دشوار گفت: «انتخابات اخیر نمونه ای دیگر از حضور مردمی ایرانیان در صحنه است. علی رغم مشکلات حاصله از تحریم های وضع شده علیه ایران، تمامی مردم برای تعیین سرنوشت خود پای صندوق های رأی رفتند. نکته مهمی که غربی ها باید بدانند، این که ایران کشوری مستقل و متفاوت با دیگر کشورهای اسلامی در منطقه است. این کشور با سابقه تاریخی خود همیشه در سیاست های منطقه ای و بین المللی تأثیر گذار بوده و هست و این حقیقتی است انکار ناپذیر و تمامی تلاش های غرب برای نفی این حقیقت کاری بیهوده می باشد.
جلالی در پایان با اشاره به مشکلات سوریه گفت: «هدف غرب از ایجاد بحران در سوریه چیزی جز منزوی کردن و در نهایت شکست دادن ایران نیست. ایران هدف بعدی غربی ها پس از شکست است. آنها با قرار دادن روسیه در موقعیت انغعالی تلاش می کنند تا به هدف خود دست یابند غافل از این که ایرانیان هرگز اجازه نمی دهند وچنین چیزی را برنمی تابند.»

‪١٣:٥٠‬ – 1392/03/28 / شماره : ٥٩٩٦٠٢ / تعداد نمایش : ٢٠

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BAN KI-MOON IN VISITA A PECHINO

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Il Segretario Generale dell’Onu Ban Ki-moon si trova a Pechino per una visita di tre giorni.

Il 19 giugno ha incontrato il Presidente della Repubblica Popolare Cinese Xi Jinping, con il quale ha discusso in particolare del conflitto siriano e del programma nucleare nord-coreano; il Segretario Onu ha adottato una linea più dura rispetto alla questione siriana, mentre Cina e Russia hanno bloccato tre volte le risoluzioni contro il regime di Bashar al Assad. Parlando del ruolo cinese sulla tutela della pace regionale, Ban Ki-moon ha apprezzato altamente il ruolo costruttivo del governo e dei leader cinesi sull’attenuazione delle tensioni nella penisola coreana.

I due rappresentanti hanno sottolineato l’importanza di una maggiore cooperazione reciprocamente vantaggiosa e dell’abbandono, dunque, del gioco a somma zero come strategia di politica estera.

Xi Jinping ha asserito che il ruolo della Cina come membro permanente del Consiglio di Sicurezza Onu si traduce non solo in un maggior peso politico, ma soprattutto in una gravosa responsabilità.

Pechino garantisce il supporto alle Nazioni Unite nella promozione del Millennium Development Goals, gli otto obiettivi che tutti i Paesi membri Onu si sono impegnati a raggiungere entro l’anno 2015; la Dichiarazione del Millennio delle Nazioni Unite, firmata nel settembre del 2000, impegna gli stati a:

 

1. Sradicare la povertà estrema e la fame;

2. Rendere universale l’istruzione primaria;

3. Promuovere la parità dei sessi e l’autonomia delle donne;

4. Ridurre la mortalità infantile;

5. Migliorare la salute materna

6. Combattere l’HIV/AIDS, la malaria ed altre malattie;

7. Garantire la sostenibilità ambientale;

8. Sviluppare un partenariato mondiale per lo sviluppo.

 

Ban Ki-moon e Xi Jinping si sono focalizzati in particolar modo sulla promozione dello sviluppo sostenibile e sul mantenimento della pace e della sicurezza del sistema internazionale.

Il Segretario Onu auspica la realizzazione del “sogno cinese”, che potrebbe avere un impatto positivo sulle Nazioni Unite; apprezza il supporto e la partecipazione della Cina alle operazione di mantenimento della pace.

Il 19 giugno il Segretario Ban Ki-moon ha incontrato anche il Ministro degli Esteri cinese Wang Yi, il quale ha affermato che la Cina è da sempre un sostenitore fedele all’Onu, ed ha espresso la volontà di Pechino di partecipare in maniera più attiva di modo da salvaguardare la pace, la stabilità e lo sviluppo globali.

Oggi l’incontro con il primo ministro Li Keqiang, il quale ha aggiunto che lo sviluppo e lo sviluppo sostenibile sono strettamente collegati. In qualità di maggiore paese in via di sviluppo, la Cina mette sempre lo sviluppo in posizione prioritaria, e presta sempre più attenzione allo sviluppo sostenibile.

È previsto il colloquio con altri importanti responsabili di politica estera secondo quanto annunciato dal portavoce Martin Nesirky.

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ДУГИН В КИШИНЁВЕ, ИЛИ РЕАБИЛИТАЦИЯ ТРАДИЦИОНАЛИСТСКОГО ДИСКУРСА

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17 июня 2013 г. в Кишинёве произошло событие исключительного масштаба для академической и общественной жизни нашей страны. Известный русский мыслитель, философ, социолог и геополитик Александр Дугин был специальным гостем Народного Университета. Те, кто прочёл хоть некоторые работы этого учёного международного уровня, легко поймут, что пребывание Дугина в Кишинёве обладает особой значимостью. А тот, кто имеет хотя бы общее представление о культурной географии, к которой принадлежит Александр Дугин, об объёме его трудов, переведённых на десятки языков, о множестве его публичных лекций по всему миру, проводимых на разных языках, об интеллектуальном престиже этой гигантской личности, наверняка поймёт особый смысл данного события.

Прибытие Дугина в Кишинёв с частным визитом по приглашению скромной академической инициативы, коей стал Народный Университет, который мне удалось поставить на ноги совсем недавно, является и свидетельством международного признания наших усилий, направленных на возвращение в публичную сферу христианских, традиционных и консервативных ценностей. В настоящее время, когда в Молдове доминируют две устаревшие парадигмы, коммунистическая и либеральная, а публичные дебаты сводятся к восхвалению достоинств Евросоюза, находящегося в процессе ускоренного духовоного, институционного и экономического разложения, и, с другой стороны, к культивированию ностальгии по усопшему СССР, те, кто понимает, что оба проекта мертвы в одинаковой мере, могут быть сочтены по пальцам. Правда, свидетельство о смерти СССР было оформлено еще два десятилетия назад, а ЕС пока находится в его ожидании. Но, рассматривая их в более широкой исторической перспективе, обе версии прометеевского человека, экономического детерминизма, возвышенных в ранг религии идеологий, в одинаковой мере приговорены к исчезновению. Между советским прошлым и европейским будущим, те, кто обладают глубоко духовным мировоззрением и призванием вникать в смысл истории, выбирают другой путь. Это – путь возврата к Традиции, к нашим христианским корням, к духовному объяснению этих отклонений, толкающих нас в плоскости, разрушительные для наших обществ. Коммунистический эксперимент потерпел крах раньше, чем либеральный. Среди основных причин этого провала – использование террора, идеологического прессинга и материальных ограничений. Симметричный и комплементарный по отношению к коммунизму проект, либерализм, действует более тонко, устраняя всякие ограничения, соблазняя сладкой отравой потребительства и сакрализацей денег.

Во времена, когда в нашем обществе почти все ещё оставались заложниками коммунистической иллюзии, я был среди тех, кто энергично оспаривал её. И тогда, и сегодня на меня смотрели как на эксцентрика, как на человека, потерявшего чувство реальности и даже инстинкт самосохранения, коль скоро я решился идти против общего течения и даже против режима. Что же побудило меня стать на этот путь, открыто воспротивиться режиму и доминирующей идеологии? Это было шокирующее открытие, что живу в несправедливом мире, который я отверг напрочь, без оговорок, и не имея гарантий, что в конечном итоге удастся одолеть казавшуюся всесильной власть. Однажды открывши правду, я почувствовал острую необходимость стать отрицателем. Слово «НЕТ» стало ключевым термином, которым мы руководствовались. Мы решили, что так более продолжаться не может, что натерпелись сполна. В те времена для нас единственной альтернативой была западная модель. Безусловно, в той мере, в которой мы понимали, что такое либеральная демократия, правовое государство, рыночная экономика, частная собственность и права человека. Наши публичные собрания проходили под знаком западной модели, принятый путь был безальтернативным, примерами для подражания были США и ЕС. Процесс национального возрождения основывался естественным образом на достижении права разговаривать на нашем языке и на возврате латинского алфавита. Но, в силу наших предубеждений, унаследованных от коммунистического атеизма, культура заняло место культа. И, хотя параллельно происходило наше духовное возрождение, мы учились произносить молитвы, носить иконы на наших митингах и поднимать храмы, должно было пройти еще двадцать лет для того, чтобы понять, что мы, устремившись из одной антихристианской реальности, попали в другую, ещё более враждебную Богу.

Итак, от советской версии, выдавшей нам “one way ticket” (билет в одно направление) в коммунизм на пути последовательного исторического становления, мы оказались в западной версии дороги с односторонним движением, – в либеральном глобализме. Красная химера рассеялась, но была незамедлительно заменена многоцветным миражом «общества спектакля». Мы бежали как от чумы от системы, которая угнетала нас путем насилия, а оказались в приёмной другой системы, порабощающей нас посредством соблазнов и очаровывания материальным изобилием. Сегодня наше общество еще остаётся под властью либерального мышления, пользующегося массивной поддержкой Запада. Псевдоэлиты, которые тесно заполнили государственные, политические, экономические и медийные верхи, пребывают в счастливой ипостаси бессознательных имитаторов нового течения мысли, ставшего догмой в публичном дискурсе. Старая советская номенклатура была заменена другой, ещё более деградированной. Той самой, которая сегодня вещает нам о Евросоюзе как о новом «земном Рае», который якобы ожидает нас с распростёртыми объятиями. Нам твердят о глобальном мире, в котором, якобы, осуществиться наша историческая судьба. Глубинные аспекты духовного, философского, геополитического и этносоциологического характера ускользают от довольно поверхностных интеллектуальных упражнений дежурных выступающих, застрявших в зоне психологического комфорта, столь приятного для когорты попугаев без малейшей проницательности из ряда местных VIP. В атмосфере всеобщей экзальтации в верхах общества по поводу нашей скорой и неминуемой европейской интеграции, и тотальной безнадёжности абсолютного большинства простых людей из-за лишений, несправедливости и коррупции, академический и публицистический консервативный дискурс может показаться сущим сумасшествием.

Но именно это я с настойчивостью продвигаю на курсах Народного Университета. Я пытаюсь помочь моим молодым слушателям понять, что именно с нами происходит и почему, открыть им новый горизонт мышления, основанный на трудах самых значимых румынских, русских и западных мыслителей. Преодоление интеллектуальной инерции, штампов, поверхностных интерпретаций действительности, выход из паутины массовой культуры и обыденного мышления, умственный и интеллектуальный рост являются целью моего курса «ВИДЕНИЕ». А когда мне удаётся достичь эффекта «а-ха», как говорится в искусстве общения, когда я вижу, что молодёжь улавливает с удивительной скоростью и глубиной довольно сложные темы, моей радости нет предела. Среди множества авторов, на которых я ссылаюсь на моих занятиях, есть и русский мыслитель Александр Дугин. Я не думал, что мне представится возможность познакомится с ним лично, подружиться и встретить его в качестве дорогого гостя именно в Народном Университете. Для пробуждения его интереса и интеллектуального любопытства оказалось достаточным того, что в его руки попала моя книга «Молдова – часть, которая стала целым», включающая подборку статей. Открыв для себя человека со схожими интересами, он без промедления принял моё приглашение. Удовлетворение, охватившее меня при открытии трудов Дугина, а затем и установление личного контакта с ним, могу сравнить лишь с радостью от прикосновения с работами другого крупнейшего социолога и геополитика, румынского профессора Илие Бэдеску, с которым я также имел честь познакомится. Я напомню, что именно Бэдеску написал предисловие к знаменитой работе Дугина, опубликованной несколько лет назад в Бухаресте, «Основы геополитики», единственной книги данного автора, вышедшей в свет на румынском языке.

Роман Рэиляну, координатор по развитию евразийских гуманитарных технологий, который сопровождал Александра Дугина в Кишинёве, считает, что социо-гуманитарные исследования профессора Дугина представляют собой мировоззренческое переосмысление действительности, которое преодолевает навязанные привычные клише и общепринятые штампы. Это философия, исходящая из приоритета ценности традиционного общества, предполагающая социальное строительство в каждом конкретном культурном и языковом контексте без отрыва от духовных корней. Жизнь и судьба народов – это органический процесс, не терпящий искусственного вмешательства. Молдавский традиционализм может отличаться от консерватизма русских или румын. Вместе с тем, для каждого из этих обществ духовное развитие всегда будет являться главным жизненным приоритетом, отсутствие которого не смогут компенсировать никакие экономические блага. Истинное евразийство – это принципиально новое осознание мира, чуждое слепому следованию за материалистическими идеологиями прошлого. В Молдове оно может стать ядром консолидации столь разрозненного сегодня общества. Внутренние острые противоречия и споры останутся лишь отголоском безвозвратно ушедшей короткой эпохи либерализма. Я согласился с моим московским другом и соплеменником.

Мы находимся в конце исторического цикла. А История, пока на то будет воля Божья, не предопределена. Творец одарил нас разумом, свободой, волей, проницательностью и ответственностью. И также как завершился словно кошмар «триумфальный марш Советской Власти», придёт конец и «триумфальному маршу либерального глобализма». Конечно, если только мы не останемся фаталистами, безразличными и пассивными. Возможностей для проявления тех, кто думает, страдает и посвящает себя фундаментальным ценностям, предостаточно. А под небом Родины «словно епитрахиль», как сказал бы поэт Раду Джир, достаточно места для всего нашего православного народа, вне зависимости от этнического происхождения или языка, на котором разговаривает тот или иной из нас. Мы не являемся обществом неудачников, у нас есть сердце и разум, у нас есть желание воплотить нашу судьбу. Мы ощущаем наше призвание с особой остротой именно сейчас. Кризисные времена отшлифовывают нашу чувствительность, катализируя нашу энергию.

Мы условились с профессором Александром Дугиным, что я переведу на румынский его книгу «Четвертая политическая теория», изданную уже на многих языках, и напишу предисловие к ней. А затем, надеюсь, последует и другая его работа, дополняющая первую, «Теория многополярного мира». Читатели из Республики Молдова, как румыноязычные, так и русскоязычные, должны быть ознакомлены с ними. Впрочем, как и читатели из Румынии. Таким образом, 17 июня было положено начало академическому сотрудничеству между Народным Университетом и профессором Дугиным.

В этот день у нас было четыре публичных выступления. Это – встреча с молодёжью, в которой участвовали мои воспитанники из организации «Новое Поколение» и слушатели Народного Университета, дискуссия в здании моего университета с участием известных представителей академической среды, священнослужителей, политологов, журналистов и региональных лидеров, а также две телепередачи на «Журнал ТВ» и «Публика ТВ». Прямая трансляция нашей встречи порталом www.privesc.eu в 17.00, которая продолжалась более двух часов, набрала рекордное число просмотров, более 150 000. Выражаю всем участникам этих встреч, а также коллегам из прессы, искреннюю благодарность за их интерес и открытость. Я счастлив, что радость от этих встреч была обоюдной. Профессор Дугин и публика получили особое наслаждение. Его появление в публичном пространстве нашей страны подняло дебаты на высочайший интеллектуальный уровень. Правда, некоторые дежурные комментаторы не упустили возможности уколоть моего гостя. Причины этих уколов лежат на поверхности. Само соотношение с Дугиным, даже критическое, как-то выводит их на первый план. В то же время, правда состоит и в другом. Инерция мышления и идеологические шоры, заменяющие интеллектуальную состоятельность, не позволяют им превзойти собственные предрассудки. Топтание в тусклой, фрагментарной и узкой системе координат, исходящих из модных догм доминирующего дискурса либерализма, проявилось, на сей раз, в явном контрасте с академической широтой личности мирового значения. Тот, кто предпримет минимальное усилие, открыв Wikipedia и прочитав список его монографий и учебников, которые преподаются в десятках учебных заведениях мира, сможет сформировать себе ясное представление о значимости этого крупнейшего мыслителя. Когда профессор оперирует такими именами, как Рене Генон, Юлиус Евола, Мирча Элиаде, Мартин Хайдеггер, Жак Еллул, Жан Бодрияр, Жильбер Дюран, Алэн де Бенуа или Клаудио Мутти, реплицировать ему с перспективы исторических фрустраций, либо некоторых наивностей геополитического характера или с позиции стипендиатов определённых западных вузов, финансирующих «деформаторов» общественного мнения, выглядит одновременно и дисквалифицирующе, и смешно. Столь же смешной и контрпродуктивной является и антироссийская истерия, вытекающая из нашей этноцентристской одержимости и из реальных трагедий прошлого, которые подталкивают стольких наивных людей продолжать культивировать «образ врага» в лице России и, симметрично, образ «внешнего друга» в лице ЕС и США. Все эти подходы, вытекающие из прошлого, надёжно закрепили шоры лжепатриотам и нескончаемой веренице прозападников. Известно, что когда все думают одинаково, в действительности, никто не думает. А оперировать устаревшими категориями ХIX и XX веков и воевать сегодня с исчезнувшими царской и советской империей, значит оставаться пленником окончательно просроченного видения.

Те, кто застрял во вчерашнем концептуальном болоте, возможно, смогли бы понять чуть больше о новых реалиях, если бы задались вопросом, почему, например, Франция, Германия или Италия имеют отличные политические и экономические отношения с Россией. Продолжать довольствоваться незавидной ролью санитарного кордона, установленного американцами в зоне Восточной и Центральной Европы, которая включает в себя и некоторые новые независимые государства бывшего СССР, по меньшей мере, наивно, но и опасно для наших национальных интересов. А не видеть в лице европейской бюрократии и в лице американских групп финансового, политического, медийного и военного влияния реальную опасность десуверанизации страны, экономической, культурной и информационной колонизации, означает не понимать почему мы становимся всё беднее, несмотря на «историю успеха», выдуманную европейскими комиссарами для пользования местных дураков. И не осознавать истинных причин «массового кочевничества», которое превращает нашу страну в общество на грани исчезновения, означает смириться с ролью бессознательной жертвы, добровольно шагающей в бездну нового коминтернизма. Сколькие из тех, кто топчутся в публичном пространстве и пустословят каждый вечер с экранов телевизоров, слышали о том, что былого капитализма более не существует, что он стал спекулятивным, что виртуальные деньги преобладают над производством, что свободный обмен выгоден лишь крупным транснациональным компаниям? И что социального государства на Западе больше не существует, что профсоюзы теряют своё значение в развитых странах, что капитал переродился в наднациональный и кочевнический, что не международные организации, а транснациональные корпорации правят миром, что в Европе и Америке то, что представляло собой средний класс разлагается с небывалой скоростью, что фантастическая концентрация капитала превращает богатых в ещё более богатых, а бедных в ещё более бедных. Сколькие из политических игроков и комментаторов (о политических мыслителях и речи быть не может в наших краях!) осознают, что тем, что они творят и декларируют, они превращаются, по сути, в «слепых пилотов», как сказал бы Элиаде? Совсем немногие. И если незнание простительно рядовому человеку, оно становится опасным, когда пронизывает саму суть псевдоэлиты, оторванной от собственного народа, от его традиции, религии и нужд. Великий румынский социолог Димитрие Густи называл этот разрыв между массами и административными верхами «конфликтом между государством и нацией».

Разве не очевидно, что наша страна, как, впрочем, и все страны нашего региона и большинство стран мира, подвергается массированному процессу десуверанизации и подчинения стратегическим интересам политического, экономического и культурного толка центрами влияния из США? Именно сети, базирующиеся в США, стремятся создать однополярный мир под их контролем, а кто игнорирует эту истину – либо слепец, либо их наймит. Давайте проведём небольшое сравнение. Подобно тому, как большевики, архитекторы СССР, разрушили и поработили сначала русский народ, а затем – другие народы, оказавшиеся под доминированием антинационального и репрессивного режима, контролируемого кликой догматических авантюристов, сегодня олигархические группы, поработив американский народ, принялись подчинять своим интересам другие страны и народы мира. Для коммунизма военные методы были привычными орудиями порабощения, а сегодня, чаще всего – невоенные. Вместо штыков и танков, используемых большевицким режимом, пущены в ход инструменты ростовщического капитализма, пропаганды и впрягания коррумпированных элит стран-мишеней в телегу нового империализма. Конечно, когда возникает необходимость, и военная сила применяется колонизаторами в полной мере. Между советским и американским империализмом различия незначительны. Они относятся лишь к типу риторики и методов. Однако, цель та же – подчинение мира под предлогом мессианской универсальной идеологии. А большевицкий принцип «Кто не с нами, тот против нас!» (Вот пример конвертирования Слова Божьего дьявольским интересам слуг тьмы!) перешел почти естественным и незаметным образом из коммунистического арсенала в глобалистский. С этой точки зрения, советский коммунизм и американский глобализм являются братьями-близнецами. Речь идёт о тоталитарных идеологиях, стремящихся покорить мир, с использованием парарелигиозных политических теорий.

Советский коммунизм уже умер. Американский глобализм – ещё нет. Мы боролись против первого. Сегодня настало время устоять перед вторым. Как и тогда в качестве мишени выбраны наша вера, культура, традиция, семья и наше будущее, но в особенности наш шанс осмыслить глубину человеческого бытия и его ответственности перед Богом. А Александр Дугин и другие светлые умы являются нашими союзниками духа, веры и действия. Тем, кто ещё сомневается, что дела обстоят именно так, и что реалии в Америке и в Европе совсем другие, чем показывают нам, а сравнение, которое я провожу между советским коммунизмом и западным потребительством нисколько не преувеличены, думаю, было бы полезным почитать ряд релевантных в этом смысле авторов. Русские Иван Ильин, Александр Солженицын и Александр Дугин, американцы Пол Готтфрид, Дэвид К. Кортен и Виллиям Грейдер и южнокореец Ха Жун Чанг могли бы помочь наведению порядка в умах многих из нас.

Всякий схематический подход и чёрно-белое видение противопоказаны проведению глубокого анализа. С этой точки зрения, нахождение Дугина в Кишинёве можно рассматривать и как сеанс коллективной психотерапии, способный помочь нам одолеть старые фрустрации, румынофобию и русофобию. Его любовь к румынской культуре, глубокое знание румынской философии, Мирчи Элиаде, Нае Ионеску, Лучиана Блага и многих других являются в этом смысле показательными. С другой стороны, тот, кто, вместо того, чтобы дорожить традицией и истинной культурой, аплодирует, заодно с извращенцами из внешних групп влияния, однополым бракам, гомосексуализму, гей-парадам и ритуальным выходкам «Пусси Райот» в Храме «Христа Спасителя» из Москвы, является либералом. А отвергающий всё это – человек нормальный. Возрастающие и всё более коварные давления извне заставляют нас искать идейных собратьев. В конечном счёте, два великих явления творят историю – идея и воля. Всё остальное – суета.

Молдова нуждается в усилении нового течения мысли – традиционного, консервативного, христианского. А две главенствующие идеи – одна метафизическая, а другая физическая – взаимосвязаны. Это – религиозная вера и экономическое возрождение. То есть, духовная реальность, которая всегда главенствует, определяет материальную реальность. Если мы наведём порядок в наших душах, в системе ценностей, которые исповедуем, мы сумеем навести порядок и в нашем хозяйстве, в экономике. Наша духовная и интеллектуальная независимость определит нашу политическую и экономическую независимость. А тот, кто обладает менталитетом вассала, кто является носителем синдрома аппендикса крупных держав, кто пытается постелить наши национальные интересы под ноги циклопических структур извне, от которых ожидает решения наших проблем, глубоко заблуждается. Кто боится или обжигается от прямого диалога с людьми размаха Дугина, видя в нём представителя русского империализма, страдает острой интеллектуальной недальновидностью, как и достойной сожаления геополитической близорукостью.

Влияние румынской и русской культуры на Молдову следует обернуть в преимущество, в слияние, которое не испортит, а напротив, отшлифует и укрепит идентитарный профиль нашего общества. Противоречия и исторические противостояния между этими двумя странами должны быть трансформированы в духовные и культурные созвучия, а геополитическое соперничество и ревность должно быть преобразовано в комплементарность интересов трех стран и наций. Мы не являемся более ни окраиной царской империи, ни восточной частью Великой Румынии, ни советской республикой. И если у нас или в двух столицах, Москве и Бухаресте, для некоторых мы являемся лишь временно потерянной территорией, предназначенной для возвращения под администрацию одной из них, мы и никто иной, путём наших культурных, политических и экономических достижений, посредством нашей дипломатии и наших элит, должны показать, что эта земля – наша, наших мёртвых, всех тех, кто родился здесь, и нашего потомства. А исторические родины рассматриваются нами сегодня с одинаковым уважением и вниманием, но и с достоинством. Мы не будем практиковать ни кичливость, ни послушание. Мы впитаем с одинаковой жаждой обе культуры и создадим своим трудом ценности, достойные быть отмеченными как дома, так и в соседних странах. Великолепие народа не измеряется его географическими просторами и не имперскими претензиями, а вкладом в ценности мира. Кто же обладает комплексом человека, принадлежащего к народу второго сорта, агрессивного или покорного, несёт лишь вред своей стране.

До скорого, дорогой друг Александр Дугин! Я твёрдо верю в судьбу моей страны, в её уникальное призвание и в её достойное место в мире симфонии между народами, культурной и идентитарной полифонии, взаимодополняемости между странами и нациями, которые будут сравниваться не столько в цифрах и военном потенциале, сколько в достижениях ума и творчества. В однополярном мире есть место только для одного хозяина и множества лакеев. А в многополярном мире есть достойное место для каждого народа. Молдова может и должна участвовать в глобальном процессе геополитической реконфигурации мира. Как зрелый, достойный субъект, способный сыграть свою уникальную роль во взаимодействии с другими народами.

Юрий Рошка,

Кишинёв, 19 июня 2013

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DUGHIN LA CHIŞINĂU SAU REABILITAREA DISCURSULUI TRADIŢIONALIST

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La 17 iunie 2013, la Chişinău, s-a produs un eveniment de primă importanţă, de o anvergură cu totul excepţională pentru lumea academică şi pentru viaţa publică a ţării noastre. Celebrul gânditor rus, filozoful, sociologul şi geopoliticianul Aleksandr Dughin a fost oaspetele special al Universităţii Populare. Cine a reuşit să citească măcar unele lucrări ale acestui savant de calibru internaţional, realizează fără greutate că aflarea lui Dughin la Chişinău poartă o încărcătură deosebită. Iar cine are măcar o cât de vagă închipuire asupra geografiei culturale căreia îi aparţine, asupra volumului lucrărilor traduse în zeci de limbi, a multitudinii de conferinţe ţinute în cele mai diverse limbi peste tot în lume, asupra prestigiului intelectual al acestei personalităţi uriaşe, în mod cert înţelege că evenimentul de acum câteva zile este unul de o semnificaţie cu totul aparte.

Prezenţa lui Dughin la Chişinău, în vizită privată la invitaţia unei modeste iniţiative academice cum este Universitatea Populară, pe care am pus-o pe picioare relativ recent, este şi o dovadă a recunoaşterii internaţionale a efortului nostru de readucere în circuitul public a valorilor creştine, tradiţionale şi conservatoare. În timp ce Moldova e dominată de două paradigme depăşite, comunistă şi liberală, iar dezbaterea publică se reduce la exaltarea virtuţilor unei Europe aflate într-un proces vertiginos de dezagregare spirituală, instituţională şi economică, iar pe de altă parte, la cultivarea unor nostalgii după defuncta URSS, cei care pricep că ambele proiecte sunt moarte în egală măsură pot fi număraţi pe degete. Este adevărat, URSS îşi are actul de deces eliberat încă acum două decenii, iar UE este doar în aşteptarea lui. Dar, privite dintr-o perspectivă istorică mai largă, cele două versiuni ale omului prometeic, ale determinismului economic, ale ideologiilor ridicate la rang de religie sunt condamnate, în egală măsură, la dispariţie. Între trecutul sovietic şi viitorul european, cei care au un sistem de referinţă profund spiritual şi au vocaţia să desluşească sensul istoriei aleg o altă cale. Este calea revenirii la Tradiţie, la originile noastre creştine, la interpretarea spirituală a acestor deviaţii care ne împing în zone devastatoare pentru societăţile noastre. Experimentul comunist a eşuat mai repede decât cel liberal. Printre motivele de bază ale acestui eşec sunt utilizarea terorii, a constrângerilor ideologice şi a lipsurilor materiale. Proiectul simetric şi complementar comunismului – liberalismul, acţionează mai subtil, prin seducţie, prin înlăturarea oricăror limite, prin dulcea otravă a consumismului şi prin sacralizarea banilor.

Atunci când mai toată lumea de la noi încă mai era captiva iluziei comuniste, am fost printre cei care am contestat-o energic. Şi atunci eram privit ca un excentric, ca un teribilist, ca o persoană fără simţul realului şi chiar fără instinctul autoconservării, de vreme ce mă expuneam riscului de a merge contra curentului general şi contra regimului. Dacă e să mă întreb astăzi ce m-a făcut atunci să îmbrăţişez această cale şi să mă opun pe faţă regimului şi ideologiei dominante, aş putea spune că a fost şocul descoperirii că trăiesc într-o lume strâmbă, pe care am respins-o total, fără rest şi fără a avea garanţia că, până la urmă, se va reuşi înfrângerea puterii care părea invincibilă. Odată descoperind adevărul, am simţit nevoia acută să devin un contestatar. Cuvântul „NU” a fost termenul-cheie care m-a ghidat. Am spus că aşa nu se mai poate, că am rătăcit şi am răbdat destul. Pe atunci singura alternativă pentru noi era modelul occidental. Desigur, în măsura în care realizam ce înseamnă o democraţie liberală, un stat de drept, o economie de piaţă, proprietate privată şi drepturile omului. Reuniunile noastre publice se desfăşurau sub semnul occidentalizării, drumul îmbrăţişat era unul fără alternativă, modele demne de urmat erau SUA şi UE. Procesul de renaştere naţională se axa, în mod firesc, pe redobândirea dreptului de a ne vorbi limba şi de a ne recupera alfabetul latin. Însă, din cauza handicapurilor noastre moştenite din ateismul comunist, cultura ţinea loc de cult. Şi chiar dacă în paralel se producea şi renaşterea noastră spirituală, învăţam să rostim rugăciuni, să purtăm icoane la mitingurile noastre şi să reconstruim biserici, a trebuit să treacă douăzeci de ani ca să putem desluşi adevărul că am plonjat dintr-un univers anticreştin în altul şi mai potrivnic lui Dumnezeu.
Aşadar, de la versiunea sovietică, care ne procurase „one way ticket” (bilet într-o singură direcţie) spre comunism pe calea devenirii istorice inexorabile, ne-am pomenit în versiunea occidentală a drumului cu un singur sens, cel al liberalismului globalizant. Himera roşie s-a spulberat, dar a fost înlocuită fără întârziere de mirajul multicolor al „societăţii spectacolului”. Am fugit ca de ciumă de un sistem dizolvant, care ne oprima prin constrângere, şi ne-am pomenit în anticamera altui sistem, care-şi propune să ne subjuge prin tentaţie şi prin fascinaţia abundenţei materiale. Astăzi societatea noastră încă mai este dominată de curentul liberal, susţinut masiv dinspre Occident. Falsele elite care populează dens ierarhiile de stat, politice, economice şi mediatice sunt fericite în postura de imitatori inconştienţi ai noului curent de opinie, devenit o dogmă obligatorie în discursul public. Vechea nomenclatură sovietică a fost succedată de alta, şi mai venală, cea care astăzi profetizează un alt „Paradis terestru” – o Uniune Europeană care ne-ar aştepta cu braţele deschise şi o lume globalizată în care să ne realizăm destinul istoric. Subiectele mai profunde de ordin spiritual, filozofic, geopolitic şi etnosociologic, de cele mai multe ori, scapă exerciţiului intelectual destul de superficial al „directorilor de opinie”, cantonaţi în zona de confort psihologic, atât de gustat de cohorta de papagali fără discernământ din topul VIP-urilor locale. Într-o atmosferă de exaltare cvazigenerală la vârfurile societăţii, pe motivul iminentei noastre integrări europene, şi de disperare generală a majorităţii oamenilor simpli din cauza lipsurilor, nedreptăţilor şi corupţiei, un discurs academic şi publicistic conservator pare a fi o curată nebunie.

Dar anume asta insist să fac în cadrul Universităţii Populare. Caut să ajut tinerii mei cursanţi să desluşească mai bine ce ni se întâmplă şi de ce, să le deschid un alt orizont de gândire, bazat pe opera celor mai de seamă gânditori români, ruşi şi occidentali. Depăşirea inerţiei, a clişeelor, a interpretărilor superficiale ale realităţii, ieşirea din mrejele culturii de masă şi ale gândirii comune, devenirea intelectuală şi spirituală sunt ţintele cursului meu ce ţine de compartimentul „VIZIUNE”. Iar atunci când, aşa cum se spune în arta comunicării, reuşesc să obţin efectul „a-ha”, atunci când văd cum tinerii prind cu o viteză şi o profunzime uimitoare subiecte de o complexitate deosebită, bucuria mea este una totală. Printre multitudinea de autori de primă mărime la care mă refer în lecţiile mele este şi gânditorul rus Aleksandr Dughin. Nu credeam vreodată că voi apuca să îl cunosc personal, să mă împrietenesc cu el şi să-l am drept oaspete drag chiar la Universitatea Populară. A fost suficient să ajungă în mâinile lui ultima mea carte „Moldova – partea care a devenit întreg”, ce înmănunchează o serie de articole de presă, pentru a-i trezi interesul şi curiozitatea intelectuală. Deschiderea lui pentru cineva care are preocupări similare l-a făcut să accepte dintr-o dată invitaţia mea. Aş putea compara satisfacţia descoperirii operei lui Dughin şi apoi stabilirea unei relaţii personale cu el doar cu bucuria pe care mi-a produs-o contactul cu opera unui alt mare sociolog şi geopolitician, profesorul român Ilie Bădescu, pe care, de asemenea, am avut onoarea să-l cunosc personal. Aş aminti că anume Bădescu este cel care a scris prefaţa la renumita carte a lui Dughin, apărută acum câţiva ani la Bucureşti, „Bazele Geopoliticii”, singurul volum al acestui autor editat până acum în limba română.

Roman Răileanu, coordonator pentru dezvoltarea tehnologiilor umanitare eurasiatice, care l-a însoţit pe Aleksandr Dughin la Chişinău, e de părerea că cercetările socioumane ale profesorului reprezintă o reconsiderare a realităţilor, care depăşeşte clişeele de gândire obişnuite. Este o filozofie care izvorăşte din valorile societăţii tradiţionale, ce presupune dezvoltarea colectivităţilor în contextul religios, cultural şi lingvistic, fără ruperea lor de rădăcinile spirituale. Viaţa şi soarta popoarelor este un proces ce nu suportă intervenţii artificiale. Tradiţionalismul moldovenesc s-ar putea deosebi de conservatorismul rusesc sau românesc. Totodată, pentru fiecare dintre aceste societăţi dezvoltarea spirituală va reprezenta întotdeauna prioritatea vitală numărul unu, a cărei lipsă nu va putea fi compensată de nicio binefacere economică. Adevărata gândire eurasiatică reprezintă o nouă conştientizare a lumii, în special pentru cei tineri, ea fiind străină de înregimentarea în ideologiile materialiste ale trecutului. Iar conservatorismul luminat poate deveni în Moldova un element-cheie de consolidare a societăţii, atât de răzleţite astăzi. Contradicţiile acute, ce marchează azi societatea moldovenească, vor rămâne doar ca un ecou al scurtei epoci liberale pe care o traversăm în prezent. I-am dat dreptate prietenului şi conaţionalului meu de la Moscova.
Ne aflăm la sfârşit de ciclu istoric. Iar Istoria, atâta cât va îngădui Dumnezeu, nu este una predeterminată. Creatorul ne-a înzestrat cu raţiune, cu libertate, cu voinţă, cu discernământ şi răspundere. Şi aşa cum s-a spulberat ca un coşmar „marşul triumfal al Puterii Sovietice”, tot astfel se va consuma şi „marşul triumfal al globalismului liberal”. Desigur, dacă nu vom rămâne fatalişti, indiferenţi şi pasivi. Loc de manifestare pentru cei care gândesc, suferă şi se dedică unor valori fundamentale este destul. Iar sub cerul Patriei „ca un patrafir”, cum ar zice Radu Gyr, este loc pentru întregul nostru popor ortodox, indiferent de originea etnică sau limba în care vorbeşte unul sau altul dintre noi. Nu suntem o colectivitate de rataţi, avem inimă, minte şi dorinţă de a ne împlini destinul. Ne simţim vocaţia mai acut tocmai acum, în vremurile de criză ce ne şlefuiesc sensibilitatea şi ne catalizează energiile.

Am convenit cu profesorul Aleksandr Dughin că îi voi traduce în română şi voi prefaţa lucrarea apărută deja într-o mulţime de limbi, „A patra teorie politică”. Iar după ea sper să urmeze şi o lucrare complementară acesteia – „Teoria lumii multipolare”. Cititorii din Republica Moldova, atât de limbă română, cât şi de limbă rusă, trebuie familiarizaţi cu ele. Ca, de altfel, şi cei din România. Astfel, începând cu ziua de 17 iunie, colaborarea academică dintre Universitatea Populară şi profesorul Dughin şi-a luat startul.
În această zi am avut patru apariţii publice comune: o întâlnire cu tineretul, la care au participat discipolii mei din organizaţia „Noua Generaţie” şi cursanţii Universităţii Populare, o discuţie la sediul universităţii mele, cu prezenţa unor personalităţi marcante din lumea academică şi universitară, feţe bisericeşti, politologi, jurnalişti şi lideri regionali, precum şi două apariţii televizate la „Jurnal TV” şi la „Publika TV”. Transmisiunea în direct pe portalul www.privesc.eu a întâlnirii de la ora 17.00, care a durat peste două ore, a acumulat un număr-record de peste 150 000 de accesări. Le aduc pe această cale tuturor participanţilor la aceste întâlniri, ca şi colegilor din presă, sincere mulţumiri pentru interesul şi deschiderea lor. Sunt fericit că bucuria a fost reciprocă. Atât profesorul Dughin, cât şi publicul au trăit momente de o aleasă satisfacţie. Apariţia lui în spaţiul public din ţara noastră a reuşit să ridice ştacheta dezbaterilor la un nivel intelectual deosebit de înalt. Este adevărat, unii comentatori de serviciu n-au scăpat prilejul să înţepe oaspetele meu. Cauzele acestor înţepături sunt la suprafaţă. Însăşi raportarea la Dughin, chiar şi critică, îi scoate cumva în prim-plan. Dar, în egală măsură, este adevărat şi altceva. Inerţia de gândire şi clişeele ideologice, ce le ţin loc de eşafodaj intelectual, nu le-a permis să facă un efort de depăşire a propriilor prejudecăţi. Bălăcirea într-un sistem de referinţă opac, fragmentar şi autosuficient, pliat pe dogmele în vogă ale discursului dominant al liberalismului prost înţeles, a apărut de această dată într-un contrast izbitor cu anvergura academică a unei personalităţi de talie universală. Cine va face măcar un minim efort să parcurgă cel puţin lista monografiilor şi a manualelor acestuia, accesând Wikipedia, studiate azi în zeci de universităţi ale lumii, îşi va face o impresie mai bună despre calibrul acestui gânditor de primă mărime. Iar atunci când profesorul operează cu autori ca Rene Guenon, Julius Evola, Mircea Eliade, Martin Heidegger, Jaques Ellul, Jean Baudrillard, Gilbert Durand, Alain de Benoist sau Claudio Mutti, a-i replica din perspectiva unor frustrări istorice, a unor naivităţi de ordin geopolitic sau din poziţia de simbriaşi ai unor instituţii occidentale finanţatoare de „(de)formatori de opinie” este deopotrivă descalificant şi ridicol. Cum ridicole şi contraproductive sunt şi isteriile antiruseşti, izvorâte din obsesiile noastre etnocentriste şi din tragediile reale din trecut, care ghidează atâţia naivi de duzină să cultive în continuare imaginea „duşmanului extern” în persoana Rusiei şi, simetric, al „amicului extern” în persoana UE şi SUA. Toate aceste abordări paseiste menţin ochelarii de cai bine fixaţi pe figurile patrioţilor de mucava şi a prooccidentalilor înseriaţi. Se ştie bine că, atunci când toţi gândesc la fel, de fapt, nimeni nu gândeşte. Iar a opera azi cu categorii consumate în secolele XIX şi XX şi a lupta din răsputeri cu defunctele imperii, ţarist şi sovietic, înseamnă a rămâne prizonier al unei optici expirate definitiv.

Cei care se ambiţionează să rămână în căruţa conceptuală de ieri poate ar înţelege un pic mai mult despre noile realităţi dacă s-ar întreba de ce azi Germania, Franţa sau Italia, de pildă, au cele mai bune relaţii politice şi economice cu Rusia. A ne complace în continuare în rolul ingrat de parte a cordonului sanitar instalat de americani în zona Europei Centrale şi de Răsărit, care include şi o parte a noilor state independente din fosta URSS, este cel puţin naiv, dar şi periculos pentru interesele noastre naţionale. Iar a nu vedea în birocraţia europeană şi în grupurile de influenţă financiară, politică, mediatică şi militară americane riscuri reale de desuveranizare a ţării, de colonizare economică, culturală şi informaţională, înseamnă a nu înţelege de ce suntem din ce în ce mai săraci cu tot cu „povestea de succes” inventată de comisarii europeni pentru uzul proştilor de la noi. Şi a nu realiza cauzele reale ale „nomadismului în masă”, ce transformă ţara noastră într-o societate pe cale de dispariţie, înseamnă a accepta postura de victimă inconştientă care merge de bună voie în hăul ademenitor al noului cominternism. Câţi dintre cei care se înghesuie în spaţiul public şi ne vrăjesc de la televizor în fiecare seară au auzit despre faptul că ceea ce reprezenta capitalismul de altă dată nu mai există, că acesta a devenit speculativ, că banii virtuali domină producţia, că liberul schimb e doar în favoarea marilor companii transnaţionale? Şi că statul social nu mai există nici în Occident, că sindicatele îşi pierd orice valoare în ţările tradiţional dezvoltate, că banii au devenit apatrizi şi flotanţi, că nu organismele internaţionale, ci corporaţiile transnaţionale conduc lumea, că în Europa şi America ceea ce era clasa de mijloc se dezagreghează vertiginos, că fantastica concentrare de capital îi transformă pe cei bogaţi în şi mai bogaţi, iar pe cei săraci în şi mai săraci. Câţi dintre actorii şi comentatorii politici (pentru că de gânditori politici nici vorbă nu poate fi pe la noi!) realizează că, prin ceea ce fac şi prin ceea ce enunţă în spaţiul public, ei se transformă, de fapt, în nişte „piloţi orbi”, ca să-l citez din nou pe Eliade? Prea puţini, în mod evident. Şi dacă neştiinţa e o scuză pentru un om de rând, ea devine periculoasă atunci când este apanajul unei false elite, rupte de propriul popor, de tradiţia, de religia şi de nevoile ei. Marele sociolog român Dimitrie Gusti numea această ruptură între mase şi ierarhiile administrative „conflictul dintre stat şi naţiune”.
Cine nu vede că ţara noastră, ca, de altfel, şi toate ţările din regiune şi majoritatea ţărilor lumii, este supusă unui masiv proces de desuveranizare şi de subordonare unor interese strategice, de ordin politic, economic şi cultural de către grupurile de influenţă din SUA? Anume reţelele bazate în SUA se ambiţionează să instituie o lume unipolară sub dominaţia lor, iar cel care ignorează acest adevăr ori e orb, ori tocmit de acestea. Să facem un exerciţiu de comparaţie. Aşa cum bolşevicii sovietici, artizanii URSS, au distrus şi au subjugat mai întâi poporul rus şi doar după aceea alte popoare, care s-au pomenit sub dominaţia unui regim antinaţional şi opresiv, controlat de o clică de aventurieri dogmatici, astăzi poporul american a căzut sub dominaţia unor oligarhii şi grupuri de interese, care recurg la subjugarea altor ţări şi popoare. Sub comunism, instrumentele predilecte de înrobire erau cele militare, acum, de cele mai multe ori, nonmilitare. Astăzi, în locul baionetelor şi al tancurilor folosite de regimul bolşevic, sunt utilizate instrumentele capitalismului cămătăresc, ale propagandei şi ale înhămării elitelor corupte din ţările-ţintă la carul noului imperialism. Desigur, când e cazul, şi forţa armată e aplicată din plin de către colonizatori. Între colonialismul sovietic şi cel american diferenţele sunt minime. Ele ţin de tipul de retorici şi de metode. Ţinta e aceeaşi – subjugarea lumii sub pretextul unei ideologii mesianice universaliste. Iar principiul bolşevic „Cine nu e cu noi este împotriva noastră!” (iată o convertire diabolică a Cuvântului Mântuitorului la interesele servanţilor întunericului!) a trecut în mod firesc şi aproape pe neobservate din discursul comunist în cel globalist. Comunismul sovietic şi globalismul american sunt, din acest punct de vedere, fraţi gemeni. Este vorba de două ideologii totalitare ce tind să cucerească lumea uzând teorii politice parareligioase.

Comunismul sovietic a murit. Globalismul american încă nu. Am luptat împotriva primului. Astăzi e timpul să rezistăm în faţa celui de-al doilea. Pentru că şi de această dată se ţinteşte în credinţa noastră, în cultura noastră, în tradiţiile noastre, în independenţa noastră, în familiile noastre, în viitorul nostru, dar, mai ales, în şansa noastră de a înţelege rosturile profunde ale omului şi răspunderea lui faţă de Dumnezeu. Iar Aleksandr Dughin şi alte minţi luminoase de pretutindeni sunt aliaţii noştri în duh, în credinţă şi în acţiune. Pentru cei care mai au îndoieli că lucrurile stau anume aşa şi că realităţile din America şi Europa sunt mult mai crude decât ne sunt prezentate, iar comparaţia pe care o fac între comunismul sovietic şi consumismul occidental e perfect valabilă, cred că ar fi util să facă nişte lecturi în plus, parcurgând autori relevanţi în acest sens. Ruşii Ivan Ilin, Aleksandr Soljeniţân şi Aleksandr Dughin, americanii Paul Gottfried, David C. Korten, William Greider şi sud-coreeanul Ha Joon Chang ar fi doar câţiva dintre cei care ar putea limpezi minţile multora dintre noi.
Orice abordare schematică, în alb şi negru, este contraproductivă într-un efort de analiză. Din această perspectivă, aflarea lui Dughin la Chişinău este şi ca o şedinţă de psihoterapie colectivă, ce ne poate ajuta să depăşim frustrările noastre mai vechi, românofobia şi rusofobia. Dragostea lui pentru cultura românească, cunoaşterea profundă a filozofiei româneşti, a lui Mircea Eliade, Nae Ionescu, Lucian Blaga şi a atâtor altora este semnificativă în acest sens. Pe de altă parte, cine, în loc să ţină la tradiţie şi la adevărata cultură, aplaudă, alături de perversele grupuri de influenţă din exterior, căsătoriile unisex, homosexualitatea, paradele gay-lor şi exhibiţiile ritualice ale grupului „Pusy Riots” în Catedrala „Hristos Mântuitorul” de la Moscova este liberal, iar cine le dezaprobă este un om normal. Presiunile din afară, tot mai perfide şi mai insistente, ne determină să căutăm confraţi de idei. Două fenomene mari, până la urmă, fac istoria: ideea şi voinţa. Restul e deşertăciune.

Moldova are nevoie de fortificarea unui nou curent de opinie: tradiţionalist, conservator, creştin. Iar cele două idei directorii – una metafizică şi cealaltă fizică – sunt complementare: credinţa religioasă şi renaşterea economică. Adică planul spiritual, ce primează întotdeauna, determină planul material. Dacă vom face ordine în sufletele noastre, în setul de valori pe care le împărtăşim, vom reuşi să facem ordine şi în gospodăria noastră, în economie. Independenţa noastră spirituală şi intelectuală va determina independenţa noastră politică şi economică. Iar cine are mentalitate de vasal, cine are sindromul de apendice al celor mari, cine caută să aştearnă interesele noastre naţionale sub picioarele unor structuri ciclopice din exterior, de la care aşteaptă rezolvarea problemelor noastre, greşeşte amarnic. Cine se teme ori se frige de un dialog direct cu oameni de talia lui Dughin şi vede în el un exponent al imperialismului rus, acela suferă de o acută cecitate intelectuală, dar şi de o miopie geopolitică regretabilă.
Influenţa culturii române şi a culturii ruse asupra Moldovei trebuie convertită într-un avantaj, într-o confluenţă care să nu ştirbească, ci să şlefuiască şi să întărească profilul identitar al colectivităţii noastre. Contradicţiile şi confruntările istorice dintre cele două ţări trebuie transformate în consonanţe spirituale şi culturale, iar rivalităţile şi geloziile reciproce de ordin geopolitic trebuie redimensionate în complementarităţi de interese între cele trei ţări şi naţiuni. Noi nu mai suntem nici periferia Imperiului ţarist, nici partea răsăriteană a României Mari, nici republică sovietică. Iar dacă din interior sau din cele două capitale, Moscova şi Bucureşti, pentru unii noi suntem doar o zonă recuperabilă, un teritoriu pierdut provizoriu şi bun de readus sub administraţia uneia dintre ele, noi înşine, prin performanţele noastre culturale, politice şi economice, prin diplomaţia şi prin elitele noastre, avem datoria să arătăm că acest pământ este doar al nostru, al morţilor noştri, al celor născuţi aici, ca şi al urmaşilor noştri. Iar patriile noastre istorice, vitrege sau drepte, după caz, sunt privite astăzi de noi cu egal respect şi consideraţie, dar şi cu demnitate. Nu vom practica nici aroganţa, dar nici docilitatea, vom absorbi cu egală sete cele două culturi şi vom produce noi înşine valori demne de remarcat atât acasă, cât şi în ţările vecine. Splendoarea unui popor nu se măsoară în întinderi geografice şi nici în veleităţi imperiale, ci în contribuţia la valorile lumii. Iar cine are complexe de persoană care face parte dintr-un popor de mâna a doua, ba agresiv, ba obedient, nu face decât să dezavantajeze propria ţară.

Pe curând, dragă prietene Aleksandr Dughin. Cred cu tărie în destinul ţării mele, în vocaţia ei unică şi în locul ei de cinste într-o lume a simfoniei dintre popoare, a polifoniei culturale şi identitare, a complementarităţii şi echilibrului între naţiuni, care să se măsoare nu atât în cifre sau potenţial militar, cât în performanţe ale minţii şi ale creativităţii. Într-o lume unipolară există loc doar pentru un stăpân şi mai mulţi lachei. Dar într-o lume multipolară e loc de cinste pentru fiecare neam. Moldova poate şi trebuie să participe la procesul global de reconfigurare geopolitică a lumii. Ca un actor matur, demn şi capabil să-şi onoreze rolul său inconfundabil în interacţiune cu alte neamuri.

Chişinău, 19 iunie 2013

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A LIÇÃO BRASILEIRA

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Uma pequena frase: “Ninguém sabe o que está acontecendo”. Desde o momento em que começaram os protestos na cidade de São Paulo muitos “iluminados” tiveram que reconhecer a sua própria ignorância política. De repente havia gente na rua protestando contra o aumento das tarifas no transporte público. Até aqui as coisas faziam sentido. Mas só até aqui. Os desdobramentos da situação não estavam em nenhum manual. Ora, a política não é o terreno da contingência?

Esta aparente surpresa é sintomática, revela algo que todos deveriam reconhecer: no Brasil há, mesmo entre os chamados intelectuais, um déficit do que poderíamos denominar “cultura política”. Os motivos deveriam ser estudados em profundidade, mas tomemos uma regularidade do fenômeno político na história brasileira.

As mudanças profundas na sociedade brasileira quase nunca contaram com a participação das ditas massas. Sempre se acomodaram as coisas a desde cima. Em outros países isto correu de maneira distinta. Houve, para utilizar uma expressão de Renzo De Felice, a “nacionalização das massas”, ou seja, a integração da grande maioria da população em correntes políticas bem definidas, como por exemplo no caso do peronismo na Argentina. No Brasil isto nunca aconteceu de maneira ostensiva, embora não tenham faltado tentativas. Pouca gente sabe mas o primeiro partido de massas no Brasil foi a AIB de Plínio Salgado. Vargas e a elite política da época simplesmente eliminaram o integralismo da cena política brasileira, e as coisas voltaram a ser decididas num gabinete qualquer, mas não na rua e com a participação popular. O trabalhismo de Vargas tampouco conseguiu se encarnar de maneira coerente entre as massas. As tentativas de reivindicar a herança do legado de Vargas sempre foram pífias. Mas os exemplos históricos param por aqui. Não é o nosso foco principal. No entanto fica a lição de que as demonstrações populares sempre causam espanto no Brasil.

Voltemos à atualidade. Antes das últimas eleições municipais todos os candidatos sabiam que a tarifa dos transportes teria que ser reajustada. Kassab apenas deixou o problema para a próxima administração, fazendo o cálculo político de que isso mancharia a imagem do seu novo partido. O candidato vencedor, o excelentíssimo Dr. Fernando Haddad, durante a sua campanha, tinha prometido até mesmo reduzir as tarifas dos transportes. Surgiu o impasse mas… como resolvê-lo? Todos sabemos que o único partido político no Brasil que possui base social é o PT. Pois bem. Por meio dos ditos movimentos sociais, pode-se trabalhar com esta hipótese, o PT decidiu utilizar a sua ala mais combativa, a do movimento estudantil. Embora seja governo, TODAS as frações que compõem o movimento estudantil gravitam em torno do PT. PSOL, PSTU e PCO sempre estão unidos quando se vislumbra a ameaça da “reação”. Isto é um posicionamento clássico da esquerda, sempre apoiar o que se considera mais progressista, embora nunca se é progressista o bastante para os mais radicais.

Retomando a exposição da nossa tese, foi o PT que colocou uma parte da sua base social na rua com o intuito de desgastar o PSDB paulista, que afinal de contas é a força política responsável pela “repressão”, na rua, do movimento pela redução das tarifas. O cálculo petista: pressionamos na rua, haverá repressão, articularemos a redução da tarifa porque o povo assim o quer e, de quebra, daremos um golpe mortal no governo tucano do Estado que, representado por Alckmin, será obrigado a reprimir os excessos dos protestos.

As coisas não saíram como o PT queria. O movimento tomou outra caráter, catalisou um certo descontentamento da população urbana em relação ao governo petista no poder há uma década. Isto explica a perplexidade da esquerda diante da não obediência do “povo” que gritou, na rua, “fora todos os partidos políticos”. A esquerda já começou a falar em “infiltração” da “direita” nos protestos, infiltração essa que obviamente não existe.

Uma certa direita também está perdida diante do que está acontecendo. Ela pede por repressão e diz que tudo não passa de uma “revolução petista dentro da revolução petista”. O problema dessa dita direita é a sua atitude no melhor estilo torre de marfim. Liberais, libertários, neoconservadores a la americana, nunca foram muito afeitos ao “povo”. Simplesmente não sabem como catalisar os protestos. Mas há uma explicação para esta atitude um tanto quanto “ingênua”. Todos sabemos que a hegemonia cultural está há muito tempo nas mãos da esquerda. Para quebra-la é preciso um trabalho de, pelo menos, uma geração. O PT não será derrotado senão por meio de uma oposição, primeiro, no campo das ideias, e depois na possível tradução disto em termos políticos concretos. Detalhe: no Brasil não há oposição, há apenas pessoas que se opõem ao projeto petista de poder.

Agora, um breve comentário sobre a natureza dos revoltosos. Todos sabemos que não é o “povo” que está nas ruas. É antes uma massa urbana de classe média, média alta, liberal, cosmopolita, que gostaria de expressar a sua indignação (sentimento burguês por excelência) contra tudo “o que está aí”. Vivemos uma certa onda deste sentimento que é planetária. E a única figura política que é capaz de catalisar a indignação dessa parcela da população, que quer viver num pais desenvolvido, é a ex-senadora Marina Silva. De todas as forças políticas existentes no Brasil, esta é a mais perigosa. Marina Silva representa o que ela chama de “novo jeito de fazer política”. O que é isto? Em linhas gerais, a ex-senadora ergue as bandeiras do mundialismo, do liberalismo de esquerda, do ecologismo apátrida, das minorias criativas que buscam os seus “direitos individuais” (sic), ou seja, o casamento gay, o abortismo, e o culto a uma suposta unidade dos seres humanos. Lembram-se do famigerado slogan “agir localmente pensando globalmente”? E quem são os apoiadores da khmer-verde? Banqueiros, grandes empresários, profissionais liberais, intelectuais oriundos da esquerda tradicional. O lixo do lixo. Marina Silva é perigosa, pois representa interesses estrangeiros desejosos de enfraquecer os estados nacionais em nome de um governo mundial de auto proclamados iluminados.

Por último, algumas considerações sobre o que poderá ocorrer. Talvez os protestos continuem e passem a criar uma verdadeira crise política. Os grupos mais variados desejariam isto. Na atual conjuntura há uma espécie de empate. Uma regularidade do fenômeno político é que as forças que costumam desempatar o jogo são as que detém o poder de coerção, ou seja, em última instância, o poder sobre a vida e a morte. Uma força que sempre atuou em tempos de crise no Brasil se identifica nas Forças Armadas. Mas até mesmo elas estão desmoralizadas. O PT ainda leva a melhor.

 

 

Andrés Eugui, São Paulo, 20 de junho de 2013.

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REPUBBLICA CENTRAFRICANA E KIMBERLEY PROCESS: QUALE FUTURO PER I “DIAMANTI INSANGUINATI”?

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Era il 1866 quando venne scoperto il primo diamante in Sudafrica. Da lì a pochi anni vennero aperti  anche i giacimenti Kimberley – circa 450 chilometri a sud-ovest di Johannesburg – che diedero il via all’ascesa della compagnia mineraria De Beers, oggi colosso diamantifero che controlla una buona fetta dell’intero commercio mondiale. L’estrazione di diamanti vede i Paesi africani in primo piano: complessivamente – infatti – la metà dei diamanti estratti proviene dall’Africa centrale e meridionale; Repubblica Democratica del Congo, Angola, Botswana, Sudafrica, Zimbabwe e Repubblica Centrafricana sono i principali Paesi produttori. È proprio a causa di quest’ultimo Paese che il commercio di diamanti e il Processo di Kimberley (PK) – che dovrebbe certificare che i proventi della vendita non vengano utilizzati per guerre civili – sono tornati d’attualità.  A distanza di dieci anni dalla sua nascita (2003) si può essere soddisfatti del livello di sviluppo e di controllo di questo organismo?

 

 

La Repubblica Centrafricana, situata nel cuore del continente africano, è uno dei Paesi più poveri al mondo: a fronte di un enorme ricchezza mineraria, il PIL pro capite annuo è al di sotto degli 800 dollari, l’80% della popolazione è impiegato nel settore primario e il tasso di analfabetismo sfiora il 50%. La sua economia si fonda principalmente sui proventi derivanti dalla deforestazione e dal sottosuolo, con la vendita di uranio, ferro ma soprattutto diamanti, che da sola nel 2010 ha  rappresentato il 10% dell’intero PIL nazionale.

Dal punto di vista politico va ricordato che dopo l’indipendenza raggiunta nel 1960, il Paese visse un grande periodo di instabilità per circa 30 anni, con colpi di stato militari che si susseguirono fin quando nel 1992 non si arrivò alle prime elezioni democratiche. Nel 2003 ci fu un ulteriore colpo di Stato, orchestrato dal generale François Bozizé, che ha retto il potere fino a pochi mesi fa.

Il 24 marzo, infatti, i ribelli della Coalizione Séléka (“alleanza”), dopo alcuni mesi di guerra civile sono riusciti ad entrare nella capitale Bangui e hanno costretto alla fuga il presidente Bozizé, prendendo in mano il controllo del Paese. Uno dei leader dei ribelli, Michel Djotodia, si è poi autoproclamato presidente della Repubblica Centrafricana, facendo precipitare il Paese in una crisi senza via d’uscita.

Il continuo susseguirsi di regimi militari e colpi di Stato non ha aiutato il Paese a svilupparsi come avrebbe potuto grazie alle importanti risorse minerarie. I vari presidenti della Repubblica Centrafricana hanno tutti preferito perseguire – chi in un modo, chi in un altro – una politica di sfruttamento delle miniere a proprio vantaggio personale, disincentivando lo sviluppo dell’industria del settore e quindi di conseguenza della popolazione locale, accaparrandosi quante più ricchezze possibili grazie alla vendita di diamanti.

L’avidità dei governi e l’espansione dei traffici illeciti – una buona parte dei diamanti viene messa in commercio sul mercato nero – sono state una costante anche del deposto presidente Bozizé, che portava avanti una strategia volta al maggior profitto personale possibile, non ricorrendo a politiche per lo sviluppo del settore nel lungo periodo.

Una peculiarità dello stato centrafricano rispetto agli altri Paesi produttori è l’assenza di grandi società minerarie, disincentivate dall’investirvi per diversi motivi, sia di natura logistica, data l’assenza di infrastrutture adeguate e la difficile conformazione del terreno alluvionale dove si trovano i diamanti, sia di natura politico-burocratica: instabilità politica, assenza di politiche di lungo periodo, controlli molto rigidi e tassazione elevata non incentivano di certo l’investimento estero nel Paese.

La realtà mostra infatti che a trarre maggiori profitti dalla vendita dei diamanti non sia lo Stato stesso, bensì mediatori senza scrupoli, guerriglieri e forze dell’ordine corrotte che li contrabbandano, facendoli uscire dal paese attraverso il Ciad, e vendendoli per somme irrisorie alle grandi multinazionali o ai soliti noti. Lo Stato è perciò il grande perdente perché in questo modo le imposte vengono aggirate.

I diamanti attraggono i ribelli dei principali movimenti armati, come appunto la Séléka, sospettate di aver ricevuto finanziamenti da operatori del settore proprio per destituire il generale Bozizé. La regione risulta così una delle più insicure dell’Africa, e finché i ribelli avranno a disposizione questa fonte di finanziamento, la fine della guerra civile e dell’instabilità rimane un miraggio.

Il problema del commercio illegale dei diamanti non è nuovo, soprattutto in Africa. Lo sa bene la Sierra Leone, ma anche la Liberia e l’Angola, uscita da pochi anni da una guerra sanguinosa. Il campo profughi di oltre un milione di persone, le immagini di donne e bambini mutilati, le oltre 50mila vittime suscitarono l’indignazione dell’opinione pubblica, che iniziò a boicottare l’acquisto dei diamanti. Gli interessi economici delle grandi multinazionali e delle grandi potenze, coinvolte nel traffico illegale dei diamanti insanguinati, furono messi a serio rischio. Per un’esigenza di immagine  e di marketing, più che per sincera convinzione, i grandi della Terra e le aziende del settore si dissero disponibili a trovare una soluzione e arginare il fenomeno dei “diamanti insanguinati”.

 

 

Il processo di Kimberley

Esattamente dieci anni fa (2003), venne istituito il Kimberley Process Certification Scheme (KPCS), un accordo di certificazione sottoscritto da diversi Paesi con l’obiettivo di garantire che i profitti ottenuti grazie alla vendita di diamanti non servissero a finanziare guerre civili o altri fenomeni di violenza. Tale accordo venne raggiunto dopo le guerre civili in Sierra Leone (che tra il 1991 e il 2001 provocò circa 50 mila morti) e in Liberia (dove tra il 1999 e il 2003 morirono circa 200 mila persone), proprio per certificare che i diamanti siano “conflict free“, e non utilizzati per finanziare violenze.

Il Kimberley Process (PK) è l’organismo volto a controllare che tali regole siano rispettate, attraverso un suo comitato che si riunisce periodicamente e  che prende decisioni per consensus.

Questo organismo è stato costituito grazie allo sforzo dei governi direttamente interessati dal commercio diamanti insieme a quello di ONG e delle multinazionali del settore, la De Beers in particolare –  che da sola controlla il 40% del mercato – con l’obiettivo di rilanciare la vendita del prezioso minerale, rassicurando e sensibilizzando i compratori.

L’ultimo Paese in ordine cronologico ad essere finito nel mirino di questo organismo è la Repubblica Centrafricana, proprio a seguito del recente colpo di Stato che ha portato i ribelli e il suo leader, Michel Djotodia, al potere.

Durante lo scorso mese di maggio, il PK ha sospeso la Repubblica Centrafricana con effetto immediato – decretando anche un embargo sulle risorse diamantifere – poiché da quando il presidente Bozizé è stato destituito, le operazioni di controllo e monitoraggio dell’attività di estrazione dei diamanti sono divenute meno efficaci e diffuse.

Da parte sua, il governo centrafricano ha risposto alle accuse e alle sanzioni definendole “ingiuste”,  assicurando che i controlli sulla filiera di estrazione e sulla stipula dei contratti sarebbero ripresi. Inoltre, nel corso della sessione del PK dello scorso 4 giugno, lo stesso governo centrafricano ha annunciato di voler mettere in atto una moratoria sullo sfruttamento e la vendita di diamanti: una corsa ai ripari dopo la sospensione che però non ha sortito alcun effetto dal momento che nella stessa conferenza del Processo di Kimberley è stata confermata la sospensione del Paese africano dalla certificazione KPCS.

La situazione della Repubblica Centrafricana era stata già in passato oggetto di accurate analisi da parte dell’International Crisis Group (ICG) – una ONG che si occupa di fornire analisi su situazioni di crisi e di conflitto con l’obiettivo di limitarli. A fine 2010, infatti, in un rapporto annuale (“Dangerous Little Stones: Diamonds in the Central African Republic“), l’ICG esprimeva le proprie preoccupazioni riguardo la situazione del Paese, e in particolare di come venissero gestite le miniere e le risorse del sottosuolo da parte dell’allora presidente Bozizé, accusando lo Stato africano di “fragilità cronica”, e il regime di mantenere “una gestione opaca e centralizzata” delle miniere.1

Nel proprio rapporto, l’International Crisis Group esprimeva anche alcune raccomandazioni, chiedendo al governo della Repubblica Centrafricana di rendere più chiaro e trasparente il processo di stipula dei contratti, ma anche di contrastare efficacemente il contrabbando – anche attraverso l’aiuto del PK e al sostegno internazionale – e armonizzare la fiscalità in relazioni a quella dei Paesi vicini. Inoltre invitava il governo a portare avanti politiche di lungo periodo volte allo sviluppo del settore, con incentivi per l’investimento straniero nel Paese e la semplificazione del processo burocratico e fiscale.

Ugualmente, al Processo di Kimberley si chiedeva di inviare al più presto una missione per valutare l’effettiva implicazione dei ribelli nella gestione e nel controllo delle miniere e del loro sfruttamento.

In questi dieci anni di vita il Processo di Kimberley ha incontrato numerose difficoltà. Uno dei suoi maggiori punti deboli, infatti, deriva dalla dall’inadeguatezza dei controlli interni sui quali esso fa affidamento: in numerosi Paesi come Guinea, Repubblica Democratica del Congo, Zimbabwe, Angola e Costa d’Avorio (malgrado l’embargo sulla vendita da parte della Nazioni Unite) il giro d’affari del commercio illegale di diamanti – che si estranea quindi dalle regole e dalla certificazione KPCS – è molto alto. I governi di questi Stati non riescono a garantire i controlli, che dovrebbero estendersi dall’estrazione fino alla vendita: i motivi possono essere di diversa natura, sia per effettiva incapacità strutturale, sia per reale volontà degli stessi controllori, che si garantiscono in questa maniera maggiori guadagni personali.

Il commercio illegale di diamanti grezzi è sicuramente la questione più spinosa del Kimberley Process, i cui strumenti non sono serviti a molto. Si calcola infatti che in Repubblica Democratica del Congo e in Sierra Leone circa il 50% dei diamanti esportati abbia una dubbia origine. E’ in questo senso che alcune ONG dirigono la loro azione, rimarcando queste carenze: su tutte, Global Witness, nata nel 2003 con sede a Londra, ha sottolineato nei suoi numerosi rapporti queste difficoltà.

Già nel 2008 denunciò come le violazioni al KPCS fossero all’ordine del giorno in alcuni Paesi facenti parti del Processo di Kimberley, come Sierra Leone, Venezuela, dove “the government blatantly flouts the certification scheme”2 , e in Zimbabwe. Nello stesso documento Global Witness esprimeva delle raccomandazioni nei confronti del PK, sottolineando come esso dovesse dotarsi di un meccanismo di sospensione provvisoria in caso di non conformità alle regole, esigere maggiori controlli da parte dei governi, dotarsi esso stesso di capacità di ricerche e sorveglianza per contrastare il commercio illegale di diamanti grezzi.3

Un’altra ONG, Partnership Africa Canada (PAC), nel 2009 nel suo rapporto annuale su diamanti e sicurezza umana ha sottolineato un’altra debolezza del Processo di Kimberley, il fatto che mancasse un’autorità centrale. La presidenza cambia di anno in anno, non garantendo né continuità né responsabilità ai gruppi di lavoro che si succedono ogni volta. Inoltre, la modalità di voto secondo consensus, impone che tutti i Paesi siano d’accordo, un solo dissidente è capace di bloccare le decisioni.4 Nello stesso rapporto annuale, la PAC definisce il PK un “moulin à paroles“, tocca alla società civile – anche tramite le ONG –  essere vigile riguardo il contrabbando di diamanti insanguinati e sul meccanismo di controllo esso stesso.

Il PK dimostra quindi di non funzionare come dovrebbe. Il sistema presenta  alcuni punti deboli: prima di tutto esso si applica solamente ai diamanti grezzi. Quelli tagliati e usati in gioielleria – dunque – ne sono esclusi e risulta perciò facile per i trafficanti immettere sul mercato nero i diamanti già tagliati. Una volta tagliati – al contrario di quando sono ancora grezzi – ricostruirne la provenienza certa diviene impossibile. Una seconda debolezza deriva dal fatto che applicando il sistema di certificazione a lotti di diamanti – e non alle singole pietre – è semplice immettere in tali lotti diamanti di illecita o dubbia provenienza. Terzo e ultimo problema: i centri di taglio sono esclusi dalla lista delle strutture controllate dal KPCS  e sono spesso uno sbocco per i diamanti di cui non si conosce l’origine: una volta tagliate, perciò, le gemme entrano liberalmente sul mercato alimentando il commercio illegale.

Le difficoltà che il Processo di Kimberley ha conosciuto fin dalla sua nascita nel 2003 sono evidenti e portate alla ribalta dalla società civile e dalla ONG in particolare, che in alcune occasioni si sono sostituite in tutto e per tutto alle sue attività, invitando i Paesi sospettati di un deficit di controllo nella gestione e nello sfruttamento delle risorse diamantifere a risolvere al più presto questa situazione. Senza alcun potere coercitivo, però, i loro appelli e i loro rapporti annuali sono destinati a perdersi nel vuoto, a meno che da parte del PK non vengano utilizzati come strumento di supporto e di cooperazione in modo da poter realmente circoscrivere e ridurre il problema dei “diamanti insanguinati”.

Un altro problema al quale il Processo di Kimberley deve far fronte è emerso sopratutto negli ultimi anni: oltre a dover controllare che i proventi non vengano utilizzati per finanziare le guerre civili, è necessario porre l’attenzione anche sulle condizioni di lavoro a cui sono sottoposti i minatori. Il rispetto dei diritti umani è stato in più di un’occasione denunciato da parte di ONG locali, ma in passato il PK non ha potuto fare niente a riguardo, non essendo previsto dal suo statuto. Ci si augura che in futuro la sensibilizzazione di questo problema porti ad un riforma dello stesso e ad un maggiore controllo in questo senso.

 

 

 

Note bibliografiche e riferimenti multimediali

1http://www.crisisgroup.org/fr/regions/afrique/afrique-centrale/republique-centrafricaine/167-dangerous-little-stones-diamonds-in-the-central-african-republic.aspx , ultimo accesso giugno 2013

2http://www.globalwitness.org/library/loupe-holes-kimberley-process , ultimo accesso giugno 2013

3http://www.globalwitness.org/library/loupe-holes-kimberley-process , ultimo accesso giugno 2013

4http://www.pacweb.org/Documents/annual-reviews-diamonds/AR_diamonds_2009_fr.pdf, ultimo accesso giugno 2013.

 

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CAUCASO COSTRUIRE LA PACE. SEMINARIO INTERNAZIONALE

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Caucaso costruire la pace. Seminario internazionale. Sabato 28 giugno ore 17,00, Sala del Castello di Borgo Maggiore. Partecipa Filippo Pederzini, giornalista della rivista di geopolitica Eurasia.

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LA SIRIA AL CENTRO DELLO SCONTRO GLOBALE

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L’attuale tragedia siriana si inscrive a pieno titolo tra i capitoli che compongono il libro nero dell’Occidente. Cioè nella storia della lotta condotta dalle forze imperialiste per riportare sotto il loro controllo un paese e un popolo che per un secolo ha rappresentato un importante fattore della rinascita araba e della lotta antimperialista.

Nel loro tentativo di controllare la ricca e strategica regione del Vicino Oriente, gli Stati Uniti hanno ingaggiato da tempo un braccio di ferro con la Siria, sia direttamente che per interposta persona, tramite Israele. Ma le strategie dell’imperialismo per indurre Damasco a capitolare sono state finora sempre sconfitte (e sonoramente), dalla guerra civile libanese (tra il 1975 e il 1991) in poi.

 
Dominio mondiale e “Grande Medio Oriente”

Le guerre che Washington ha lanciato nel recente passato per inseguire il suo sogno di “dominio a pieno spettro”, a partire dall’avventura irakena, sono state foriere di guai. Non hanno arrestato il declino statunitense di fronte all’emersione di Potenze antiegemoniche (Cina, Russia, etc…); hanno facilitato lo stabilirsi di intese strategiche antimperialiste tra i propri antagonisti (Cinesi, Russi, Iraniani, Siriani, Libanesi, Latinoamericani, etc…); non hanno spezzato l’asse della Resistenza tra Iran, Siria, forze patriottiche libanesi e palestinesi.

L’eliminazione del regime di Saddam Hussein in Iraq e dei Talebani in Afghanistan, che rappresentavano due antemurali per il contenimento della Repubblica islamica iraniana, ha di fatto sortito l’effetto di rafforzare il ruolo di Teheran nella regione. Le guerre statunitensi non sono nemmeno riuscite a stabilire dei solidi protettorati nei territori occupati, provocando semplicemente la sovraesposizione militare del Pentagono.

Dopo che i tentativi di passare sul cadavere del piccolo Libano, per spingere la Siria a capitolare e per isolare l’Iran, sono falliti, l’Occidente ha puntato direttamente alla destabilizzazione della Siria grazie al supporto delle bande mercenarie composte da terroristi di ispirazione wahhabita. Tali bande sono foraggiate, sulla base di un circuito rodato che risale addirittura alla guerra condotta contro l’Afghanistan repubblicano a partire dalla fine degli anni Settanta, dall’Arabia Saudita e dagli emirati del Golfo.

Si è così costituita una rete di complicità che accomuna le potenze occidentali, gli emiri del Golfo, la Turchia e la galassia dell’islam radicale settario. L’obiettivo è abbattere una buona volta l’antemurale siriano distruggendone lo Stato, chiudere nel sangue l’ultimo capitolo del processo di emancipazione nazionale promosso dal mondo arabo all’epoca della decolonizzazione e isolare l’Iran in vista della resa dei conti finale. E’ solo per il gusto del ridicolo che le forze che stanno foraggiando la guerra a bassa intensità contro Damasco si presentano come “amici della Siria” e ostentano preoccupazioni democratiche e premure per i diritti umani di origine assai dubbia.

 
La controrivoluzione araba

I paesi assolutisti del Golfo mettono a disposizione le loro petro-ricchezze per reclutare in ogni angolo del mondo islamico bande di fanatici integralisti che nascondono i loro ripetuti ed efferati crimini dietro una lettura blasfema, oscurantista ed eretica della religione islamica, strumentalizzata a soli fini di potere dalle ricche oligarchie reazionarie arabe legate a doppio filo all’imperialismo, le quali tentano con tutte le loro forze di fermare i processi rivoluzionari in corso da decenni nel mondo arabo-isalmico, con alterne fortune. Che questi processi rivoluzionari alzino l’insegna del nazionalismo laico e socialisteggiante (come in Siria) o quello islamico a carattere antimperialista (come in Iran) per loro non fa grande differenza. Pescano dai loro arsenali propagandistici le accuse di eresia più strampalate e le diffondono sui loro circuiti mediatici spargendo il seme dell’odio e della violenza.

La guerra per procura alla Siria, camuffata e distorta dal circuito mediatico occidentale, vera e propria macchina di disinformazione ed indottrinamento, ha inferto al popolo siriano immani sofferenze da più di un anno. L’azione di mercenari e bande criminali che operano per destabilizzare il paese e farlo crollare dall’interno, rendendo impossibile la convivenza civile, non è però riuscita a centrare il bersaglio grosso: il rovesciamento del presidente Assad e di quelle istituzioni repubblicane che hanno da sempre fatto della laicità dello Stato e del rispetto e della parità tra le varie componenti confessionali in cui si articola il paese la pietra angolare della loro politica patriottica e progressista.

Per dare la spallata alla resistenza di cui sta dando prova il popolo siriano, stretto attorno alle sue istituzioni e alle sue Forze Armate nel tentativo di scongiurare il dilagare dell’inferno portato dalle bande di mercenari e fanatici al soldo dell’Occidente e dei suoi fiduciari locali, sarebbe determinante poter effettuare un’offensiva massiccia dall’esterno, sul modello dello scenario libico.

Ma la collocazione delle forze in campo a livello internazionale intorno alla crisi siriana ha fino ad adesso impedito un tale esito e non pare che le cose siano destinate a cambiare nell’immediato futuro.

 
La polveriera

Russia e Cina hanno infatti adottato una postura molto ferma, evitando che in sede ONU potessero essere approvate risoluzioni adatte a coprire con una foglia di fico un’aggressione diretta alla Siria. Mosca ha un interesse diretto nel dossier siriano. La Siria è una sua storica alleata, ed è ormai l’unico paese dell’Oriente arabo chiaramente schierato in senso antimperialista. Una sua caduta aprirebbe ai gruppi dell’integralismo islamico reazionario la possibilità di trasformare l’intero Medio oriente in una testa di ponte contro il Caucaso, l’Asia centrale e il fianco sud della Federazione russa. E’ un segreto di pulcinella che siano attivi nelle bande che operano in Siria molti terroristi ceceni.

La caduta della Siria lascerebbe inoltre pesantemente esposto l’Iran, altro alleato chiave della Russia nella sua strategia di costruzione di un ordine internazionale multipolare che possa scongiurare la dittatura planetaria degli Stati Uniti. L’esposizione dell’Iran, che con la Siria ha un’alleanza vera e propria nonostante l’abissale diversità che caratterizza i due regimi politici, chiama in causa direttamente anche la Cina. Per scongiurare l’egemonismo unipolare statunitense, oltre all’intesa tra i due giganti eurasiatici, è necessario stabilire legami anche con medie e piccole potenze regionali, con paesi cioè che possono esercitare un’influenza politica in aree ristrette ma cruciali per l’andamento della partita geopolitica in corso. Si è così stabilita una triangolazione strategica tra Mosca, Pechino e Teheran.

Questa triangolazione è emersa con chiarezza nel corso dell’attuale tragedia siriana, quando, di fronte alla ostinata ed illegale guerra per procura ingaggiata dall’Occidente contro la Siria, i tre paesi hanno supportato apertamente Damasco.

La Siria si trova così lungo la faglia del confronto globale tra l’Occidente imperialista americanocentrico e le potenze emergenti ed antiegemoniche.

Il pesante sovvenzionamento delle bande armate da parte dell’alleanza costituita dalla Nato, dalle satrapie del Golfo e dalla Turchia e la minaccia costantemente agitata di trasformare questa sporca guerra per interposta persona in una aggressione diretta alla Siria hanno provocato una situazione incandescente.

 
Dopo la battaglia di Qusayr

In questo contesto non può meravigliare che Mosca e Teheran abbiano deciso di coordinare le mosse dei loro servizi di intelligence e abbiano manifestato la loro ferma intenzione di operare per un’uscita pacifica dal conflitto, supportando nel frattempo, anche militarmente, l’esercito siriano.

Durante la grande battaglia di Qusayr, al confine tra Siria e Libano, si è assistito ad una svolta nel conflitto. Per la prima volta i siriani hanno potuto godere dell’appoggio diretto dei loro alleati di Hezbollah sul terreno. Al flusso dei mercenari integralisti, provenienti anche dal vicino Libano e sostenuti apertamente dal partito del miliardario di origine saudita Hariri, si è così contrapposto l’invio di brigate combattenti per aiutare il governo siriano a fronteggiare la reazione.

Il leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah, ha espresso chiaramente le motivazioni strategiche che hanno spinto il partito politico libanese ad intervenire nella battaglia di Qusayr. Per decenni Hezbollah e le forze patriottiche libanesi sono state sostenute da Siria e Iran, ora è venuto il momento di restituire il favore. Nasrallah ha colto che nel momento in cui uno dei pilastri dell’Asse della Resistenza nella regione era sotto assedio non si poteva stare a guardare. Le incursioni aeree israeliane, che hanno finito con il favorire oggettivamente le bande armate, hanno forse avuto un loro involontario ruolo nel precipitare questa decisione.

Nasrallah ha sostenuto che la Siria rappresenta la retrovia della resistenza libanese ed ha argomentato che quando la retrovia è minacciata occorre intervenire per garantirla. “Se non intervenissimo saremmo degli idioti”, ha chiosato il leader del Partito di Dio.

L’atteggiamento di Hezbollah si discosta massicciamente da quello di alcune formazioni palestinesi come Hamas, che per anni sono state ospitate a Damasco e sostenute dalla Siria e che, di fronte all’attuale tempesta, hanno finito con il mordere la mano di chi li ha soccorsi nel momento del bisogno per cercare protezione presso gli emiri del Golfo e puntare sulla carta dell’ascesa della Fratellanza musulmana nella regione. C’è davvero qualcuno che ritiene che questa spericolata ed inqualificabile capovolta possa aprire nuove prospettive per il popolo palestinese e per la risoluzione della sua annosa questione.

Archiviata con un chiaro successo militare la battaglia di Qusayr, l’esercito siriano dovrebbe aver messo in sicurezza il confine con il Libano può puntare verso nord. “Uragano del nord” è il nomignolo dato alle operazioni che mirano a sgominare la bande che infestano la regione di Aleppo. Nello stesso tempo la Nato e i suoi alleati locali hanno mostrato i muscoli nel corso di imponenti esercitazioni militari congiunte in Giordania, proprio al confine con la Siria. C’è chi sospetta che queste manovre possano servire per esfiltrare mercenari rimasti in trappola dopo la brutta piega che per gli aggressori stanno prendendo gli eventi siriani. Ma potrebbero anche rappresentare la preparazione di una dissennata fase due. A Qusayr i servizi siriani hanno rinvenuto abbondante documentazione circa il traffico d’armi con cui mezzo mondo sostiene le bande terroriste armate che operano in Siria contro le regole della convivenza internazionale.

 
Il braccio di ferro tra Usa e Russia

Disgraziatamente la tragedia siriana non sembra ancora avviata alla soluzione. Gli imperialisti e i loro alleati locali perseverano nel sostenere la destabilizzazione del paese arabo e alimentano così un pericolosissimo focolaio di tensione internazionale.

Il loro scomposto agitarsi di fronte alla decisione russa di fornire alla Siria il sistema di difesa contraerea (DCA) composto dai missili terra-aria a lunga gittata S-300, è la più chiara manifestazione di ciò. Sanno benissimo che con l’ombrello di questo sistema tutta la DCA siriana ne verrebbe rafforzata e che diventerebbe troppo costoso un loro intervento diretto nel conflitto tramite bombardamenti al tappeto effettuati con la scusa di imporre una zona di non sorvolo. Gli S-300 possono mettere in crisi l’opzione dell’air-power cui gli Stati Uniti amano ricorrere per rinnovare i fasti della politica delle cannoniere nel nuovo secolo. Chavez aveva tempo addietro chiosato: “per fortuna esistono la Russia e la Cina”.

Recentemente pare che la Russia, tramite il portavoce del Ministero degli Esteri Lukashevic, abbia cestinato l’ipotesi avanzata dagli Usa di istituire una zona di non sorvolo. L’esempio libico ha aperto gli occhi ai dirigenti del Cremlino e Putin appare determinato a non abbandonare la Siria alla sua sorte. Come Andropov, che nei primi anni ’80 aveva dotato i siriani di sistemi d’armi mai usciti prima dal Patto di Varsavia e che si era detto determinato a non consentire a nessuno di minacciare la Siria, anche Putin è cosciente dell’importanza strategica del suo alleato e del ruolo che oggi ricopre il dossier siriano nella partita globale per delineare un nuovo equilibrio di potenza a livello internazionale. La decisione russa di sostenere militarmente Damasco tramite l’invio dei missili antiaerei S-300 pare confermare che gli Usa e i loro alleati stanno giocando col fuoco. Difficilmente un aperto attacco alla Siria potrebbe restare localizzato come è avvenuto con le avventure belliche del passato recente. Il coinvolgimento nel conflitto dell’Iran e di altri attori regionali, di conseguenza, potrebbe trascinare nel baratro tutte le principali Potenze.

Per il momento i piani imperialisti per dare una svolta al conflitto che sia favorevole alle loro milizie sono dunque bloccati.

L’ipotesi più probabile è che continueranno a soffiare sul fuoco della guerra a bassa intensità per indebolire la Siria. Ma il pericolo che la situazione possa sfuggire di mano e innescare un’escalation è sempre in agguato.

Le ambizioni di Washington di imporre un ordine unipolare e le naturali tendenze verso la maturazione di un equilibrio internazionale più rispettoso degli interessi dei vari popoli e delle varie nazioni che non vogliono vedere calpestata la loro sovranità passa anche e forse principalmente dall’esito che avrà il braccio di ferro in corso nel Levante arabo.

 

 

 * Spartaco A. Puttini ha pubblicato su “Eurasia. Rivista di studi geopolitici” diversi articoli, tra i quali: L’immagine della Sfinge: l’Egitto nasseriano e l’opinione pubblica italiana (nr. 3/2005, pp. 115-124), Il Patto di Shanghai (nr. 3/2006, pp. 77-82), USA e Siria: storia di un antagonismo (nr. 2/2007, pp. 189-200), La zuffa per l’Africa (nr. 3/2009, pp. 169-178), La rivoluzione islamica dell’Iran (nr. 1/2010, pp. 249-262).

 

 

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AL-QAIDA APRE IL FRONTE LIBANESE?

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Gli Stati Uniti e i loro alleati lavorano per aprire un nuovo fronte del conflitto siriano in Libano. Il Libano si trova nel limbo per l’assenza di un governo e il rinvio delle elezioni parlamentari. A complicare le cose, molte figure istituzionali e comandanti militari sono andati in pensione e il governo provvisorio non è in grado di sostituirli. L’intervento di Hezbollah nel conflitto siriano ha dato una spinta al governo siriano contro le forze antigovernative che tentano di invadere la Siria. Ciò ha portato l’attenzione degli Stati Uniti e dei loro alleati sul Libano come nuovo campo di battaglia. Razzi vengono lanciati dalle forze antigovernative dalla Siria, e persino dal Libano, contro le roccaforti politiche di Hezbollah e contro i villaggi sciiti. L’obiettivo è accendere le fiamme della sedizione tra sciiti e sunniti in Libano.

 
Al-Qaida in Libano

La bandiera di al-Qaida ha sventolato in Libano per anni. Recandosi all’aeroporto di Beirut o viaggiando sulla strada per Sidone (Saida) è possibile vedere le bandiere nere di al-Qaida sventolare. Lo stesso vale per Tripoli (Trablos) e alcune aree di Beirut. Dal conflitto siriano è possibile vederle accanto alla bandierina dei ribelli siriani. Gli Stati Uniti e i loro alleati hanno effettivamente chiuso un occhio sul supporto che il partito Futuro di Saad Hariri fornisce ad al-Qaida. Vale la pena notare che l’attuale capo del Dipartimento affari politici del segretario di Stato USA, Jeffrey Feltman, ex ambasciatore USA in Libano prima di essere promosso al dipartimento di Stato degli Stati Uniti, ha chiuso un occhio sul supporto ad al-Qaida del partito Futuro della famiglia Hariri e della sua Alleanza del 14 Marzo. La famiglia Hariri ha una lunga alleanza con i takfiristi e i sostenitori di al-Qaida. In Libano sono alleati politicamente con i gruppi che apertamente venerano Usama bin Ladin. Furono la famiglia Hariri e i membri del loro partito Futuro che fecero anche entrare i combattenti che avrebbero formato Fatah al-Islam in Libano. Tale uso delle milizie takfiriste in Libano da parte della famiglia Hariri era volto ad attaccare Hezbollah. Sul piano regionale, la stessa strategia coinvolge i sovvenzionatori sauditi della famiglia Hariri e l’amministrazione di George W. Bush, che addestravano e armavano queste milizie nella lotta contro la Siria e l’Iran. Gli Hariri s’infuriarono quando Seymour Hersh li smascherò, rimproverandolo pubblicamente. Mesi dopo Fatah al-Islam sarebbe andato fuori controllo. L’Alleanza del 14 Marzo di Hariri in modo disonesto cercò d’incolpare la Siria e i palestinesi del sostegno e della creazione del gruppo. Seymour Hersh si sarebbe vendicato. I combattimenti in Libano tra i militari libanesi e Fatah al-Islam prefigurava gli eserciti che si ammassavano per il cambiamento di regime in Libia e Siria.

 

Tripoli e Sidone come estensioni del conflitto siriano

La seconda città del Libano, Tripoli, ha visto intensi combattimenti tra la comunità alawita libanese, rappresentata dal Partito Democratico arabo, e gli alleati takfiristi della famiglia Hariri. Gli alleati di Hariri a Tripoli sono aperti sostenitori di al-Qaida e delle forze antigovernative in Siria, hanno contrabbandato armi attraverso il confine libanese-siriano e inviato un gran numero di combattenti in Siria per rovesciare il governo di Damasco. Il partito Futuro venne anche coinvolto nel coordinamento di tutto ciò. La terza città più grande del Libano, Sidone, è stata anche teatro di scontri e tensioni tra Ahmed al-Assir, alleato di Hariri, e sostenitori e alleati di Hezbollah. Gli uomini di al-Assir hanno anche tentato di uccidere uno principali religiosi musulmani sunniti di Sidone, perché ha sempre detto che v’è il tentativo d’innescare un conflitto tra sciiti e sunniti in Libano e nella regione. Un contingente di militari libanesi ha dovuto mantenere la pace in città. Gli uomini di al-Assir hanno attaccato e ucciso membri delle forze armate libanesi senza nessun motivo apparente, il 23 giugno 2013. Questo ha acceso la battaglia a Sidone. Lo spesso fumo della città poteva essere visto da lontano. E’ stato riportato che membri delle forze antigovernative provenienti dalla Siria vi si erano uniti. L’esercito libanese ha schierato armi pesanti per combattere il gruppo di al-Assir.

 
L’obiettivo è costringere Hezbollah a ritirarsi dalla Siria colpendo il Libano

Lo Stato libanese è ora preso di mira. Vi è un crescente numero di attentati contro l’esercito libanese dal confine siriano, da quando Hezbollah è intervenuto in Siria. Vi erano già attacchi al Libano prima ancora che Hezbollah intervenisse nel conflitto siriano, ma erano per lo più destinati a provocare Hezbollah. Chi aggredisce lo Stato libanese, approfitta dell’assenza del governo e dell’assenza di leader in diverse istituzioni nazionali, per creare il caos in Libano. Vi sono attacchi contro villaggi sciiti e sunniti nella valle della Beqaa e violenze sono iniziate. E’ chiaro che l’obiettivo è far scontrare sciiti e sunniti. Questo è il motivo per cui Hezbollah ha chiesto agli sciiti della Beqaa di mantenere la calma. Proteste sono scoppiate in Libano. Le violenze di Sidone sono parte di una strategia. L’attacco non provocato di al-Assir contro l’esercito libanese è destinato a far aumentare la pressione sullo Stato libanese e ad esacerbare le tensioni tra sciiti e sunniti. Hezbollah si rifiuta di farsi coinvolgere in una battaglia confessionale in Libano. Mentre il movimento Amal, partito politico sciita alleato di Hezbollah, ha mobilitato le sue milizie e ha iniziato a presidiare le strade del sud e dell’est di Sidone, Hezbollah mantiene la calma. I media di Amal hanno riferito ampiamente degli eventi, anche in modo settario, ma i media di Hezbollah hanno dichiarato calma e ne hanno parlato poco.
Il Libano è al centro del mirino, allo scopo di costringere Hezbollah a ritirarsi dalla Siria, ripiegando all’interno. Essenzialmente, ora è il secondo fronte nel conflitto siriano. Gli Stati Uniti e l’Arabia Saudita hanno probabilmente chiesto alla famiglia Hariri di chiedere ai loro clienti affiliati ad al-Qaida di avviare le violenze in Libano e approfittare della debolezza dello Stato libanese.

 
 
* Mahdi Darius Nazemroaya è sociologo e ricercatore associato del Centro per la Ricerca sulla Globalizzazione (CRG). Attualmente riferisce dal Libano. Era a Sidone durante gli scontri e il dispiegamento delle forze armate libanesi.

 

Traduzione di Alessandro Lattanzio

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L’UTOPIA GEOPOLITICA DELL’ “IMPERO LATINO”

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Il Mar Mediterraneo, come topos del rapporto tra Europa e Vicino Oriente e con una naturale vocazione geopolitica di crocevia tra Nord e Sud del mondo, si presenta oggi al centro di un processo storico che vede un’ingerenza di attori atlantici, di natura “oceanica”.

Seguendo lo storico Mollat du Jourdin possiamo distinguere «due Mediterranei europei»,[i] cioè “due mari tra le terre” nel continente europeo. Di quello a nord aperto all’Oceano e «totalmente europeo»[ii] lo storico francese scrive: «i mari del Nord-ovest e del Nord europeo ritrovarono la loro vocazione ad essere il dominio del profitto e del potere, vocazione per altro mai dimenticata»;[iii] del Mediterraneo a sud, con il suo appellativo di mare nostrum, egli scrive che la sua natura sta nell’essere «un mare se non chiuso ad ogni modo incluso in un universo politico, dapprima unico, e centrato sull’Europa, e in seguito esteso all’Africa».[iv] Questo secondo Mediterraneo collocato nel Mezzogiorno dell’Europa si trova in una posizione geografica euro-afroasiatica che lo distingue da quello settentrionale sotto l’aspetto culturale ed antropologico conferendogli un carattere di unicità: «un mare su cui si affacciano tre continenti e tre religioni monoteistiche che non sono mai riuscite a prevalere l’una sull’altra».[v] Danilo Zolo osserva infatti che questo luogo sincretico di culture, popoli ed etnie differenti «come tale non è mai stato monoteista» e si presenta anzi come un «pluriverso irriducibile di popoli e di lingue che nessun impero mondiale oceanico può riuscire a ridurre ad unum».[vi] Nella misura in cui tale pluriverso ha un’unità storico-geografica ma non politica, economica e militare, la “deriva oceanica” del Mediterraneo si verifica attraverso un processo di erosione della sua unità, e sottrazione della suo spazio di autonomia geopolitica a favore di attori diversi da quelli dell’Europa mediterranea e del mondo arabo-musulmano.[vii] Questa considerazione geopolitica sull’unità del pluriverso mediterraneo deve essere congiunta con un’altra più specificamente storico-politica relativa alla crisi dello Stato-nazione, che Habermas, nel 1996, svolgeva nel seguente modo: «la sovranità degli stati nazionali si ridurrà progressivamente a guscio vuoto e noi saremo costretti a realizzare e perfezionare quelle capacità d’intervento sul piano sopranazionale di cui già si vedono le prime strutture. In Europa, Nordamerica e  Asia stanno infatti nascendo organizzazioni soprastatali per regimi continentali che potrebbero offrire l’infrastruttura necessaria alla tuttora scarsa efficienza delle Nazioni Unite».[viii] Le entità sovrastatali a cui fa riferimento il liberale Habermas, apologeta dell’operato dell’Onu e dell’Ue, non sono le stesse delineate dal filosofo hegeliano Alexandre Kojève. Tuttavia la diagnosi dell’idea di Stato-nazione, assieme alla prima considerazione sull’unità del pluriverso mediterraneo, costituisce il punto di avvio dell’intuizione geopolitica del filosofo russo-francese nel suo L’impero latino. Progetto di una dottrina della politica francese (27 agosto 1945). Questo Esquisse d’une doctrine de la politique française fu pubblicato in versione dimidiata solo nel 1990 sulla rivista diretta da Bernard-Henry Lévy («La Regle du Jeu», I, 1990, 1). Su questo testo, pubblicato integralmente in italiano nel 2004 all’interno di una raccolta di scritti di Kojève intitolata Il silenzio della tirannide, anche il filosofo italiano Giorgio Agamben ha recentemente richiamato l’attenzione[ix]; tuttavia esso è passato pressoché inosservato all’interno dell’ideologia europeista dominante.

La stesura di questo abbozzo di dottrina geopolitica francese avvenne nell’agosto 1945, e trasse occasione dalla cooptazione di Kojève da parte di un suo ex-allievo nei negoziati dell’Avana per la creazione del GATT.[x] Due sono le preoccupazioni che Kojève espone all’inizio del suo scritto, e sono strettamente legate alle immediate circostanze storiche francesi: una, più remota, era quella relativa allo scoppio di una terza guerra mondiale in cui il suolo francese sarebbe potuto diventare campo di battaglia tra russi e anglosassoni; l’altra, più concreta, era costituita dalla crescita del «potenziale economico della Germania», per cui l’«l’inevitabile integrazione di questo paese – che si tenterà di rendere “democratico” e “pacifico” – all’interno del sistema europeo comporterà fatalmente la riduzione della Francia al rango di potenza secondaria».[xi] Il quadro giuridico-politico internazionale sul quale si delinea l’analisi di Kojève è quello della progressiva crisi dello Stato-nazione, prodotto dalla modernità politica a vantaggio di «formazioni politiche che fuoriescono dai limiti nazionali».[xii] Lo Stato moderno per poter essere politicamente efficace deve, in questo mutato quadro geopolitico, poter poggiare su una «vasta unione “imperiale” di nazioni imparentate».[xiii] A provare tale tendenza secondo Kojève sarebbe anche l’insufficienza dello sviluppo militare, sempre più determinata dai limiti economici e demografici su scala nazionale che rendono impossibile la gestione di eserciti in una fase post-nazionale. Ma il limite è evidentemente nell’idea stessa di Stato-nazione.

Nella lettura storica che egli diede della sconfitta del Reich tedesco viene messa in rilievo l’impossibilità da parte di uno Stato di preservare un’esistenza politica sulla limitata base di uno Stato-nazione e con la sua connessa «ideologia nazionalista».[xiv] Da questo punto di vista nella sua analisi, similmente a quella svolta dal secondo Carl Schmitt, interessato all’idea di Grossraum sul piano internazionale, vi è «la consapevolezza del deperimento della sovranità statuale».[xv] La stessa diagnosi dell’idea e della realtà storica dello Stato-nazione è data oggi da Alain de Benoist, per il quale l’unità artificiale dello Stato-nazione è diventata ormai un’istanza di mediazione inefficace tra le tendenze centrifughe di regionalismi e irredentismi etnolinguistici dal basso e la pressione dei mercati mondiali dall’alto.[xvi]

Secondo Kojève l’erosione dell’efficacia politica dello Stato-nazione si poté già scorgere da un lato nel liberalismo borghese, che affermava il primato della società di individui sull’autonomia politica dello Stato, dall’altro nell’internazionalismo socialista, che pensava di realizzare il trasferimento della sovranità delle nazioni all’umanità.[xvii] Secondo il filosofo francese, se la prima teoria si caratterizzò per miopia nel non vedere un’entità politica sovranazionale, la seconda fu ipermetrope nel non scorgere entità politiche al di qua dell’umanità. Kojève intuì che la nuova struttura politica statale che si stava configurando sarebbe costituita da imperi intesi come «fusioni internazionali di nazioni imparentate».[xviii] Da un punto di vista storico-filosofico il Weltgeist hegeliano, prima di poter incarnarsi nell’umanità, sembra dover assumere la forma dell’Impero,[xix] senza con ciò rinunciare alla propria teleologia di una metempsicosi cosmostorica tesa ad una comunità mondiale. Una concreta realizzazione storica di un’entità politica sorretta dalla mediazione tra universalismo e particolarismo geopolitico sarebbe stata rappresentata dall’«imperial-socialismo» di Stalin, che si contrappose sia all’astratto Stato-umanità di Trotzki, sia al particolarismo del nazional-socialismo tedesco.

All’imperial-socialismo sovietico, o impero slavo-sovietico, si contrappose un’altra efficace entità politica che Kojève qualifica come imperiale: l’«impero anglo-americano».[xx] Nell’acuta analisi precorritrice del filosofo francese, la «Germania del futuro», estinguendosi come Stato-nazione caratterizzato da esclusivismo geopolitico ed autonomia politica in base al principio postvestfaliano dello Stato come superiorem non reconoscens,[xxi] «dovrà aderire politicamente all’uno o all’altro di questi imperi».[xxii] Da un punto di vista culturale-religioso, la parentela che egli individua tra anglosassoni e tedeschi si fonderebbe sull’ispirazione protestante comune. Il problema che si pose Kojève fu dunque specificamente geopolitico e tuttora assolutamente attuale: scongiurare la riduzione della Francia a «hinterland militare ed economico, e quindi politico, della Germania, divenuta avamposto militare dell’impero anglosassone».[xxiii] L’orientamento della Germania verso l’impero anglo-americano si sarebbe potuto osservare negli sviluppi storici e geopolitici successivi.

Ma nell’analisi dell’hegeliano francese, il problema della riduzione della sovranità coinvolgerebbe conseguentemente le altre nazioni dell’Europa occidentale «se si ostineranno a mantenersi nel loro isolamento politico “nazionale”».[xxiv] Il progetto politico proposto da Kojève è teso quindi alla creazione di una terza potenza tra quella ortodossa slavo-sovietica e quella protestante germano-anglo-sassone: un impero latino alla cui testa possa porsi la Francia al fine di salvaguardare la propria specificità geopolitica assieme a quella di altre nazioni latine, minacciate da un bipolarismo mondiale che preme su uno spazio mediterraneo da oriente e da occidente.

La vocazione di tale progetto imperiale non potrebbe però avere un carattere imperialistico, perché non sarebbe capace di un sufficiente potere offensivo verso gli altri due imperi, ma avrebbe piuttosto la funzione di preservare la pace e l’autonomia geopolitica di un’area che si sottrae al pericolo di egemonie imperialistiche esterne impedendo che il proprio spazio diventi campo di battaglia di Asia e Pacifico.[xxv] L’analisi della situazione della Francia svolta da Kojève rivela però alcune precise difficoltà di realizzazione di questo progetto politico. Secondo il filosofo francese alla «fine del periodo nazionale della storia»[xxvi], che peraltro la Francia faticherebbe a riconoscere, si aggiunge un processo di «spoliticizzazione» del Paese, cioè di perdita della volontà politica ed una conseguente decadenza sotto il piano sociale, economico e culturale. Un progetto sovranazionale implica un dinamismo diplomatico e uno sforzo di mediazione culturale di cui i paesi latini si devono assumere l’impegno. La parentela che Kojève scorge tra le nazioni latine come Francia, Italia e Spagna, e che costituisce l’elemento coesivo di un progetto di entità politica postnazionale, è caratterizzato da un punto di vista culturale da «quell’arte del tempo libero che è l’origine dell’arte in generale».[xxvii] Tale peculiarità dell’«Occidente latino unificato»[xxviii] sarebbe un aspetto identitario omogeneo ai Paesi latini e rimarrebbe ineguagliato dagli altri due imperi. Per questa ragione antropologico-culturale Danilo Zolo può affermare che «l’area mediterranea vanta la più grande concentrazione artistica del mondo».[xxix]

Più in generale, secondo Kojève la formazione di entità politiche imperiali dopo lo Stato-nazione è rafforzata dalla coesione di queste nazioni imparentate con le Chiese più o meno ufficiali ad esse corrispondenti.[xxx] Questa parentela o unione latina può diventare un’entità politica reale solo formando un’autentica unità economica, condizione materiale di esistenza di tale progetto sovranazionale. Ben lungi dall’essere un vettore di conflitto, tale impero latino potrebbe garantire un’intesa politicamente efficace tra culture diverse ma unite nello stesso spazio di appartenenza e comunità di destino. È su questa identità geopolitica comune che è possibile pensare ad un efficace antidoto contro l’idea di clash of civilizations, costitutivamente estranea all’area mediterranea: «un’intesa tra la latinità e l’islam – scrisse Kojève – renderebbe singolarmente precaria la presenza di altre forze imperiali nel bacino mediterraneo».[xxxi]

Da questo punto di vista identitario-culturale, la considerazione sull’esigenza di unità economica nell’area latina delineata dal filosofo francese è ben lontana dal liberalistico primato dell’economico sul politico che si è affermato ed istituzionalizzato successivamente nell’Unione europea. L’unione economica dei Paesi latini è infatti pensata solo come condizione, mezzo dell’unità imperiale latina, non come una sua ragion d’essere, perché il fine ultimo di questa è essenzialmente politico ed è sorretto da un’ideologia specifica. Categoria fondamentale dell’ideologia dell’unità imperiale latina è l’indipendenza e l’autonomia, alla quale si rivelano subordinati altri aspetti come quelli di potenza e di grandezza. Una politica militarista secondo Kojève tradisce una insicurezza e minaccia di instabilità che la formazione di un progetto sovrastatale mediterraneo dovrebbe allontanare: «il militarismo nasce dal pericolo e soprattutto dalla sconfitta, cioè da una debolezza solo probabile o già verificatasi».[xxxii] Per questa ragione il fenomeno di militarismo ed imperialismo viene da Kojève rigettato come «meschino», e spiegato come il riflesso di uno Stato-nazione fragile e non di una struttura politica imperiale.

A tale impero latino dovrà corrispondere un esercito sovranazionale «sufficientemente potente da assicurargli un’autonomia nella pace e una pace nell’autonomia» e non nella dipendenza di uno dei due imperi rivali.[xxxiii] Come già rilevato sopra, la potenza militare dell’impero latino né potrebbe, né dovrebbe avere carattere offensivo, ma piuttosto un carattere difensivo riferito ad una concreta localizzazione nello spazio: «l’idea di un Mediterraneo “mare nostrum” potrebbe e dovrebbe essere il fine concreto principale, se non unico, della politica estera dei latini unificati […] si tratta di detenere il diritto e i mezzi di chiedere una contropartita a coloro che vorranno circolare liberamente in questo mare o di escluderne altri. L’accesso o l’esclusione dovranno dipendere unicamente dall’assenso dell’impero latino grazie ai mezzi di cui esso solo può disporre».[xxxiv] L’isolamento dei singoli paesi latini non li farebbe altro che naufragare sul blocco imperiale anglo-sassone, trasformandoli in «satelliti nazionali»[xxxv] di una delle due formazioni imperiali straniere. Interessante è l’osservazione di Kojève sul pericoloso potenziale di squilibrio geopolitico ed economico che la Germania può costituire rispetto ai Paesi latini e all’Europa intera: «se il pericolo di una Germania nemica sembra essere scongiurato per sempre, il pericolo economico rappresentato da una Germania “alleata” affrontato all’interno di un blocco occidentale che sia un’emanazione dell’impero anglosassone non è affatto chimerico, mentre rimane, anche sul piano politico, incontestabilmente mortale per la Francia»[xxxvi] e per gli altri Paesi latini. L’impero latino come entità politica autonoma potrebbe essere in grado di «opporsi in maniera costante ad un’egemonia continentale tedesca» o anglo-americana.

L’idea di impero latino non deve cioè essere connessa ai limiti di un anacronistico Stato-nazione, ma riferito a «fusioni internazionali di nazioni imparentate»[xxxvii] o «unione internazionale di nazioni imparentate».[xxxviii]

I problemi politici interni che ostacolerebbero il progetto di impero latino in Francia sarebbero secondo Kojève costituiti sia dal «quietismo economico e politico» che paralizza l’intraprendenza politica del Paese, cioè ostacolano «l’attività negatrice del dato, quindi creatrice e rinnovatrice», sia da formazioni partitiche che si rivelano essere «tanto più intransigenti nel loro atteggiamento quanto meno questo è dottrinale».[xxxix] La compresenza di questi due aspetti agirebbe in modo ostativo rispetto al progetto di impero latino, e non possiamo certo dire che oggi, sotto l’esperienza del commissariamento tecnico-economico dei governi e nella caotica frammentarietà di partiti deideologizzati la situazione possa definirsi più idonea sul piano fattuale per la costruzione di un progetto geopolitico sovranazionale alternativo.

Nell’analisi che Kojève svolge sulla possibile collaborazione ed idoneità dei vari partiti politici esistenti in Francia rispetto al progetto di impero latino, di grande rilievo è il rapporto che viene delineato tra formazione imperiale e Chiesa. Nella nascente fase storica di formazione di imperi post-nazionali le Chiese cristiane tra loro separate sembrano abbisognare dell’esistenza di compagini intermedie tra l’umanità e le nazioni.[xl] Si potrebbe quindi osservare un isomorfismo strutturale dal punto di vista geopolitico tra le Chiese separate e le formazioni imperiali: né universalistici, né limitati in un’anacronistica idea di Stato-nazione. La Chiesa cattolica, in questo quadro geopolitico in cui i movimenti imperiali rappresentano l’attualità, acquisirebbe «il patrocinio spirituale dell’impero latino»[xli] e, tenendosi salda alla propria natura di Chiesa potenzialmente universale, ricorderebbe all’impero latino il suo carattere storicamente transitorio all’interno dello sviluppo storico. Il progetto di impero latino nella sua configurazione storica e geopolitica si differenzia dal Grossraum schmittiano per il fatto che esso non esercita, o almeno non primariamente, la funzione di katechon[xlii] perché da un punto di vista geopolitico rappresenta «la forma intermedia tra Vestfalia e Cosmopolis»,[xliii] e sul piano storico «prepara e anticipa lo stato mondiale».[xliv]

Questo progetto per una dottrina geopolitica francese e mediterranea seppur si inquadri in un rapporto di opposizione all’unipolarismo anglo-americano e sia schiettamente orientato in una prospettiva multipolare, dal punto di vista storico-escatologico diventa vettore di realizzazione dell’idea di Stato-umanità secondo l’umanismo filosofico di Kojève.

L’8 maggio di quest’anno, a proposito del progetto geopolitico di questo singolare «marxiste de droite»[xlv], è apparso sulla rivista tedesca Die Welt un articolo che, al contrario di quello di Agamben, non è affatto passato inosservato. Il sociologo tedesco Wolf Lepenies,[xlvi] nella sua risposta al duro documento del Partito socialista francese contro il dogma economico dell’austerità tedesca, chiama in causa la dottrina geopolitica di Kojève di un’unione contro la Germania, che sembrerebbe acquisire fama e simpatie presso la sinistra francese e troverebbe risonanza presso il filosofo italiano Agamben. L’articolo di Lepenies è critico anche verso l’intuizione kojèviana di una Germania che persegue i propri vantaggi economici all’ombra di un blocco euro-atlantista. Tale episodio è significativo sul piano negativo: un articolo di un quotidiano tedesco conservatore di oggi, fondato dalle forze inglesi vincitrici nel 1946, rivolto contro il progetto geopolitico alternativo da un filosofo francese pensato nel dopoguerra non può che assumere rilievo sotto il profilo della teoria geopolitica contemporanea. Il binomio Germania-Eurolandia, col suo potenziale destabilizzante per il continente europeo e in particolare per i paesi mediterranei europei, può essere ridiscusso solo a partire dalla critica al suo fondamento geopolitico euro-atlantista, come intuì Kojève all’indomani della Seconda Guerra Mondiale.

 
 
 





[i] MOLLAT DU JOURDIN M., L’Europa e il mare dall’antichità ad oggi, Laterza, Roma-Bari, 2004, p. 14.

[ii] Ivi, p. 29.

[iii] Ivi, p. 66.

[iv] Ivi, p. 29.

[v] ZOLO D., Per un dialogo fra le culture del Mediterraneo in AA. VV., Mediterraneo. Un dialogo tra le sponde, a cura di F. Horchani e D. Zolo, Jouvence, Roma, 2005, p. 18.

[vi] Ibidem.

[vii] Cfr. ZOLO D., La questione mediterranea, in AA. VV., L’alternativa mediterranea, a cura di F. Cassano e D. Zolo, Feltrinelli, Milano, 2007, pp. 18-21. Cfr. anche l’interessante intervista di Alain de Benoist rivolta a Danilo Zolo su questo tema reperibile nel seguente sito: http://www.juragentium.org/topics/med/it/benoist.htm.

[viii] HABERMAS J., Lo stato-nazione europeo. Passato e futuro della sovranità e della cittadinanza in ID., L’inclusione dell’altro. Studi di teoria politica, Feltrinelli, Milano, 1998, pp. 120-121.

[ix] Il titolo dell’articolo di Giorgio Agamben apparso su Repubblica il 15 marzo di quest’anno si intitola “Se un impero latino prendesse forma nel cuore dell’Europa”, ed è reperibile nel seguente sito:  http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2013/03/15/se-un-impero-latino-prendesse-forma-nel.html.

[x] TEDESCO F., L’impero latino e l’idea di Europa. Riflessioni a partire da un testo (parzialmente) inedito di Alexandre Kojève, in AA. VV., Quaderni fiorentini per la storia del pensiero moderno, vol. XXXV, Giuffrè Editore, Milano, 2006, p. 379.

[xi] KOJÈVE A., L’impero latino. Progetto di una dottrina della politica francese, in ID., Il silenzio della tirannide, Adelphi, Milano, 2004, p. 163.

[xii] Ivi, p. 164.

[xiii] Ivi, p. 165.

[xiv] Ivi, pp. 167-168.

[xv] TEDESCO F., L’impero latino e l’idea di Europa. Riflessioni a partire da un testo (parzialmente) inedito di Alexandre Kojève, in op. cit., p. 393.

[xvi] Cfr. DE BENOIST A., L’idea di Impero, in AA. VV., Eurasia. Rivista di studi geopolitici, n.° 1/2013.

[xvii] KOJÈVE A., L’impero latino. Progetto di una dottrina della politica francese, in op. cit., pp. 168-169.

[xviii] Ivi, p. 169.

[xix] Ivi, p. 170.

[xx] Ivi, p. 171.

[xxi] ZOLO D., Globalizzazione. Una mappa dei problemi, Laterza, Roma-Bari, 2009, p. 68.

[xxii] KOJÈVE A., L’impero latino. Progetto di una dottrina della politica francese, in op. cit., p. 172.

[xxiii] Ivi, p. 173.

[xxiv] Ivi, p. 174.

[xxv] Ivi, p. 175.

[xxvi] Ivi, p. 179.

[xxvii] Ivi, p. 183.

[xxviii] Ivi, p. 184.

[xxix] ZOLO D., La questione mediterranea, in AA. VV., L’alternativa mediterranea, op. cit., p. 17.

[xxx] KOJÈVE A., L’impero latino. Progetto di una dottrina della politica francese, in op. cit., p. 185.

[xxxi] Ivi, p. 188.

[xxxii] Ivi, p. 193.

[xxxiii] Ibidem.

[xxxiv] Ivi, p. 195.

[xxxv] Ivi, p. 196.

[xxxvi] Ivi, p. 197.

[xxxvii] Ivi, p. 169.

[xxxviii] Ivi, p. 181.

[xxxix] Ivi, p. 198.

[xl] Ivi, p. 208.

[xli] Ivi, p. 209.

[xlii] SCHMITT C., Il nomos della terra nel diritto internazionale dello “jus publicum europaeum”, a cura di Franco Volpi, Adelphi, 2003, p. 42 e sgg.

[xliii] TEDESCO F., L’impero latino e l’idea di Europa. Riflessioni a partire da un testo (parzialmente) inedito di Alexandre Kojève, in op. cit., p. 394.

[xliv] Ivi, p. 398.

[xlv] AUFFRET D., Alexandre Kojève, La philosophie, l’État, la fin de l’Histoire, Paris, Grasset, 1990, p. 423, cit. in TEDESCO F., L’impero latino e l’idea di Europa. Riflessioni a partire da un testo (parzialmente) inedito di Alexandre Kojève, in op. cit., p. 401.

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ENTRETIEN AVEC GEORGES CORM – PANORAMA DU MOYEN-ORIENT

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Propos recueillis par Sixtine de Thé, à Beyrouth

George Corm, économiste libanais, est un des éminents spécialistes du Moyen-Orient et de la Méditerranée. Outre son statut de consultant économique et financier international, il est professeur depuis 2001 à l’Université Saint-Joseph de Beyrouth, dans le cursus des sciences politiques. Ses ouvrages les plus célèbres sont L’Europe et l’Orient (La Découverte) ; Orient-Occident, la fracture imaginaire (La Découverte) ; La question religieuse au XXIè siècle (La Découverte) ; Le nouveau gouvernement du monde, idéologie, structures, contre-pouvoirs (La Découverte) ; Pour une lecture profane des conflits (La Découverte) ; Le Proche-Orient éclaté 1956-2012, 2 volumes (Folio/histoire). Ils sont traduits en plusieurs langues.

 

 

Le Moyen-Orient est en pleine recomposition. Comment expliquez-vous cette évolution ? Etait-elle en germe, et depuis quand ?

Il y a beaucoup d’observateurs qui pensent en effet que nous sommes dans l’ère de la fin des accords franco-britanniques dits Sykes-Picot (1916) qui ont balkanisé ce qu’on appelait, au début du siècle passé, les provinces arabes de l’Empire ottoman. Ou d’autres qui parlent de période de transition de régimes autoritaires vers des régimes de type démocratique. Je pense que dans les deux cas, nous sommes loin de tels scénarios. En effet, la remise en cause des Etats existants paraît quand même assez difficile, sauf à généraliser des situations de chaos partout. Si nous prenons le modèle syrien, ou éventuellement le modèle libyen où il y a emploi massif d’armes venues de l’extérieur, à la limite on peut dire qu’il y a des zones d’influences qui se mettent en place sous l’égide des grands acteurs régionaux et internationaux. Mais enfin je ne vois pas d’Etats disparaître de la carte et de nouveaux Etats être créés et reconnus, comme cela a pu être le cas avec l’ex-Yougoslavie. Probablement si nous étions en contact géographique direct avec l’Europe, ceci aurait pu arriver, mais sur l’autre rive de la Méditerranée cela paraît quand même nettement plus difficile. D’un autre côté, pour ce qui est de la transition vers la démocratie, le problème qui se pose aujourd’hui est essentiellement celui de la nature des mouvances islamiques sur lesquelles les milieux européens et américains ont misé depuis bien des années. Ces mouvances, trop souvent idéalisées, ont désormais montré leur vrai visage, celui d’un autoritarisme et d’un désir de contrôle des libertés individuelles.

Nous avons donc un problème aigu, important, qui va déterminer l’avenir : est-ce que les mouvances de type modernistes, laïques ou attachées aux libertés individuelles et qui refusent le référent religieux dans le fonctionnement d’un système politique vont pouvoir s’affirmer face aux mouvances islamiques ? On peut être inquiet si l’on prend en compte le fait que ces dernières jouissent jusqu’ici de l’appui total de l’Occident et qu’elles bénéficient en outre de très importants financements en pétrodollars, en provenance des royautés et émirats pétroliers alliés des Etats-Unis et de l’Europe. Ce sera donc une très longue bataille, très intéressante. C’est cette bataille qui va décider du sort du monde arabe et de la possibilité pour ces pays arabes d’établir non seulement de véritables règles démocratiques, mais aussi une véritable indépendance par rapport aux forces régionales et internationales.

 

 

Concernant la crise syrienne, de nombreux acteurs sont impliqués (Qatar, Arabie Saoudite, Turquie, Israël). Pourquoi ?

Mais vous avez oublié dans cette liste la France, l’Angleterre, les Etats-Unis ! J’ai eu l’occasion d’expliquer dans diverses interviews que dès le départ, il y a une différence fondamentale entre la révolte syrienne et ce qui s’est passé en Tunisie, en Egypte et au Yémen. En Syrie, vous aviez un malaise rural important depuis 2007, du fait d’une série d’années de sècheresse, puis du fait que le gouvernement a voulu faire plaisir au Fonds Monétaire International et aux pays occidentaux, et qui s’est mis à supprimer pas mal des subventions dont jouissait l’agriculture. Les observateurs de terrain en Syrie savaient que le monde rural, autrefois très privilégié par le régime et qui avait longtemps constitué sa base essentielle, commençait vraiment à connaître un état de mécontentement grandissant.

Quand vous regardez où ont eu lieu les manifestations en Syrie, quelle était la composition sociale des manifestants et quel était leur nombre, on voit bien qu’ils étaient des ruraux pauvres dans des régions rurales pauvres périphériques, situées aux frontières avec la Jordanie et la Turquie. Les images parlaient d’ailleurs d’elles-mêmes. Elles contrastaient avec les grandioses manifestations de masse, tunisiennes, yéménites ou égyptiennes, où tous les groupes sociaux et toutes les classes d’âge étaient au rendez-vous. On a très vite assisté à l’arrivée d’armes aux mains des groupes d’opposants qui se sont constitués sur le terrain. De plus, il y a eu le déchaînement d’une guerre médiatique absolument spectaculaire contre le régime syrien. Or, les manifestations de masse en Syrie ont eu lieu en faveur du régime et contre l’opposition armée ; dans ces manifestations on a vu toutes les classes sociales, tous les groupes d’âge et de très nombreuses femmes…

C’est donc une différence absolument fondamentale par rapport aux autres situations de révoltes dans le monde arabe. Par ailleurs, l’armée ne s’est nullement effondrée et elle a fait face avec de plus en plus de détermination et de violence à l’arrivée, de l’international, de combattants qu’on appelle à tort Djihadistes, parce que lorsque des musulmans tuent d’autres musulmans, cela n’est pas un djihad. On a donc eu en Syrie un scénario qui s’est mis en place qui est en train d’aboutir à une destruction systématique de la société syrienne et de sa richesse matérielle (infrastructures, habitations, potentiel industriel). C’est une répétition de ce que la communauté internationale a fait subir à l’Irak et demain nous verrons – comme cela s’est passé en Irak ou auparavant au Liban – que sous prétexte de reconstruction, le pays sera pillé par des grosses entreprises de BTP arabes ou turques ou internationales. On a déjà vu cela au Liban où, au sortir des quinze ans de violence entre 1975 et 1990, le pays a été enfoncé dans une dette invraisemblable et où après vingt-deux ans de reconstruction il n’y a toujours pas d’eau ou d’électricité courantes ! Et en Irak, malgré son énorme richesse pétrolière, les grandes infrastructures d’eau et d’électricité ne sont toujours pas complètement reconstruites. Il faut donc s’attendre à un même scénario en Syrie.

Par ailleurs, il faut bien voir que les données internes syriennes sont tout à fait secondaires dans le conflit, car la Syrie est devenue un champ d’affrontement colossal entre, d’un côté les deux grandes puissances montantes, la Chine et la Russie, ainsi que l’Iran, et de l’autre les pays occidentaux, l’OTAN… dont le but est très clairement de faire sauter les derniers verrous anti-israéliens de la région, ces derniers verrous étant essentiellement constitués de l’axe Iran-Syrie-Hezbollah qu’on appelle, pour le dénigrer et pour donner dans le sensationnel, « l’arc chiite ». Beaucoup d’analyses se font à base de sensationnel communautaire qui est instrumentalisé pour faire croire que le conflit est entre chiites et sunnites à l’échelle régionale, alors qu’il s’agit d’un problème de géopolitique très profane. Il y a aussi des considérations pétrolières et gazières qui entrent en jeu.

 

 

Pensez-vous qu’un embrasement régional pourrait avoir lieu dans le contexte de la crise syrienne, notamment au Liban ?

Déjà en 2007, dans la revue Futurible, j’avais évoqué un scénario de troisième guerre mondiale éventuelle, déclenchée autour la question du développement de la capacité nucléaire iranienne. Car les passions anti-iraniennes étaient déjà d’une virulence peu commune qui n’a pas baissé de registre. Le reproche fait à l’Iran étant sa rhétorique anti-israélienne et surtout son aide au Hezbollah libanais passant par la Syrie. Aussi, l’axe Iran, Syrie, Hezbollah est-il considéré depuis des années comme à abattre dans les milieux de l’OTAN. Or, il faut bien voir que même si cet axe est réduit ou affaibli ou disparaît, il rebondira ou sera reconstitué différemment, et ceci tant que l’Etat israélien continuera de se comporter comme il se comporte vis-à-vis des Palestiniens qui continuent d’être dépossédés de ce qu’il leur reste de terre, mais aussi vis-à-vis des Libanais qu’ils ont énormément fait souffrir entre 1968 (date du premier bombardement contre le pays) et 2000, lorsque l’armée israélienne est forcée de se retirer du pays après 22 ans d’occupation, puis tente en 2006 de supprimer le Hezbollah par une série de bombardements massifs qui durent 33 jours.

On a déjà assisté, à plusieurs reprises, à l’espoir d’avoir « débarrassé » le Moyen-Orient des forces hostiles à la domination israélo-américaine de la région. Ils ont tous été déçus. Cela a été le cas lors de la seconde invasion du Liban par Israël en 1982, qui a abouti à l’exil de l’OLP en Tunisie et dans d’autres pays loin des frontières israéliennes. Puis, cela a été le cas avec la conférence de Madrid et les accords israélo-palestiniens d’Oslo en 1993. Enfin cela a recommencé avec l’invasion de l’Irak en 2003 qui a fait penser que le Moyen-Orient serait en paix grâce à l’élimination de Saddam Hussein. C’est pour cela que je parle des « passions » américaines et européennes en faveur d’Israël, qui empêchent toute possibilité raisonnable de rendre aux Palestiniens leurs droits. Tant que cette situation n’est pas réglée conformément aux lois internationales, et non pas par la force, le Moyen-Orient va rester en ébullition avec tous ces risques d’affrontements dont nous parlons, et qui peuvent effectivement s’embraser.

Ceci dit, il faut bien voir que dans ces passions, la folie n’est pas totale, c’est-à-dire que les Etats-Unis, après des déploiements militaires qui leur ont coûté énormément (Afghanistan et Irak) et où curieusement ils ne sont pas venus à bout de Al Qaïda, n’ont plus envie d’aventures militaires extérieures. Ce qui est une bonne chose. Maintenant, ils ont trouvé des relais régionaux qui sont notamment la Turquie, qui avait l’air prête à se battre jusqu’au bout contre la Syrie, quatre ans seulement après avoir signé des accords de coopérations, d’amitiés, de fraternité, de libre échange avec ce pays. Ils ont trouvé également les pétrodollars qui financent les armées de combattants venus de l’extérieur.

L’on s’attendait, dans ces Etats intervenants extérieurs, à ce que l’armée syrienne s’effondre rapidement et tout le régime avec. Mais cela n’est pas arrivé, à la surprise générale de tous ceux qui connaissaient très mal le contexte syrien. Et aujourd’hui, l’armée semble reprendre le dessus militairement. Toutefois, tant que le gouvernement syrien ne pourra pas contrôler ses frontières, qui sont très longues avec la Turquie, l’Irak, la Jordanie et le Liban, les combats et la destruction de la Syrie vont continuer. Quant à ce projet de conférence à Genève, ce n’est qu’un mauvais théâtre. Il me rappelle celui d’il y a quarante ans, lorsque les soviétiques réclamaient une conférence internationale sur la Palestine à laquelle ils se seraient associés. Or, il n’y a eu qu’une seule séance orpheline d’apparat, les Américains et les Israéliens ne souhaitant pas accorder de l’influence à l’URSS dans ce conflit. Donc je suis très sceptique face à ce projet de conférence. Jusqu’ici, nous voyons des rencontres américano-russes sur la Syrie pour organiser une conférence entre les parties au conflit, mais sitôt la réunion terminée, les déclarations des parties au conflit contredisent la volonté d’apaisement.

Concernant les retombées sur le Liban, elles sont très intéressantes. Le gouvernement libanais a prétendu sagement vouloir rester neutre dans le conflit syrien. Ceci en application du slogan qui existe depuis des années : « le Liban d’abord ». Il s’agit d’ailleurs d’un slogan que même l’OLP avait adopté après sa sortie de Beyrouth en 1982 en vertu duquel « la Palestine d’abord ». On le trouve aussi en Irak après l’invasion américaine et on l’entend dans les milieux de l’opposition syrienne. Or, l’on a vu combien ce slogan a abouti à affaiblir les dirigeants de l’OLP qui sont impuissants devant la colonisation, mais à affaiblir aussi l’Irak.

Au Liban, ceux qui ont porté ce slogan ne l’appliquent pas, puisqu’ils sont les premiers à s’impliquer militairement par l’envoi de combattants dans la situation syrienne, de même que le Hezbollah le fait, l’arrivée de son armement dépendant largement de la survie du régime syrien, et donc aussi à terme sa propre survie. C’est pourquoi je pense que l’insécurité va demeurer sur toutes les zones géographiques libanaises limitrophes à la Syrie, puisque les combattants vont et viennent. Tout cela alors que l’armée israélienne est toujours surpuissante et a vraisemblablement des velléités d’intervenir à nouveau au Liban dans l’espoir de réussir à faire disparaître le Hezbollah. Cependant, je ne pense pas que l’insécurité va se propager sur tout le territoire. Certes, il y a à Saïda ce cheikh salafiste, radical et anti-Hezbollah qui veut faire le coup de feu contre ce parti. Il est brusquement apparu sur la scène libanaise depuis un an, vraisemblablement financé par les pétrodollars saoudien ou Qatari. La ville de Saïda connaît donc une période troublée, mais dans l’ensemble, la population de la ville est calme, à l’inverse de la ville de Tripoli, qui peut se laisser gagner par le radicalisme islamique. Par contre, plus inquiétant est le délitement des institutions de l’Etat. Mais le Liban sait s’autogérer.

 

 

Que pensez-vous de la situation du pouvoir hachémite en Jordanie ?

Je crois que les Israéliens doivent continuer à se gratter la tête : faut-il essayer de faire un Etat palestinien en Transjordanie, ce qui est un vieille idée d’Ariel Sharon pour régler le problème palestinien, et ce qui permettrait du même coup d’expulser les Palestiniens restés dans ce qui est devenu le territoire d’Israël. Ou bien faut-il mieux conserver cet allié fidèle des Etats-Unis qu’est la monarchie jordanienne, qui garantit la sécurité de la frontière avec Israël. Mais comme je ne suis pas dans le secret de la pensée stratégique israélienne, je n’ai pas de réponse.

 

 

Après le deuxième mandat de Barack Obama, voit-on un repositionnement de la politique américaine concernant le Moyen-Orient ?

Non, quand on regarde les Etats-Unis et qu’on cherche à déterminer leurs objectifs principaux, on constate ceci : un, la sécurité d’Israël, et donc qu’Israël puisse continuer de coloniser comme elle le fait depuis 1967. Deux, empêcher l’Iran d’avoir l’armement nucléaire. Dans le sillage évidemment, démanteler l’axe Iran-Syrie-Hezbollah, et ce toujours pour la sécurité d’Israël. Et puis, le contrôle des routes d’approvisionnement pétrolier, et le maintien de l’hégémonie que l’Europe a eu puis que les Etats-Unis ont de concert avec l’Europe sur toute cette zone hautement stratégique pour l’économie et la géopolitique mondiales. C’est très simple à décrypter. Quand Barack Obama a fait son célèbre discours au Caire en 2009, il était dans la droite ligne de la politique américaine traditionnelle, il n’en a pas bougé d’un iota. Ce n’est pas le fait d’inclure la citation de deux versets du Coran dans le texte du discours qui exprime un changement de politique, ce que peut être certains ont naïvement pensé ! Mais simplement les Etats-Unis, comme je disais, sont aujourd’hui beaucoup plus prudents, et cet Etat n’a pas envie de nouvelles aventures militaires extérieures, ce qui est le facteur qui calme le jeu. En tous cas, entre la politique du président George W. Bush et celle de Barack Obama, les mêmes constantes sont affirmées. Lors de son récent voyage en Israël, ce dernier a prononcé des paroles inconditionnellement favorables à l’Etat d’Israël et à sa politique, comme l’ont fait tous les présidents successifs, à l’exception d’Eisenhower et plus accessoirement George Bush père et son ministre des Affaires étrangères, James Baker, qui a protesté énergiquement contre la continuation de la colonisation et a même annulé des aides américaines à l’Etat d’Israël.

 

Les Clés du Moyen-Orient , 21 juin 2013.

 

http://www.silviacattori.net/article4581.html

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EDWARD SNOWDEN E ALTRI ‘SPIFFERATORI’ DEGLI USA

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William Blum, The Anti-Empire Report -118, 26 giugno 2013

 

Edward Snowden

Nel corso della sua vita professionale nel mondo della sicurezza nazionale, Edward Snowden deve aver affrontato numerose interviste d’indagine, esami con la macchina della verità ed estremamente dettagliati controlli personali, così come la compilazione di infiniti moduli accuratamente progettati per catturare ogni tipo di menzogna o incoerenza. Il Washington Post (10 giugno) ha riferito che “alcuni funzionari hanno detto che la CIA ora, senza dubbio, inizierà a rivedere il processo con cui Snowden è stato assunto, cercando di determinare se fossero stati trascurati dei segnali che un giorno avrebbe tradito i segreti nazionali.”

Sì, c’era un segnale che hanno ignorato, Edward Snowden aveva qualcosa dentro di lui, una forma di coscienza, soltanto in attesa di una causa. E’ stato lo stesso per me. Andai a lavorare presso il dipartimento di Stato, allo scopo di diventare un funzionario del servizio esteri, con le migliori, le più patriottiche, intenzioni, facendo del mio meglio per uccidere la bestia della Cospirazione Comunista Internazionale. Ma poi l’orrore quotidiano di ciò che gli Stati Uniti facevano al popolo del Vietnam entrò a casa mia tramite ogni tipo di media, e ciò mi addolorava. La mia coscienza aveva trovato la sua causa, e nulla di ciò che risposi all’intervista di pre-assunzione avrebbe allertato i miei interrogatori del possibile pericolo che ponevo, perché non lo sapevo io stesso. Nessuna domanda dei miei amici e parenti avrebbe suscitato il minimo accenno del radicale attivista contro la guerra che sarei diventato. I miei amici e parenti dovevano essere sorpresi quanto lo ero io di esserlo. Non c’era alcun modo per l’ufficio di sicurezza del dipartimento di Stato di sapere che non avrei adottato e celato un tale segreto. (1)

Così cosa può farci un povero Stato di sicurezza nazionale? Beh, potrebbe prendere in considerazione il proprio comportamento. Smettere di fare tutte le cose terribili che rattristano  persone come me, Edward Snowden e Bradley Manning, e tanti altri. Fermare i bombardamenti, le invasioni, le guerre infinite, le torture, le sanzioni, i golpe, il sostegno alle dittature, il sostegno assoluto ad Israele, fermare tutte le cose che rendono gli Stati Uniti tanto odiati, creando tutti questi terroristi anti-americani che costringono lo Stato di Sicurezza Nazionale, per pura autodifesa, a spiare il mondo intero.

 

 

Origliare il pianeta

Quanto sopra è il titolo di un saggio che ho scritto nel 2000, apparso in un capitolo nel mio libro Con la scusa della libertà: Guida all’unica superpotenza del mondo. Ecco alcuni stralci che possono aiutare a mettere le attuali rivelazioni di Edward Snowden in prospettiva…

Le persone del 21° secolo possono immaginare una maggiore violazione della privacy su tutta la terra, di tutta la storia? Se è così, non devono che aspettare che la tecnologia sia al passo con la loro immaginazione. Come un mega-aspirapolvere nel cielo, la National Security Agency (NSA) succhia di tutto: il telefono di casa, telefono d’ufficio, telefono cellulare, email, fax, telex… trasmissioni satellitari, il traffico delle comunicazioni su fibra ottica, ponti radio… voce, testi, immagini… vengono continuamente captati dai satelliti in orbita sulla Terra, poi elaborati dai computer ad alta potenza… se funziona con l’energia elettromagnetica, la NSA è lì, con l’altissima tecnologia.  Ventiquattro ore al giorno. Forse miliardi di messaggi vengono aspirati ogni giorno. Nessuno sfugge. Non i presidenti, primi ministri, il Segretario Generale, il Papa, la regina d’Inghilterra, le ambasciate, gli amministratori delegati delle multinazionali, amici, nemici, tua zia Nina… se Dio ha un telefono, è monitorato… forse il vostro cane non può essere spiato. Gli oceani non ti proteggeranno. I sottomarini statunitensi per decenni hanno cablato con dei pod d’intercettazione i cavi sottomarini.

Nel sistema denominato ECHELON, avviato negli anni ’70, la NSA e i suoi partner minori di Gran Bretagna, Australia, Nuova Zelanda e Canada gestiscono una rete di stazioni d’intercettazione di massa, altamente automatizzate, che copre il globo intorno a loro. Qualsiasi parte può chiedere a tutte le altre di intercettare le proprie comunicazioni interne. Si può quindi affermare in verità che non si spiano i propri cittadini.

A parte gli individui e le istituzioni presi di mira specificatamente, il sistema ECHELON funziona indiscriminatamente intercettando grandi quantità di comunicazioni e utilizzando i computer per individuare ed estrarre i messaggi interessanti dalla massa degli indesiderati. Ogni messaggio intercettato, tutti i cablo d’ambasciata, le offerte di lavoro, le chiacchiere sul sesso, gli auguri di compleanno, viene vagliato tramite parole chiave, che potrebbero essere qualsiasi cosa i ricercatori pensano che possa interessare. Tutto ciò che serve per contrassegnare una comunicazione, è che una delle parti utilizzi un paio o poco più di parole chiave del “dizionario” di ECHELON, “Vive in una bella casa antica bianca sulla Bush Street, proprio vicino a me. Posso spararmi laggiù in due minuti.” Entro tali limitazioni, i computer possono “ascoltare” le chiamate telefoniche e riconoscere le parole chiave evocate. Queste chiamate vengono filtrate e registrate separatamente, per essere ascoltate per intero da esseri umani. La lista degli obiettivi specifici in un dato momento è senza dubbio ampia, arrivando ad includere soggetti come Amnesty International e Christian Aid.

ECHELON ha operato in segreto, senza alcun riconoscimento ufficiale della sua esistenza, per non parlare di un qualsiasi controllo democratico o pubblico o legislativo in merito al fatto se abbia o meno una finalità dignitosa. La vastità della rete globale ECHELON è un prodotto di decenni d’intensa attività da Guerra Fredda. Eppure, con la fine della guerra fredda, il suo bilancio, lungi dall’essere fortemente ridotto, è stato aumentato, e la rete è cresciuta in potenza e portata, ancora un altro elemento che prova che la guerra fredda non è stata una battaglia contro un qualcosa chiamato “cospirazione comunista internazionale”.

Il Parlamento europeo alla fine degli anni ’90 iniziò a svegliarsi riguardo tale intrusione negli affari del continente. Il Comitato per le libertà civili del Parlamento europeo commissionò un rapporto, apparso nel 1998 che raccomandava una serie di misure per affrontare il crescente potere delle tecnologie di sorveglianza. Senza mezzi termini consigliava che: “Il Parlamento europeo dovrebbe respingere le proposte provenienti dagli Stati Uniti di rendere i messaggi privati della rete di comunicazione globale [Internet] accessibili alle agenzie d’intelligence degli Stati Uniti.” Il rapporto denunciava il ruolo della Gran Bretagna come agente doppio, spiando i propri partner europei.

Nonostante queste preoccupazioni gli Stati Uniti hanno continuato ad espandere la sorveglianza di ECHELON in Europa, in parte a causa del crescente interesse per lo spionaggio commerciale, per scoprire le informazioni industriali che avrebbero fornito alle società statunitense un vantaggio sui rivali stranieri.

Esperti della sicurezza tedeschi hanno scoperto, diversi anni fa, che ECHELON è stato impegnato in un grave spionaggio commerciale in Europa. Tra le vittime vi erano imprese tedesche come l’azienda di pale eoliche Enercon. Nel 1998, Enercon sviluppò quello che pensava fosse un’invenzione segreta, consentendo di generare energia elettrica da fonte eolica ad un tasso molto più economico rispetto a prima. Tuttavia, quando la società ha cercato di commercializzare la sua invenzione negli Stati Uniti, subì il confronto con la rivale statunitense Kenetech, che annunciò di aver già brevettato un prodotto quasi identico. La Kenetech poi trascinò in tribunale l’Enercon vietandole la vendita delle proprie attrezzature negli Stati Uniti. In una rara comunicazione al pubblico, un dipendente della NSA, rimasto anonimo, accettò di apparire in silhouette alla televisione tedesca per rivelare come avesse sottratto i segreti dell’Enercon spiando il telefono e le linee di collegamento dei computer che passavano dal laboratorio di ricerca di Enercon alla sua unità di produzione, a circa 12 chilometri di distanza. I piani dettagliati dell’invenzione della società furono poi trasferiti alla Kenetech. Nel 1994, la Thomson SA di Parigi, e le Airbus Industrie di Blagnac Cedex, Francia, persero dei contratti lucrativi, strappati dai rivali statunitensi aiutati dalle informazioni raccolte segretamente da NSA e CIA. Le stesse agenzie origliarono anche i rappresentanti giapponesi durante i negoziati con gli Stati Uniti, nel 1995, per il commercio sui ricambi per auto.

L’industria tedesca lamentava di trovarsi in una posizione particolarmente vulnerabile perché il governo vieta ai suoi servizi di sicurezza di condurre simili atti di spionaggio industriale. “I politici tedeschi continuano a sostenere l’idea, piuttosto ingenua, che gli alleati politici non dovrebbero spiare le rispettive imprese. Gli statunitensi e gli inglesi non hanno tali illusioni”, disse il giornalista Udo Ulfkotte, specialista nello spionaggio industriale europeo, nel 1999. Quello stesso anno, la Germania chiese agli Stati Uniti di richiamare tre agenti della CIA per le loro attività di spionaggio economico in Germania. La notizia affermava che i tedeschi “da tempo sospettavano delle capacità d’intercettazione dell’enorme radar e del complesso per le comunicazioni degli Stati Uniti di Bad Aibling, nei pressi di Monaco di Baviera”, in realtà una stazione d’intercettazione della NSA. “Gli statunitensi ci dicono che è utilizzata esclusivamente per monitorare le comunicazioni dei potenziali nemici, ma possiamo essere del tutto sicuri che non prelevano pezzi di informazioni che pensiamo dovrebbero rimanere del tutto segreti?” si chiedeva un ufficiale tedesco. I funzionari giapponesi, molto probabilmente, hanno sentito simili racconti da Washington riguardo la dozzina di basi d’intelligence dei segnali che il Giappone ha permesso fosse situata sul suo territorio.

Nel loro tentativo di ottenere l’accesso a più informazioni private, la NSA, l’FBI e gli altri componenti dell’apparato di sicurezza nazionale degli Stati Uniti si sono impegnati da anni in una campagna per imporre ai produttori di sistemi di telecomunicazioni statunitensi la progettazione di  attrezzature e reti per ottimizzare le capacità d’intercettazione delle autorità. Alcuni esperti del settore dicono di credere che alcuni aggeggi da esportare fuori dagli USA contengano “porte” della NSA (chiamate anche “botole”). Gli Stati Uniti hanno cercato di convincere i Paesi dell’Unione Europea di adottare delle “back-door” d’accesso nei programmi di crittografia, sostenendo che ciò soddisfaceva le esigenze delle forze dell’ordine. Tuttavia, un rapporto pubblicato dal Parlamento europeo nel maggio 1999, affermava che i piani di Washington sui software di controllo della crittografia in Europa, non avevano nulla a che fare con le forze dell’ordine, ma soltanto con lo spionaggio industriale degli Stati Uniti. La NSA ha anche inviato agenti dell’FBI in missioni d’assalto per violare i libri dei codici degli impianti stranieri negli Stati Uniti, ed ufficiali della CIA a reclutare impiegati delle comunicazione straniere all’estero e ad acquistarne i codici segreti, secondo ex-funzionari dell’intelligence.

Per decenni, a partire dagli anni ’50, l’azienda svizzera Crypto AG ha venduto la tecnologia per crittografia più sofisticata e sicura del mondo. L’azienda ha puntato la sua reputazione e  preoccupazioni per la sicurezza dei propri clienti sulla sua neutralità nella guerra fredda o in qualsiasi altra guerra. Circa 120 nazioni fecero acquisti presso di loro, tra cui i principali bersagli dell’intelligence statunitense come l’Iran, l’Iraq, la Libia e la Jugoslavia, fiduciose che le loro comunicazioni fossero protette, come i messaggi inviati dalle loro capitali alle loro ambasciate, missioni militari, uffici commerciali e centri di spionaggio nel mondo via telex, radio, e fax. E nel frattempo, grazie a un accordo segreto tra la società e la NSA, questi governi consegnavano di propria mano i propri messaggi a Washington, non codificati. Le loro macchine della Crypto AG venivano modificate prima di essere vendute, in modo che quando venivano usate, la chiave di cifratura casuale potesse essere automaticamente e clandestinamente trasmessa insieme al messaggio cifrato. Gli analisti della NSA potevano leggerne facilmente i messaggi come se leggessero il giornale del mattino.

Nel 1986, a causa delle dichiarazioni pubbliche degli Stati Uniti riguardo all’attentato alla discoteca La Belle di Berlino ovest, i libici cominciarono a sospettare che qualcosa di marcio vi fosse con le macchine della Crypto AG e passarono a un’altra impresa svizzera, la Gretag Data Systems AG. Ma sembra che la NSA avesse convinto anche quella. Nel 1992, dopo una serie di circostanze sospette negli anni precedenti, l’Iran giunse a una conclusione simile e arrestò un dipendente della Crypto AG, in Iran per un viaggio d’affari. Finalmente fu rilasciato, ma l’incidente fece si che la truffa iniziasse ad essere svelata sul serio. Nel settembre 1999 fu rivelato che la NSA s’era organizzata con la Microsoft per inserire “chiavi” speciali in un software di Windows, dalle versioni 95-OSR2 in poi. Un informatico statunitense, Andrew Fernandez della Cryptonym in North Carolina, aveva smontato parti del codice di istruzioni di Windows e trovò la pistola fumante, gli sviluppatori di Microsoft non erano riusciti a rimuovere i simboli dei debug utilizzati per testare il software prima che lo rendessero pubblico. Nel codice vi erano le etichette per due chiavi. Una si chiamava “KEY”.  L’altra si chiamava “NSAKEY”. Fernandez svelò la sua scoperta ad una conferenza in cui alcuni erano presenti sviluppatori di Windows. Gli sviluppatori non negarono che la chiave NSA fosse inserita nel loro software, ma si rifiutarono di dire ciò che la chiave facesse, o perché erano state messe lì all’insaputa degli utenti. Fernandez dice che la “porta sul retro” della NSA nel sistema operativo più utilizzato al mondo, rende “assai più facile al governo degli Stati Uniti accedere ai computer.” Nel febbraio 2000, fu rivelato che la Delegazione Affari Strategica (DAS), l’intelligence del ministero della Difesa francese, aveva preparato un rapporto nel 1999 che affermava che la NSA aveva contribuito a installare programmi segreti nel software di Microsoft. Secondo la relazione della DAS, “sembrerebbe che la creazione di Microsoft sia stata in gran parte sostenuta, anche finanziariamente, dalla NSA, e che l’IBM abbia fatto accettare il sistema operativo [Microsoft] MS-DOS dalla stessa amministrazione.” Il rapporto dichiarava che vi era il “forte sospetto di carenze nella sicurezza alimentate da voci insistenti circa l’esistenza di programmi spia su Microsoft, e dalla presenza di personale della NSA nel team di sviluppo di Bill Gates.” Il Pentagono, dice il rapporto, era il più grande cliente di Microsoft nel mondo.

Negli ultimi anni si è saputo che, durante il conto alla rovescia per l’invasione dell’Iraq nel 2003, gli Stati Uniti avevano ascoltato il segretario generale delle Nazioni Unite Kofi Annan, gli ispettori dell’ONU in Iraq e tutti i membri del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite nel corso delle delibere circa le azioni da intraprendere in Iraq. E’ come se l’establishment della sicurezza nazionale statunitense senta di avere il diritto inalienabile di ascoltarci, come se ci fosse un emendamento costituzionale applicabile a tutto il mondo, che afferma che “il Congresso non emetterà leggi che limitino la libertà del governo di intercettare le comunicazioni personali di qualcuno” e come se il quarto emendamento sia stato cambiato, leggendovi: “Le persone devono essere protette nelle loro persone, case, carte ed effetti contro perquisizioni e sequestri ingiustificati, salvo nei casi di sicurezza nazionale, reali o presunti.” (2)

 

 

Lo spifferatore leader di tutti i tempi: Philip Agee

Prima che ci fossero Edward Snowden, William Binney e Thomas Drake… prima che ci fossero Bradley Manning, Sibel Edmonds e Jesselyn Radack… c’era Philip Agee. Ciò che Agee rivelò resta ancora l’informazione più sorprendente e importante della politica estera degli Stati Uniti che ogni spifferatore governativo statunitense abbia mai rivelato. Philip Agee ha trascorso 12 anni (1957-1969) come ufficiale della CIA, soprattutto in America Latina. Il suo primo libro, Inside the Company: CIA Diary, fu pubblicato nel 1974, era un lavoro pionieristico sui metodi dell’Agenzia e sulle loro devastanti conseguenze, apparso in circa 30 lingue in tutto il mondo e fu un best seller in molti Paesi; includeva un’appendice di 23 pagine con i nomi di centinaia di agenti e organizzazioni sotto copertura dell’Agenzia.

Sotto la manipolazione, la direzione e, in genere, il pagamento della CIA, vi erano passati e presenti presidenti di Messico, Colombia, Uruguay e Costa Rica, “il nostro ministro del lavoro”, “il nostro vice-presidente”, “la nostra polizia”, giornalisti, leader sindacali, leader studenteschi, diplomatici e molti altri. Se l’Agenzia voleva diffondere propaganda anticomunista, suscitare dissenso nei ranghi della sinistra o far espellere personale di un’ambasciata comunista, doveva solo preparare alcuni documenti fasulli, presentarli ai ministri e giornalisti appropriati e, subito!, scoppiava lo scandalo all’istante. L’obiettivo di Agee, nel nominare tutte queste persone, molto semplicemente era rendere il più difficile possibile alla CIA continuare a fare il suo sporco lavoro.

Una comune tattica dell’agenzia era scrivere editoriali e notizie fasulle a pubblicare consapevolmente nei media latinoamericani, senza indicazione della paternità o del finanziamento CIA a tali media. Il valore della propaganda di una tale “notizia” poteva essere moltiplicato venendo raccolta da altre stazioni della CIA in America Latina, che le avrebbero diffuse attraverso un’agenzia di stampa o una stazione radio di proprietà della CIA. Alcune di queste storie ritornarono negli Stati Uniti per essere lette o sentite da ignari nordamericani. Il corteggiamento della classe operaia ebbe un trattamento speciale. Dozzine di sindacati, a volte poco più che sigle, vennero create, modificate, combinate, liquidate e ricreate nel tentativo quasi frenetico di trovare la combinazione giusta per competere con i sindacati di sinistra esistenti e sottrarne la leadership nazionale. Nel 1975 queste rivelazioni erano nuove e sconvolgenti, per molti lettori fu il primo indizio che la politica estera statunitense non era proprio ciò che i loro libri di testo delle scuole superiori gli avevano detto, né quello che il New York Times gli aveva riferito. “Il completo resoconto del lavoro di spionaggio,  probabilmente non sarà pubblicato da nessuna parte l’autentico racconto di come funziona un ordinario ‘case officer’ statunitense o inglese… Tutto questo… presentato con una precisione micidiale”, ha scritto Miles Copeland, un ex dirigente della CIA e ardente nemico di Agee. (Non c’è ex-agente della CIA più odiato dai membri dei servizi segreti di Agee, nessuno gli si avvicina; ciò a causa del suo viaggio a Cuba e dei suoi lunghi contatti con i servizi segreti cubani.)

Al contrario di Agee, WikiLeaks ha cancellato i nomi di centinaia di informatori dai quasi 400.000 documenti sulla guerra in Iraq che ha rilasciato. Nel 1969, Agee si dimise dalla CIA (e dai colleghi che “da tempo avevano smesso di credere in quello che fanno”). Mentre fuggiva dalla CIA scrisse Inside the Company, e mentre lottava per la propria vita, Agee fu espulso o respinto da Italia, Gran Bretagna, Francia, Germania ovest, Olanda e Norvegia. (La Germania ovest alla fine gli diede asilo, perché sua moglie era una ballerina di primo piano nel Paese.) Un resoconto di Agee del suo periodo di fuga può essere trovato nel suo dettagliato libro On the Run (1987). E’ una lettura appassionante.

 

 

Note

1. Per leggere delle mie avventure al Dipartimento di Stato e altrove, vedasi il mio libro West-Bloc Dissident: A Cold war Memoir (2002) (http://williamblum.org/books/west-bloc-dissident)

2. Vedasi Con la scusa della libertà: Si può parlare di impero americano?, Capitolo 21, per le note di cui sopra.
Qualsiasi parte di questo articolo può essere diffuso senza autorizzazione, a condizione che l’attribuzione di William Blum, come autore e un link al sito vi siano inseriti.
http://williamblum.org/aer/read/118

 

 

Traduzione di Alessandro Lattanzio

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LIBANO/SIRIA: UN’OPERAZIONE “SEGRETA” SVENTATA IN MENO DI 24 ORE!

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Amin Hoteit, Global Research, 27 giugno 2013

Quando i portavoce dei “nemici della Siria” s’incontravano a Doha, parlavano di “decisioni segrete” [1] che sarebbero state attuate rapidamente per ristabilire “l’equilibrio militare” [2] tra il governo siriano e coloro che hanno delegato sul terreno per attuare i loro progetti con la violenza e il terrorismo, la grande questione ruotava intorno alla natura di queste decisioni volte a consentirgli di raggiungere i loro criminali obiettivi…

La risposta non si è fatta attendere, Ahmad al-Asir [3] veniva spinto a lanciare un'”operazione terroristica”, chiaramente preparata da tempo, contro l’esercito libanese a Saida. Così, iniziava un processo il cui primo passo era scacciare l’Esercito dalla città e dai suoi dintorni, prima di dispiegare i propri simpatizzanti terroristi in tutta l’area, nella speranza d’isolare la Resistenza e il Sud a maggioranza sciita del Libano. Una volta raggiunto il primo obiettivo, la Resistenza e la maggioranza sciita legata alla sua causa avrebbero dovuto scegliere fra due mali: accettare il “fatto compiuto” e lasciarsi strangolare in una Sidone sigillata o prendere l’iniziativa spezzando l’assedio.  Quest’ultima scelta avrebbe portato inevitabilmente all’agognata guerra per diffondere la discordia [fitna] che avrebbe gettato la resistenza in un bagno di sangue, impedendogli di continuare la lotta contro il piano occidentale-sionista sulla regione. Saida è stata scelta come centro della “Fitna” per tre principali sue caratteristiche di base: una posizione che la rende “la porta verso il sud del Libano”, una demografia che la rende il punto di partenza ideale per una guerra settaria, essendo la sua popolazione prevalentemente sunnita e circondata da una maggioranza sciita, e una rappresentanza politica formale che la rende la roccaforte del “Movimento del Futuro”, contrario alla Resistenza. Pertanto, ogni iniziativa della Resistenza per aprire una breccia nell’assedio, avrebbe potuto tranquillamente essere interpretata come una guerra degli sciiti contro i sunniti e il potere politico predominante a Sidone; la missione di al-Asir era scatenare la scintilla che avrebbe raggiunto, in poche ore, i campi palestinesi presumibilmente pronti a prendere fuoco, prima di raggiungere il resto del Libano il giorno dopo.

Al-Asir ha eseguito l’ordine ricevuto dai suoi padroni riunitisi in Qatar. Questi, a sangue freddo e senza preavviso e senza alcuna considerazione per la legge, la fede o la morale, ha aggredito l’esercito libanese. In tal modo, ha davvero pensato che avrebbe potuto destabilizzare l’esercito e spingerlo a lasciare le sue posizioni, rafforzato in ciò dal clima d’illusione estatica che l’ha privato della copertura politica necessaria ad operare al meglio sul campo. Un errore di calcolo, perché l’esercito non ha atteso tale copertura! Il sangue dei caduti è stato più che sufficiente per una risposta rapida ma ponderata contro il terrorismo di al-Asir, allevato in seno al “Movimento del Futuro” e che infliggeva ai cittadini di Sidone ogni tipo di danni e sofferenze. Questa controffensiva ha sconvolto i padrini internazionali e regionali di al-Asir, che si sono affrettati a chiedere un cessate il fuoco! E’ stato lo stesso con la posizione ufficiale del “Movimento del Futuro” che sperava di gettare l’esercito nell’arcana complessità della politica con l’intenzione di riprodurre il processo contraddittorio dell’incidente del checkpoint Koueikhat, nel maggio 2012 [4]. Ma l’esercito libanese ha deciso di proseguire salvando il Libano dal terrorista al-Asir e dai suoi simili, indipendentemente dal pesante silenzio dei politici libanesi, tra cui quello assordante del capo del governo, che ha preso posizione solo una volta che l’operazione era terminata. L’esercito libanese era ben consapevole di dover controllare la situazione entro al massimo 24 ore, altrimenti avrebbe subito delle complicazioni che avrebbero potuto seriamente minare il morale e subire uno scacco difficilmente recuperabile. I suoi soldati d’elite furono inviati in battaglia, al fine di salvare la vita dei civili e dei prigionieri presi come scudi umani da al-Asir e dalla sua banda, dotati di armamento leggero e medio individuale, e senza ricorrere all’artiglieria pesante. In tal modo, ha accettato di pagare un conto pesante [5]!

Infine, nessuna manovra o piagnisteo degli sponsor del “neo-fenomeno al-Asir” ha potuto impedire all’esercito d’eliminare una forte organizzazione terroristica di 250 persone, per lo più stranieri che si erano barricati per mesi in una specie di castello di cunicoli sotterranei riempiti da un’impressionante quantità di armi e munizioni. Tutti coloro che hanno seguito da vicino le operazioni hanno assistito alla straordinaria performance dei militari, ma la cosa più importante è trarre le implicazioni politiche, di sicurezza, militari e strategiche da questa missione, descritta da alcuni come una “missione per la vita o la morte dell’esercito libanese”. Eccone alcuni:

1. Scacco della prima “decisione segreta” presa a Doha. Il Libano è sfuggito a una “fitna” che doveva portare alla “guerra civile” e al “caos”, voluta dal Congresso per pareggiare la vittoria dell’esercito arabo siriano ad al-Qusayr, una vittoria che ha posto fine all’uso del Libano come testa di ponte per l’invio di terroristi e armi in Siria.

2. Dissoluzione dei sogni di coloro che vorrebbero trascinare la Resistenza in un conflitto civile, per compensare la sconfitta d’Israele nel 2006. Non abbiamo dimenticato la famosa raccomandazione strategica del comando militare israeliano a non impegnarsi in una guerra contro la resistenza libanese, se ciò non fosse preceduto da un conflitto interno che la danneggi. Il Libano è sfuggito a una nuova aggressione israeliana!

3. Distruzione delle barriere artificiali “alla porta verso il sud del Libano”, barriere che non erano riuscite a separare i cittadini della regione. Sidone è di nuovo una città aperta a tutti i libanesi, senza distinzione confessionale o ideologica. Sidone è di nuovo la capitale della Resistenza!

4. Conferma a coloro che lo mettono in dubbio, l’identità dell’esercito libanese, pronto a combattere per il Libano, tutto il Libano, qualunque siano le macchinazioni di coloro che professano il settarismo, il regionalismo, le faziosità…

5. Indubbia dimostrazione che le “armi della Resistenza sono destinate alla Resistenza”, che ha sopportato insulti e provocazioni per più di due anni, senza mai interferire con i doveri dello Stato e ha lasciato che l’esercito nazionale lo risolvesse. La Resistenza ha scommesso sull’esercito nazionale e ha vinto!

Infine, la battaglia di Abra [la roccaforte dello sceicco salafita al-Asir], ha portato non solo all’eliminazione di un’organizzazione terroristica, ma ha anche ostacolato il piano statunitense-sionista, poiché il campo degli aggressori sperava di compensare la sua disfatta ad al-Qusayr,  accumula sconfitte. D’altra parte, contrariamente a quanto avvenuto nel 1975 nella stessa città di Sidone, dove la sconfitta dell’esercito fu seguita da una guerra durata 14 anni, il 2013 ha visto l’esercito libanese uscirne in modo sicuro, e tutto il Libano con esso!

 

Dottor Amin Hoteit, 26/06/2013

al-Tayyar http://www.tayyar.org/Tayyar/News/PoliticalNews/ar-LB/amine-hoteit-assir-hh-606.htm

Articolo tradotto da Mouna Alno-Nakhal per Mondialisation.ca

 

 

 

Note:

[1] Gli amici della Siria evocano “decisioni segrete” (http://www.rfi.fr/moyen-orient/20130622-amis-syrie-evoquent-decisions-secretes-faveur-rebelles-syriens)

[2] Gli “amici della Siria” vogliono cambiare l’equilibrio delle forze  (http://www.humanite.fr/monde/les-amis-de-la-syrie-veulent-changer-lequilibre-de-544394)

[3] Ahmad al-Asir, l’imam radicale diventato nemico dell’esercito libanese (http://www.lorientlejour.com/article/820741/ahmad-el-assir-limam-radical-devenu-lennemi-de-larmee-libanaise.html)

[4] La morte di un religioso sunnita ha dato fuoco alle polveri (http://www.jolpress.com/article/la-mort-dun-dignitaire-sunnite-met-le-feu-aux-poudres-683581.html)

[5] Il bastione di Abra conquistato dall’esercito libanese (http://www.lorientlejour.com/article/820853/le-bastion-de-abra-conquis-de-haute-lutte-par-larmee-libanaise.html)

 

Il Dottor Amin Hoteit è un analista politico libanese, esperto di strategia militare e generale di brigata in pensione.

 

Copyright © 2013 Global Research

http://www.mondialisation.ca/liban-syrie-une-manoeuvre-secrete-dejouee-en-moins-de-24-heures/5340627?print=1

 

Traduzione di Alessandro Lattanzio

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HEZBOLLAH COMBATTE IN SIRIA PER DIFENDERE IL LIBANO DA UN BAGNO DI SANGUE

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Mahdi Darius Nazemroaya, Global Research, 28 giugno 2013

 

I media tradizionali non riescono a ricordare che le forze antigovernative in Siria hanno giurato di uccidere tutti gli sciiti e d’invadere il Libano dopo la Siria. Sheikh Hassan Nasrallah, segretario generale di Hezbollah, annunciava l’ingresso nel conflitto siriano del partito il 25 maggio 2013. La Coalizione nazionale siriana denunciava immediatamente Hezbollah mentre il dipartimento di Stato statunitense reagiva all’annuncio di Nasrallah, il 29 maggio, chiedendo l’immediato ritiro dei combattenti di Hezbollah dalla Siria. La patacca della Lega araba avrebbe alla fine, e molto prevedibilmente, condannato l’ingresso di Hezbollah nel conflitto siriano, ignorando il coinvolgimento di Arabia Saudita, Qatar e dei loro alleati.

Qusayr, situata sulla strada tra Damasco e le coste mediterranee della Siria, nella parte nord-occidentale del Governatorato siriano di Homs, sarebbe diventata il punto centrale del coinvolgimento di Hezbollah in Siria. Dopo la vittoria a Qusayr, il guerrafondaio Charles Krauthammer annunciava in modo imbarazzante che gli Stati Uniti esitavano troppo mentre Russia e Iran prendevano in mano la situazione in Siria assieme ad Hezbollah. Gli Stati Uniti non avevano esitato, in realtà, ma non sono riusciti a rovesciare il governo di Damasco. Molto probabilmente, spinto dalla pressione dei finanziatori sauditi e qatarioti, il governo dei Fratelli musulmani in Egitto avrebbe reagito alla vittoria di Qusayr rompendo le relazioni con la Siria, chiedendo la no-fly zone e attaccando Hezbollah per il suo coinvolgimento nel conflitto siriano. A indicare il fallimento del piano di cambiamento del regime, l’amministrazione Obama avrebbe fatto trapelare alla stampa che valutava anche la no-fly zone. Ironia della sorte, il presidente egiziano Morsi e molte delle persone che criticano Hezbollah, Iran e Russia per il loro coinvolgimento in Siria, si rifiutano di criticarne il coinvolgimento turco, saudita, qatariota, inglese, francese, giordano, israeliano e statunitense.

 

 

Hezbollah è un obiettivo del conflitto siriano

Indubbiamente Hezbollah ha discusso delle sue intenzioni di entrare nel conflitto siriano con i suoi sostenitori a Teheran e si è coordinato con l’Iran e, in misura minore, con la Russia, attraverso funzionari iraniani e consultazioni con Aleksandr Zasypkin, l’ambasciatore russo in Libano, e il Viceministro dgli Esteri russo Mikhail Bogdanov, durante la sua visita a Beirut nell’aprile 2013. Il coinvolgimento di Hezbollah in Siria, tuttavia, è puramente difensivo. Inoltre, Hezbollah è uno degli ultimi giocatori esterni ad entrare in Siria. Si tratta dello stesso tipo di articoli che sostengono costantemente una sostanziale presenza militare iraniana in Siria, ma non si potrà mai riuscire a dare una prova solida o una qualsiasi conferma delle loro pretese, che semplicisticamente de-contestualizzano il coinvolgimento di Hezbollah in Siria. Ad esempio, dei razzi furono lanciati su Dahiyah, sobborgo meridionale operaio di Beirut, roccaforte politica di Hezbollah nella capitale del Libano, e sulla città di Hermel, nella Beqaa, poche ore dopo che Nasrallah aveva annunciato che il suo partito sarebbe entrato nel conflitto siriano. La maggior parte degli articoli al riguardo non sono riusciti a riconoscere la natura degli attacchi missilistici. Gli attacchi con i razzi sono stati più di un semplice avvertimento da parte delle forze antigovernative in Siria, e in realtà sono parte di una costante escalation deliberatamente volta ad allargare la guerra in Libano e a diffondere i fuochi della sedizione. Gli attacchi sono stati condotti contro aree abitate da sostenitori di Hezbollah, anche molto prima che Hezbollah intervenisse in Siria. Che sia intenzionale o meno, questo tipo d’informazione nasconde il fatto che Hezbollah è intervenuto in Siria principalmente per proteggere se stesso e la variegata popolazione del Libano, e non identifica i veri autori delle violenze. I media mainstream di posti come Stati Uniti e Regno Unito, inoltre, non parlano delle fratture importanti tra le forze antigovernative in Siria, che hanno giurato di uccidere tutti gli sciiti che cattureranno e d’invadere il Libano dopo la Siria.

Dall’inizio del conflitto siriano, Hezbollah riconosce che il popolo siriano dovrebbe avere le libertà democratiche di cui Hezbollah gode in Libano e che la Siria ha bisogno di riforme politiche. Il suo ingresso nel conflitto siriano è volto ad impedire agli squadroni della morte takfiristi, riunitisi in Siria, di marciare contro il Libano e di commettere lo stesso tipo di crimini, nelle città e nelle case del popolo libanese, che hanno commesso contro il popolo siriano. Poiché i takfiristi hanno annunciato che elimineranno dal Levante gli sciiti e tutti gli coloro che essi non accettano, il conflitto era inevitabile. Piuttosto che aspettare, Hezbollah ha scelto di intervenire in una guerra che le forze antigovernative in Siria hanno deliberatamente avviato contro Hezbollah con una serie di attacchi contro gli sciiti che vivono sul confine siriano-libanese. Come anteprima di ciò che è in serbo per gli sciiti, dopo la loro sconfitta a Qusayr, le milizie antigovernative hanno marciato su Hatla massacrando molti dei suoi abitanti, compresi anziani e bambini, tutti sgozzati. Un video del massacro dal titolo “Assalto e pulizia di Hatla” è stato diffuso, dove l’autore del video afferma che tutti gli sciiti avrebbero subito la stessa sorte. Ciò che è successo ad Hatla, tra stupri e mutilazioni, ha solo rafforzato il sostegno in Libano all’intervento di Hezbollah.

 

 

Hezbollah protegge il Libano e le minoranze del Levante

Il 14 giugno, Nasrallah apparve alla televisione libanese per dire che Hezbollah combatteva per difendere i popoli di Libano e Siria dagli abomini del “piano statunitense, israeliano e takfirista di distruggere non solo la Siria, ma l’intera regione.” Parlando ad al -Manar, ha detto ai suoi sostenitori e alleati che il mondo intero era in Siria a combattere, in un modo o in un altro, usando il denaro o inviando armi o impiegando la guerra mediatica. Era naturale per Hezbollah, uno dei principali obiettivi della guerra, mettersi in gioco. Aggiunse che il governo libanese purtroppo non era riuscito a proteggere i 30.000 cristiani e musulmani libanesi che sono stati attaccati dalle forze antigovernative al confine siriano. Hezbollah ha agito per proteggerli.

I sentimenti di Nasrallah sono ampiamente condivisi dentro e fuori il Libano. Secondo Mohsen Saleh, professore di filosofia politica all’Università libanese ed esperto di Hezbollah, la minaccia del “takfirismo” agisce per por fine ad ogni diversità nella regione, in combutta con Israele e Stati Uniti. I Fratelli musulmani sono legati a questo progetto, ma “ora collassano e degradano” secondo Saleh. “La Fratellanza è salita al potere con un secolo di ritardo”, mi ha detto. Mentre ero in visita nel suo ufficio, ha spiegato che tutte le diverse comunità libanesi hanno paura dei takfiristi, come testimoniano i loro crimini in Siria. Questo è il motivo per cui la Chiesa cattolica maronita e la moltitudine di confessioni cristiane in Libano, sono sempre al fianco di Hezbollah. É fiducioso nel fatto che tutte le diverse sette del Libano miglioreranno i loro rapporti con Hezbollah per via della comune minaccia che sono costrette ad affrontare. Quando ho chiesto a Saleh del Primo Ministro designato del Libano, legato ai rivali di Hezbollah in Libano, ha sottolineato che Tamman Saib Salam non è un burattino. Con un discreto gesto di sostegno, che l’ha distinto dal campo di Hariri, Tamman ha detto che Hezbollah rimane un gruppo della resistenza, non importa quel che succede per via del suo intervento in Siria.

La comunità drusa, che è il gruppo libanese più vulnerabile ad un attacco takfirista al Paese,  riconsidera il suo rapporto con Hezbollah. La comunità drusa non è contenta delle dichiarazioni di Walid Jumblatt, il suo principale leader, che sostiene le attività antigovernative in Siria. Cercando di compiacere il suo ufficiale pagatore saudita di Riyadh, Jumblatt s’è spinto fino a dire che sostiene personalmente il filo-saudita Jubhat al-Nusra. Ben consapevoli dei pericoli per la loro comunità, i drusi di Siria hanno ignorato Jumblatt e continuano a sostenere il governo siriano. Anche i funzionari russi inoltre sostengono la posizione di Hezbollah; Mosca vede la posizione di Hezbollah volta a proteggere le diverse genti di Libano e Siria. Mosca non vuole che le brigate takfirite entrino nel Caucaso del Nord o aggrediscano una delle repubbliche sorelle e alleate dell’Asia centrale. A differenza degli Stati Uniti e dei loro alleati, la politica estera russa in Medio Oriente promuove apertamente la diversità e la tutela dei cristiani e delle minoranze.

 

 

A differenza di Hezbollah, agli Stati Uniti non importa nulla dei cristiani arabi

Il Dr. Naji Hayek, cristiano libanese, riassume tutto affermando: “Hezbollah combatte per noi, per me”. L’ha detto dopo che abbiamo guardato Michel Aoun in diretta su Orange TV dichiarare che sostiene Hezbollah dopo i combattimenti scoppiati nella città libanese di Sidone. Se i takfiristi entrano in Libano, mi assicurava che avrebbe preso il fucile e combattuto. Hayek, un chirurgo, un professore della Lebanese American University e consigliere di Michel Aoun, leader del Movimento Patriottico Libero, il più grande partito politico cristiano in Libano, aveva steso la Syria Accountability and Lebanese Sovereignty Restoration Act e inviato rapporti dell’intelligence sulle attività siriane in Libano al Senato degli Stati Uniti. Una volta era membro del Partito liberale nazionale del Libano e un caro amico di Samir Geagea, lo straordinario signore della guerra cristiano alleato di Stati Uniti e Arabia Saudita. Hayek fu anche ferito mentre combatteva contro i siriani con Michel Aoun.

Le cose sono cambiate da allora e nuove alleanze si sono formate. La Siria non è più un nemico come Samir Geagea non è più un amico. Hayek mi ha detto con amarezza che gli Stati Uniti non hanno mai esitato a manipolare e poi a cedere i cristiani del Libano. Mi ha anche mostrato un teso scambio di email tra lui e Jeffrey Feltman, quando Feltman era in servizio come assistente del segretario del dipartimento di Stato degli Stati Uniti, in cui Feltman, in riferimento a Hezbollah,  accusava il Movimento Patriottico Libero di essersi allineato con il “male”. Con il senno del poi, Hayek si rende conto che gli Stati Uniti avevano motivazioni differenti quando redasse la Syria Accountability and Lebanese Sovereignty Restoration Act. Furiosamente ha parlato di “bambocci 25enni che lavorano presso l’Ufficio Libano nel dipartimento di Stato USA, con una laurea in Storia dell’arte!”, ignorando la realtà del Medio Oriente con cui hanno a che fare.

“Io non sono un fan di Bashar al-Assad, ma lo sostengo al cento per cento perché l’alternativa in Siria è un governo estremista”, ha sottolineato Hayek. Se cadesse il governo siriano, la paura di Hayek è che la corrotta famiglia Hariri e l’Alleanza del 14 Marzo inviterebbero un governo dei Fratelli musulmani a Damasco ad invadere e occupare il Libano. Come interlocutore fondamentale tra Michel Aoun e Stati Uniti, ha spiegato che la famiglia Hariri non ebbe problemi con la presenza siriana in Libano e in realtà era contraria al ritiro siriano dal Libano e che avrebbe ostacolato la sua cooperazione con gli Stati Uniti. Ha spiegato che la ragione di ciò è che gli Hariri utilizzavano l’esercito siriano per imporre la loro egemonia in Libano. “Hariri ha danneggiato i siriani”, ha spiegato. Il clan Hariri avrebbe corrotto tutti gli alti ufficiali siriani in Libano, versandogli milioni di dollari. I problemi tra Hariri e la Siria iniziarono quando Bashar al-Assad volle porre fine alla corruzione in Siria e si rifiutò di lasciare gli Hariri continuare nel loro gioco.

 

 

 

L’articolo è stato originariamente pubblicato su RT Op-Edge.

Copyright © 2013 Global Research

http://www.globalresearch.ca/hezbollah-fighting-in-syria-to-defend-lebanon-from-bloodbath/5340688?print=1

 

Traduzione di Alessandro Lattanzio

 

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